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Consigliamo – l’intervista al Professor Tagliagambe
Il testo di Max Scheler (principale fonte d’informazione sulla sua antropologia filosofica) risponde alle domande che cos’è l’uomo e qual è la sua posizione nell’essere.
La mancanza d’un’idea unitaria dell’uomo è determinata in buona misura dall’incuranza reciproca tra antropologia teologica, filosofica e scientifica; ovvero, manca una concezione unificante. L’uomo appare a se stesso ancora come un enigma. Questi fatti giustificano il tentativo intrapreso da Scheler di sviluppare un’antropologia filosofica, basandosi su conoscenze provenienti da diversi campi del sapere, in particolare di integrare scienza e filosofia.
Per capire qual è la particolare posizione metafisica dell’uomo, dobbiamo chiarire il termine e il concetto di ‘uomo’. Il concetto di uomo è ambiguo. Di fronte ad un termine designante qualcosa di appartenente al (vertice del) genere animale, abbiamo un termine designante qualcosa che si oppone all’animale. Se l’uomo abbia una posizione particolare del tutto differente da qualsiasi altro essere vivente nel mondo, è la questione, risolta la quale avremo il concetto di ‘uomo’.
Per chiarire la particolare posizione dell’uomo bisogna esaminare allora la struttura del mondo bio-psichico. Dunque, innanzitutto, bisogna esaminare le energie e facoltà psichiche. La sfera psichica coincide con la sfera vivente, e le cose viventi sono caratterizzate essenzialmente dalla capacità di riconoscersi, ovvero hanno un modo di essere per se stesse e interiore. Vediamo i gradi del vivente.
Il grado più basso del mondo psichico (nondimeno essenziale anche alle espressioni dei gradi più alti) è un impulso affettivo privo di coscienza, sensazione e rappresentazione. L’affetto e la tendenza (verso qualcosa) non sono ancora separati, ché il primo non ha oggetto.
Questo primo grado è attribuibile già alla pianta, che avrebbe dunque degli stati interiori, anche se non sensazioni o coscienza. Il moto essenziale della forma di vita vegetativa è un impulso verso l’esterno (affettivo extatico). La vita a questo stadio non ritorna su se stessa (re-flexio), ovvero non ha sensazioni e interiorità cosciente. La sensazione infatti ha bisogno di un centro (nell’essere vivente) a cui fare riferimento e segnalare, cosa che manca nella pianta; e la coscienza ha bisogno della flessione su se stessa della sensazione (in occasione di una resistenza), movimento che è assente nella pianta. Nella pianta comunque troviamo già il fenomeno dell’espressione (= una certa fisionomia degli stati dell’impulso affettivo), anche se manca ad essa la possibilità di comunicare.
L’impulso affettivo è presente anche nell’animale e nell’uomo (dove per altro sono presenti tutti i gradi essenziali della vita) – in quest’ultimo è proprio la resistenza che trova nel mondo il suo impulso affettivo a determinarne senso di realtà e base emotiva.
Il secondo grado essenziale è l’istinto. Definiamo istintivo un comportamento che: a) ha un senso (o piuttosto uno scopo in relazione all’insieme del portatore di vita), ovvero è tendenzialmente utile a se stessi o agli altri; b) si svolge a ritmo rigido e reiterante, ed ha per genesi solo una manifestazione parziale della formazione della specie (ovvero, non è suscettibile di modificazione); c) risponde a situazioni tipiche importanti per la specie (l’utilità a servizio della specie comporta che l’istinto sia innato ed ereditario); d) è completo fin dall’inizio, ovvero non dipende dal numero dei tentativi che l’animale fa per arrivare ad una certa situazione; e) non deriva le modalità del proprio estrinsecarsi dalle esperienze sensibili esterne, anche se ciò che l’animale può sentire o rappresentare è nondimeno determinato a priori dalla relazione dei suoi istinti alla struttura dell’ambiente; f) è una crescente specializzazione dell’impulso affettivo.
La terza e successiva forma psichica è il comportamento conforme all’abitudine, che include i fatti relativi all’associazione (di rappresentazioni), alla ripetizione e al riflesso condizionato. Questa forma costituisce la memoria associativa. Come sale il grado di evoluzione, aumenta il grado di sintesi e ordine delle associazioni; il pensiero dei popoli primitivi e dei bambini è fantasia suscitata dal desiderio e dalle tendenze di base – a questo pensiero sopravvengono successivamente, grazie al pensiero razionale, collegamenti sintetizzanti, maggiore organizzazione e uniformità di associazione e abitudini consolidate. È il passaggio dal caso (caos) al senso (ordine), trasversale all’ontogenesi, alla filogenesi, e allo sviluppo delle forme di vita prese nel loro complesso – esso viene raggiunto per il principio dei tentativi e degli errori, determinato appunto da questa terza forma psichica.
