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Pierre e Jean – Guy De Maupassant

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Consigliamo – Una vita di Maupassant


Pierre e Jean è il quarto romanzo di Maupassant ed è edito nel 1888. Esso tratta di una storia di una famiglia piccolo borghese di Le Havre, costituita da quattro persone: il padre, la madre e due figli. Il padre, il signor Roland, è un uomo che possedeva una gioielleria a Parigi, abbandonata per godersi la vecchiaia. Ama le gite in barca a vela, pescare e tutto quello che ricorda una vita di mare, inautentica ma comoda, nella quale si cimenta, non senza l’ausilio di un marinaio appositamente pagato. Egli si presenta come un uomo semplice, piano, un po’ rozzo, incline alla bestemmia facile in casa e ottime maniere fuori di casa, a suo modo un bonaccione senza pretesa alcuna ma risulta incapace di comprendere i più semplici sentimenti dell’animo umano, avendone, egli, così pochi. La signora Roland viene definita come “[…] una donna d’ordine, economa, borghese, un po’ sentimentale, dotata di una tenera anima di cassiera…”. Pierre, il più grande dei due fratelli, è una persona di un’intelligenza acuta, incapace, però, di tradurre il suo intelletto in azioni fruttuose, quanto meno dal punto di vista prettamente egoistico. A trent’anni, può vantare solo un grande numero di fallimenti e una laurea in medicina, giunta non senza un certo dispendio di tempo. Non ha amore, non ha amici, eccezion fatta per il vecchio farmacista, e non ha lavoro ma, tutto considerato, tutto ciò non sembra turbarlo più di tanto, vivendo in quell’atmosfera ovattata e facile che è vivere in famiglia che gli consente una vita priva di grandi iniziative e qualche sacrificio che, però, è più che tollerabile. Jean ha un carattere leggermente più docile del fratello, del quale non possiede l’intraprendenza ma, proprio per questo, vive una vita molto più lineare, senza grandi apici o discese. Il che lo conduce a possedere una laurea in giurisprudenza a venticinque anni e una testa libera da intrusioni pericolose di idee devianti dalla considerazione dell’utilità, considerazioni di un utile che, d’altronde, non diventa mai idea fissa ma solo la condizione necessaria e sufficiente per una vita già decisa a priori: lavoro, famiglia e qualche svago moderato di quando in quando. Per questo Jean, senza troppo sforzarsi, giunge ad innamorarsi della signora Rosémilly: “La giovane vedova era una donna consapevole, che conosceva l’esistenza d’istinto come un animale libero, quasi, a soli ventitré anni, avesse visto subito, compreso e soppesato tutti gli avvenimenti possibili che giudicava in modo sano, realistico e benevolo”.[1] La famiglia Roland vive momenti di alti e bassi senza vertici importanti, come tutte le famiglie piccolo borghesi, nelle quali basta poco per renderle molto infelici e per le quali ci vuole molto per renderle felici. Ma arriva un importante cambiamento. Un vecchi amico di famiglia, il signor Maréchal muore e lascia in eredità una piccola fortuna a Jean. Questo fatto sconvolge la vita della famiglia: Jean ne risulta felice all’inverosimile per le possibilità che gli si aprono di fronte. Il signor Roland non sta nella pelle all’idea che un uomo, di cui era affezionato come ad un buon cliente (com’era stato, d’altronde, Maréchal), possa essere stato tanto generoso nei loro confronti da voler lasciare tutto a suo figlio, Jean. La signora Roland, più sensibile, ha qualche scrupolo o inquietudine in più, ma anch’essa è dominata dalla felicità. Solo Pierre risulta turbato all’idea che anche questa fortuna tocchi al fratello. Nonostante sia stato il primogenito, egli è sempre stato dominato dalla figura ingombrante di un fratello che fa tutto secondo le leggi piane dell’esistenza borghese, fatta di moderati progetti, di idee semplici e concrete. Questo colpo del destino gli impone di razionalizzare. Dapprima si concede di girare per le strade della città fino al momento in cui incontra una giovane cameriera di una taverna che insinua la possibilità, non direttamente dichiarata, che il signor Maréchal abbia lasciato tutto Jean perché Jean è, in realtà, suo figlio. L’insinuazione, al principio, offende brutalmente Pierre, il cui amore per la madre è sconfinato. Ma al dolore per la sua perpetua infelice presunta sfortuna, si somma il pensiero della possibilità: Jean non rassomiglia al signor Roland e la possibilità che la madre si sia concessa ad un altro uomo è ben comprensibile, giacché il signor Roland non possiede neppure una sola delle virtù umane che possono rendere felici una donna e un matrimonio. Ripensamento dopo ripensamento, Pierre finisce per convincersi che la madre ha tradito suo padre e, da quel momento in poi, la storia è un susseguirsi di tragiche rivelazioni, sufficienti a scuotere la felicità di una famiglia normale, senza pretese.