Il principio della memoria associativa è presente in tutti gli animali (animalia), ma trova il suo massimo sviluppo nell’uomo. Il principio si accompagna all’imitazione e alla copia, specializzazioni della tendenza alla ripetizione applicata al comportamento ed esperienza altrui. L’unione dei due fenomeni determina la comparsa della tradizione, prima forma di trasmissione del sapere tra generazioni, non cosciente e non mediata da forme storiche di sapere. La tradizione permette un certo progresso, ma lo sviluppo umano si fonda sulla progressiva distruzione della tradizione (in quanto la tradizione è ciò che è presente e non ancora obbiettivato in una determinata distanza temporale), che viene oggettivata in sapere storico, gettata nel passato e tolta dal presente dove suggestionava l’uomo.
Nella genesi del mondo psichico la comparsa del principio associativo si accompagna gradualmente al declino del puro istinto, al progresso della centralizzazione e della meccanizzazione della vita organica, all’emancipazione dell’individuo dalla specie e dall’istinto. Tendenze, sentimenti ed affetti tendono a rendersi autonomi rispetto alla loro funzione biologica originaria.
La natura dà, nella quarta forma, un correttivo alla terza. Si tratta dell’intelligenza pratica, ovvero ancora essenzialmente legata ai fini pratici dell’organismo. Questa forma è strettamente connessa all’atto e alla facoltà di scelta. L’intelligenza pratica è la capacità di rispondere adeguatamente ad una situazione nuova, capacità che non s’accompagna alla memoria associativa, la quale contempla solo la possibilità di comportamenti acquisiti per addestramento.
È intelligente un comportamento eseguito senza tentativi precedenti, che, di fronte ad una situazione nuova, ha un senso, ovvero è atto al servizio d’un certo impulso o d’un’esigenza dell’organismo. Usando concetti psichici definiamo l’intelligenza la comprensione d’uno stato di cose basata sia su dati tratti dall’esperienza che anticipati dalla rappresentazione. Dunque propria dell’essere intelligente è la capacità di anticipare gli eventi dell’ambiente, e la capacità di produrre, non solo di riprodurre.
Ora sono le reciproche relazioni oggettive tra i singoli elementi dell’ambiente (di eguaglianza, similitudine, equivalenza, mezzo, causa etc.), scoperte improvvisamente dall’individuo, e in relazione alla soddisfazione di certe sue tendenze, che causano il presentarsi di una nuova rappresentazione, e non, come nei gradi precedenti, i collegamenti di esperienze simili ripetute o la ripetizione di strutture rigide e tipiche dell’ambiente. L’animale si emancipa ancora dalla propria natura.
Secondo Max Scheler le scimmie sono intelligenti in questo primo senso. Questa intelligenza non è cosciente, ma piuttosto intuitiva, e comunque non derivata dall’istinto o dall’abitudine. Se l’animale possiede tale intelligenza, allora possiede anche la facoltà e l’atto di scelta, dal momento che non è mosso semplicemente dalla particolare tendenza più forte – l’animale comunque non è ancora in grado di preferire un valore ad un altro (ad es. non può preferire il valore dell’utile a quello del dilettevole, perché questa preferenza è indipendente dalle cose particolari e concrete in cui i valori si realizzano, ed è inoltre legata ad un sentire particolare proprio dell’uomo – per questa teoria vedi: Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori).
Quando questa intelligenza è al lavoro, l’ambiente circostante l’essere vivente si struttura nelle sue relazioni obbiettive, e le cose acquistano il carattere astratto di una relazione tra l’individuo e le cose stesse, ad esempio una cosa diventa ‘strumento utile a raggiungerne un altro’. Questo strutturarsi dell’ambiente può dare origine all’impressione per cui è il mezzo che si muove verso il fine; questo è l’iniziale emergere della relazione causale (da non ricondursi dunque alla successione regolare delle impressioni, come pensava Hume), basata sull’oggettivazione di un’influenza sulle cose.
Se anche l’animale è intelligente, l’uomo è distinto da esso da una differenza di grado o d’essenza? Né dall’una né dall’altra, o da tutt’e due. L’essenza e la posizione particolare dell’uomo trascendono l’intelligenza; ovvero il grado successivo e propriamente essenziale all’uomo non è più pertinente alla sfera psichica o vitale. Ciò che individua l’uomo non è un nuovo stadio della vita, ma un principio opposto a ogni forma di vita. Il fatto nuovo è da ricondursi al fondamento ultimo delle cose, di cui la vita stessa non è che una manifestazione.