Pierre e Jean si presenta come un romanzo naturalista, nel quale la capacità di Maupassant di rappresentare la realtà fisica e psicologica dei protagonisti raggiunge le vette al quale egli è abituato a condurre il lettore. I personaggi vengono descritti con un asciutto realismo: “La madre, donna d’ordine, economa, borghese, un po’ sentimentale, dotata di una tenera anima di cassiera, smorzava di continuo le piccole rivalità che nascevano ogni giorno dai fatti più banali della vita in comune tra i suoi due figli”.[2] La psicologia, dunque, è l’elemento che fa da contraltare alla realtà fisica in cui viene narrata la vicenda, composta dall’elemento puramente scenico di una Le Havre, città di provincia senza grandi pretese e dalla vita sostanzialmente inerziale, e dall’elemento sociale, all’interno di cui tutto viene svolto in funzione delle convenzioni sociali riconosciute che devono vincolare e decidere le delicate questioni economiche. Tutto il romanzo, infatti, è giocato sul doppio elemento sociale/economico in cui non è mai possibile discernere pienamente l’elemento puramente finalizzato al benessere di una comunità e dei suoi singoli dal fatto propriamente materiale ed economico, giungendo, così, a rappresentare una società composta da una rigida stratificazione censuaria in cui la persona ricca è la persona influente, che può permettersi il lusso di vivere la vita che gli compete. Questa dimensione non va trascurata nell’evolversi della vicenda puramente introspettiva di Pierre, uno dei nuclei tematici più dinamici e ricchi di interesse del romanzo. Infatti, Pierre non è solo svalutato sulla base dei suoi risultati mediocri sul piano lavorativo, ma si sente ulteriormente toccato proprio dal fatto che al fratello, già investito di prestigio superiore al suo, spetta una fortuna ingiustificata. Pierre, d’altronde, non è affatto stupido e il suo vero problema riguarda la sua incapacità all’azione, nel senso che non è stato, fino ad allora, capace di determinare la sua volontà a lungo e nel migliore dei modi. Ma risulta una persona dotata di una certa sensibilità e capacità analitica e, per questo, egli prende una strada che inizia da una semplice invidia per giungere a qualcosa di molto più profondo, che coinvolge molti aspetti del carattere emotivo di una persona, come l’amore filiale, il rispetto verso il proprio fratello, il rifiuto per una serie di ingiustizie. Il risultato è una serie di analisi tutt’altro che fredde ma non per questo non incisive:

Perché indagare? S’era sposata, come si sposano le ragazzine, al buon partito che i genitori presentano. Si erano sistemati nel loro negozio di rue Montmartre, e la giovane donna, imperando dal suo banco, animata dallo spirito della nuova famiglia, da quel senso sottile e sacro dell’interesse comune, che sostituisce l’amore e perfino l’affetto nella maggior parte delle famiglie di commercianti di Parigi, s’era messa a lavorare con tutta la sua intelligenza attiva e accorta per la sperata fortuna della loro casa. E così, la sua vita era trascorsa, uniforme, onesta, senza tenerezza!

Senza tenerezza?… Era mai possibile che una donna non amasse? Una donna giovane, graziosa, che viveva a Parigi, leggeva libri, che applaudiva le attrici che morivano di passione sulla scena, poteva andare dall’adolescenza alla vecchiaia senza che il suo cuore fosse colpito una sola volta? Di un’altra non lo avrebbe creduto: perché avrebbe dovuto crederlo di sua madre?

Certo, anche lei aveva amato come le altre; per quale ragione doveva essere diversa? Perché sua madre?

Era stata giovane, con tutti i poetici abbandoni che turbano i cuori dei giovani. Chiusa, imprigionata nel negozio, accanto ad un marito volgare che parlava sempre d’affari, aveva sognato il chiaro di luna, viaggi, baci scambiati nell’ombra della sera. E poi, un giorno, un uomo era entrato, come nei libri entrano gli innamorati, ed aveva parlato come parlano loro.[3]

Pierre è il vero protagonista del romanzo, sia perché è lui a sostenere il più della trama e della narrazione, sia perché è lui ad avere la personalità più complessa. Egli è, appunto, il protagonista anche per altri due motivi: primo, perché il libro termina con la sua “fuga” da Le Havre, cioè quando cerca ed accetta il lavoro di medico di bordo su una grande nave; secondo perché egli sembra portare alcuni pensieri autentici dell’autore stesso:

E pensando al lavoro passato, al lavoro perduto, agli sforzi sterili, all’accanita lotta ripresa inutilmente ogni giorno, all’energia spesa da quei pezzenti, che si accingevano a riprendere ancora, senza saper dove, quell’esistenza di orribile miseria, il dolore fu preso dalla voglia di gridar loro: “Ma gettatevi in mare con le vostre femmine e i vostri bambini!” E si sentì il cuore talmente stretto dalla pietà che si allontanò non riuscendo più a sopportare la loro vista.[4]

Questa amara riflessione non poteva che spettare a Pierre, l’unico dei personaggi ad avere l’intelligenza sufficiente per pensare a qualcosa che non fosse semplicemente la sua personale condizione umana, per valutare nella sua purezza un intero modo di essere, l’intera essenza di quella turba di persone che non avrà né speranza né pietà, della cui esistenza, talvolta, ci si domanda meravigliati di come sia possibile. Pierre, d’altronde, non è un personaggio semplicemente calcolatore, tutt’altro, egli viene descritto come l’esempio di amore filiale frustrato, giacché, dopo la scoperta della verità, gli verrà impossibile, proprio per quell’amore sì profondo che nutriva in precedenza, vivere in famiglia, condizione che lo costringerà a prendere l’importante decisione di lasciare il tetto di casa:

Non era più un dolore morale e torturante, ma lo smarrimento di una bestia senza rifugio, l’angoscia materiale d’essere errabondo, privo di tetto e che sta per essere assalito dalla pioggia, dal vento, dall’uragano, da tutte le forze brute del mondo. Mettendo il piede su quel bastimento, entrando in quella cabina oscillante sulle onde, il suo corpo di uomo che ha sempre dormito in un letto immobile e tranquillo s’era ribellato contro l’incertezza dei giorni futuri. Fino allora s’era sentito protetto dal muro solido piantato nella terra che lo sostiene dalla certezza del riposo nello stesso posto, sotto il tetto che resiste al vento. Ora tutto quello che ci piace affrontare nel tepore della casa chiusa, si sarebbe trasformato in un pericolo, in una sofferenza costante.[5]

Queste parole di Maupassant rendono tutti i sentimenti della condizione dell’esule in procinto di partire, laddove senta di aver bruciato i ponti con il passato e con la sua casa natia: se ne può concludere, dunque, che una vita siffatta è sempre stata non priva di suoi costi e difficoltà, nonostante molte ingenue credenze attuali. L’elemento umano simbolicamente rappresentato da Pierre, senza forzare troppo la mano nell’interpretazione, è l’uomo sgomento di fronte al tradimento non direttamente della madre, ma di cosa ci ha fatto giungere in questa Terra: la frustrazione del figlio che scopre tutte le verità che non si vorrebbero scoprire sembra proprio indicare la presa di coscienza dell’uomo di belle speranze di fronte all’amara scoperta che non si è venuti al mondo per essere felici e che chi ci ha creato ci ha inserito in un universo vacuo, brutale e ipocrita, le cui lusinghe sono destinate a lasciare il passo alle amare scoperte. Risulta, in fine, che, a parte la signora Roland, Pierre sia, in fondo, l’unico personaggio dotato di qualche qualità umana rilevante e positiva, come l’intelligenza, la criticità e la capacità di vedere la realtà per quella che è. Nella visione cupa di Maupassant, questa intelligenza e capacità critica non sono che strumenti negativi per l’individuo, giacché la realtà è dominata dal male di vivere e, nel migliore dei casi, da una comodità priva di valore, sufficiente a rendere felici solo gli stolti, gli unici esseri al mondo che possono aspirare ad una certa soddisfazione, sebbene passeggera. Per tanto, Pierre è, sì, condannato alla sofferenza, ma è quella che Maupassant sembra riconoscere come componente fondamentale della vita dell’uomo che non si lascia puramente condurre dagli eventi ma, quanto meno, li contempla alla luce del suo intelletto. Ma questo, appunto, non produce che ulteriore fonte di sofferenza e consapevolezza del limite e dell’ingiustizia del vivere.

Jean è presentato come un carattere placido, dell’uomo che ha in odio lo sforzo e, per ciò, riconosciuto da tutti come piacevole, perché incapace di difendere un’opinione controcorrente e perché si lascia volentieri guidare da quello che statisticamente viene approvato dai più. Egli rappresenta l’anima piccolo borghese nella quale ogni inclinazione non è mai il frutto di un interesse intelligente e indirizzato ma sempre il riflesso o il riflusso di una volontà di un altro. Egli ha un carattere cedevole e arrendevole e, dunque, risulta, alla fine, puramente determinato dalla sua stessa mollezza: “Era della razza dei temporeggiatori, che rimandano sempre al domani e, quando si doveva prendere subito una decisione, cercava ancora, per istinto di guadagnare qualche momento”.[6] Sia alla menzogna di una vita siffatta, sia alla verità della realtà che si impone come un proiettile sparato nella mente di un uomo, si approccia Jean:

D’altra parte, egli non era uomo da resistere a lungo. Non gli piaceva combattere, contro se stesso. Si rassegnò, dunque, e per una tendenza istintiva, un innato amore per il riposo, per la vita dolce e tranquilla, si preoccupò subito dei mutamenti che sarebbero sorti intorno a lui e che lo avrebbero nel tempo stesso toccato. Li prevedeva inevitabili e, per allontanarli, si decise a sforzi sovrumani di energia e di attività.[7]

In fondo, egli è l’uomo che, pur lasciandosi vivere e lasciandosi condurre dalla corrente, per una serie di circostanze variamente fortunate e di un carattere cedevole, riesce a galleggiare e trarre dalla sua stessa superficialità ragioni per essere soddisfatto di se stesso.  Ma la felicità non spetta neppure a lui, sembra lasciare intendere l’autore.

La signora Roland si dimostra una donna buona, vittima delle circostanze e del rimorso, di animo fine. Alla fine, così ricorda il defunto signor Maréchal:

Era sempre buono e premuroso, ma io non ero più per lui ciò che ero stata. Era finita! Oh, come ho pianto!… Com’è miserabile e ingannatrice, la vita!… Non c’è nulla che duri… e siamo giunti qui: e mi più l’ho rivisto; non è venuto mai… Prometteva in tutte le sue lettere!… Ed ecco che è morto!… Ma ci amava ancora, poiché ha pensato a te. Io lo amerò fino al mio ultimo respiro e non lo rinnegherò mai e voglio bene a te perché sei suo figlio e non potrei vergognarmi di lui davanti a te! Capisci?[8]

Già in un altro romanzo Maupassant aveva avuto modo di descrivere e pensare alla condizione della donna del suo tempo. Se in Una vita il soggetto principale è una giovane aristocratica di provincia, in Pierre e Jean, invece, l’attenzione è spostata sul figlio e su una donna di condizione non nobile ma condannata a priori da una società fortemente maschilista ad una vita di perpetua infelicità: si sposa troppo giovane ed inesperta, con un marito che viene riconosciuto da tutti, anche dai suoi figli, come un essere imbelle, privo di sentimenti elevati e capace solo di “parlar d’affari”. La donna diventa facile preda di chi le fa intravedere un po’ di affetto, in un mondo nel quale l’unica fonte di felicità poteva venire dai figli ma non dalla compagnia di un uomo moderatamente detestabile. La signora Roland si innamora, così, di un uomo che riesce, in qualche modo, a darle la forza di provare empatia nel mondo, un bisogno, questo, da sempre necessario per sopravvivere e vincere le forze resistenti alla vita stessa. La donna, con questo espediente, riesce a vivere in un ambiente casalingo nel quale doveva soggiacere alle voglie del marito, sia sessuali che programmatiche, senza poter avere alcuna seria voce in capitolo anche perché i singoli individui della società piccolo borghese ratificavano la difesa dei diritti del maschio sulle femmine, così che, in assenza di ogni parità, era il maschio a dominare e prendere decisioni, se aveva quel tanto di voglia di farlo. Così, lo spirito umano, l’affetto ferito della donna si indirizza verso l’unico sfogo che la vita gli poteva offrire. Ma questo conduce alla rottura di un patto primordiale riconosciuto dalla società occidentale sin dal suo apparire e, per ciò, tanto più forte perché sedimentato quel tanto che basta da renderlo un fatto ovvio privo di ovvietà: la fedeltà coniugale dovrebbe essere un premio non un fine ma non in questo modo è intesa normalmente, così che si pretende l’infelicità perpetua nel matrimonio piuttosto che rompere il patto. Questa cattiva coscienza della signora Roland la condurrà a condannare se stessa nel momento della scoperta della verità da parte dei figli e a rendere la sua stessa vita un tormento. Lei è vittima e causa dei mali del mondo: il male che si era abbattuto su di lei si ritorce contro i figli perché per sfuggire ad un male la povera donna è ricaduta in un altro. E questa è, sostanzialmente, la visione della realtà sociale di Maupassant, nella quale l’entropia è sempre in costante aumento e per la quale non sussiste un vero rimedio: la donna doveva sopravvivere e, dunque, finisce per innamorarsi e amare un uomo che non è suo marito, ma, per questo, causerà la sofferenza per i suoi figli.

Il contraltare femminile della signora Roland è la giovane vedova Rosémilly, presentata come una donna molto ragionevole e si dimostrerà tale nell’assenza totale di grande slancio umano nei confronti di Jean, nel momento in cui quest’ultimo le chiederà la mano. Prima di tutto indirizzata a quantificare precisamente i vantaggi materiali, la signora Rosémilly rappresenta la donna affarista di se stessa, libera sia nel pensiero che nel portafoglio e, così, capace di vivere nel nome di una maggiore quotazione di sé nella società. Questo nuovo genere di individuo asessuato fa parte della borghesia di nuovo modello in ascesa durante il periodo della prima rivoluzione industriale. Da osservare che la signora Rosémilly è un personaggio che ricorda molto i vari individui femminili presentati in Bel-Ami.

Del signor Roland abbiamo già detto abbastanza, così veniamo ai nuclei centrali del libro. Il primo riguarda la descrizione di un mondo socialmente brutale, le cui regole sanciscono solo dei comportamenti atti a salvaguardare particolari interessi di classe o di casta, senza per questo entrare nel merito di cosa ciò possa costare a livello del singolo. Tutti i personaggi sono vincolati all’osservazione di tali regole sociali e nessuno di essi è sufficientemente in grado di ribellarsi ad esse. Un secondo nucleo tematico riguarda, per tanto, l’inesorabilità del destino tracciato dagli elementi psicologici ed economici e sociali dei singoli individui. Nessuno è veramente padrone della sua vita e tutto quello che può fare è cercare di mediare alle passioni e dolori dirompenti che la vita stessa impone loro di vivere. Ed essendo la vita una cosa brutale, vuota, ingannatrice, conduce gli uomini a soggiacere alla vacuità di un’esistenza inutile, fatta di mali che vanno via via ad aumentare senza mai offrire la speranza di una redenzione possibile. Questo, in fondo, è il mondo di Maupassant. L’elemento rappresentativo di ciò è offerto proprio da ciò che ha scatenato l’evolversi degli eventi: un’eredità cospicua doveva essere una manna giunta dal cielo per una famiglia non ricca e si risolve in un evento devastante, capace di rivoltare e bruciare l’animo, senza che il tornaconto economico sia premio sufficiente per tutto ciò. Se si pensa che un’eredità può essere presentata come un lieto fine per un altro romanzo, in Pierre e Jean, invece, non è altro che la causa scatenante dell’odio di un fratello, dell’angoscia di una madre, della fine di un amore filiale puro e devoto di un figlio, come a dire che gli elementi materiali sono incapaci di riscattare i rivolgimenti dell’animo ma sono più forti di essi. In fine, il mondo di Maupassant è senza perdono e comprensione perché, ciascuno per sé, deve seguire la sua strada già tracciata dal destino e, d’altronde, le stesse regole sociali sembrano essere fabbricate apposta per suggellare la morte individuale fatta di solitudine, angoscia e progressivo deterioramento della condizioni di vita.

Pierre e Jean è un romanzo straordinario e perfetto nel quale Maupassant delizia il lettore per la perfezione del suo stile, dei suoi temi e della sua acutezza. Ancora una volta un mondo senza speranza, un mondo ad una dimensione. Ma è da questo genere di visioni che bisogna prendere le mosse per una migliore e più ampia comprensione di quello che, altrimenti, risulterebbe davvero un mondo privo di speranza.


Guy De MAUPASSANT

PIERRE E JEAN

GARZANTI

PAGINE: 144

EURO: 7,00.


[1] Maupassant G. D. (1888), Pierre e Jean, Garzanti, Milano, Cit., p. 4.

[2] Maupassant G. D., (1888), Pierre e Jean, Garzanti, Milano, p. 4.

[3] Maupassant G. D., (1888), Pierre e Jean, Garzanti, Milano, pp. 62-63.

[4] Maupassant G. D., (1888), Pierre e Jean, Garzanti, Milano, p. 139.

[5] Maupassant G. D., (1888), Pierre e Jean, Garzanti, Milano, pp. 131-132.

[6] Maupassant G. D., (1888), Pierre e Jean, Garzanti, Milano, p. 106.

[7] Maupassant G. D., (1888), Pierre e Jean, Garzanti, Milano, p. 115.

[8] Maupassant G. D., (1888), Pierre e Jean, Garzanti, Milano, 112-113.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

2 Comments

  1. Alessandro Alessandro 30 Luglio, 2020

    Complimenti per le tue recensioni letterarie. Ho letto quelle su Maupassant, che ho notato essere uno dei tuoi autori preferiti come anche uno dei miei, e le ho trovate davvero ottime.
    Se posso, visto che apprezzi il realismo-naturalismo-verismo, ti consiglio la lettura dei racconti di Cechov, quelli “drammatici” non umoristici, un altro grande maestro del genere, anche se probabilmente avrai già letto qualcosa di suo.

    • Redazione Redazione 31 Luglio, 2020

      Caro Alessandro,

      Grazie per il tuo caloroso commento. Capita di raro, ma come avrebbe detto Spinoza, ciò che c’è di perfetto è difficile quanto raro. Quindi, grazie davvero. Si, confermo che, in un certo senso Maupassant lo considero uno dei miei scrittori preferiti (Pierre e Jean, Una Vita, e alcuni racconti si possono eguagliare ma non superare). Come artista, come scrittore, è evidentemente tangibile con lo sguardo di chi ne ammira la sostanziale perfezione. Non ne apprezzo particolarmente l’implicito sensismo neo-nichilistico di fondo nella sua visione del mondo, se di filosofia si può parlare. E’ di quelle “persone” che comprendo bene senza poterlo sostenere. Venendo a Chechov, come avrai notato, in SF non c’è molto spazio per i russi – almeno da parte mia, perché in effetti li trovo sovrabbondanti filosoficamente. Ovvero, preferisco a quel punto leggere un filosofo piuttosto che una discussione tra due santoni che diatribano su qualche presunto concetto iperuranico nella Russia zarista, tanto per intenderci. Questioni di gusti. So che Checov potrebbe invece essere dei miei interessi. Purtroppo, però, vivendo principalmente di materiali da leggere, e data la mia determinazione per le pubblicazioni in lingua inglese, di fatto leggo quasi solo libri di autori Anglofoni. Ma mi sono già ripromesso di dare una chance a Checov… bisogna solo vedere quando!

      Un caro saluto e grazie per il gentile commento – che che se ne dica, fan sempre piacere in un mondo di attrito permanente!,

      Gian

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