Questo principio fondamentale è lo spirito. La persona è il centro di atti dove lo spirito si manifesta, e lo spirito è essenzialmente (possibilità di) emancipazione e libertà dalle spinte originarie della vita, dunque oggettività, nel senso che l’uomo è determinato dalle cose come le rappresenta oggettivamente (ovvero prescindendo dal loro legame con la vita, nella loro quiddità).
L’attività dell’animale (anche l’intelligente) è espressione di istinti, impulsi tendenziali e percezioni sensibili; l’attività dell’essere dotato di spirito è invece motivata dalla quiddità pura di intuizioni o rappresentazioni elevate ad oggetto, in modo del tutto indipendente dagli istinti e dagli impulsi, nonché dall’aspetto dell’ambiente. L’uomo è dunque l’unico ad essere aperto al mondo illimitatamente, infatti l’animale non è in grado di distanziarsi dalla realtà, di coglierla oggettivamente. Se l’animale è cosciente, solo l’uomo è però (possibilmente) autocosciente, e così è l’unico a potersi determinare liberamente, a poter rifiutare liberamente la propria vita, dal momento che è in grado di oggettivare se stesso.
L’essere vivente si delimita da sé, ovvero ha un’individualità. L’impulso della pianta ha un centro e un ambiente nel quale si estrinseca, anche se i suoi diversi stati non vengono comunicati poi al centro; cosa che succede invece nell’animale, il quale possiede sensazione e coscienza, e dunque è dato a sé stesso una seconda volta; infine l’uomo, grazie allo spirito, è dato a sé stesso anche una terza volta, nell’autocoscienza. La persona arriva così a trascendere l’opposizione stessa tra organismo e ambiente.
Ma questo centro, a partire dal quale l’uomo pure oggettivizza, non può appartenere al mondo fatto oggetto, ma solamente al fondamento ultimo dell’essere. Lo spirito non è oggettivizzabile; esso è “un’attualità pura, avente il suo essere esclusivamente nel libero compimento dei suoi atti” (Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo; d’ora in poi PUC). Il centro (la persona) è solo un ordinamento di atti che si realizza in e da sé stesso, mai una cosa o un oggetto. Non possiamo “oggettivare l’essere della nostra persona, ma possiamo tutt’al più raccoglierci e concentrarci in esso” (Scheler, PUC). Così anche le altre persone non possono essere oggettivate, e possiamo comprenderle solo identificandoci con esse, ripetendo con esse i loro atti, ovvero la comprensione non è comprensione di un’oggettivazione ma piuttosto della persona stessa, del suo volere e del suo amore. Lo stesso vale anche per gli atti dello spirito soprasensibile, essere da ammettersi senz’altro se ammettiamo che ci sia un ordine di idee che si realizza nel mondo indipendentemente dalla coscienza umana.
Proprio dello spirito è l’atto di ideazione, che consiste nel cogliere le strutture eidetiche costitutive del mondo, a partire da esempi singoli ed empirici, e indipendentemente dal sapere strettamente scientifico. Esempio: sento un dolore. L’intelligenza chiede: da cosa proviene e come posso eliminarlo. La questione può essere risolta dalla scienza. Lo spirito chiede: cos’è in realtà un dolore? E come deve essere il principio delle cose perché sia possibile il dolore? Le conoscenze ottenute dallo spirito (eidetiche) sono valide per tutte le cose che hanno una certa essenza, ovvero indipendentemente dalla particolare struttura conoscitiva umana. Queste conoscenze hanno due funzioni: per la scienza costituiscono le premesse della conoscenza e indicano la via alla ricerca; per la metafisica sono le finestre sull’assoluto.
Ora la capacità di scindere l’esistenza dall’essenza, di conoscere cioè a priori, è il carattere fondamentale dello spirito umano. Per capire l’essenza dell’uomo bisogna capire la struttura dei singoli atti che portano all’atto ideativo. Per cogliere le essenze l’uomo prima di tutto sopprime il carattere di realtà delle cose e del mondo, il mondo come oggetto.
Per capire come si dà questo atto di riduzione, bisogna capire in cosa consiste la nostra esperienza interiore della realtà. Quest’esperienza, che precede ogni nostra coscienza, rappresentazione e percezione del mondo, ci è data dall’impressione interiore di una resistenza, sperimentata dall’impulso affettivo. Quest’esperienza testimonia prima di ogni altra l’esistenza (la realtà) delle cose. La realtà delle cose e il giudizio stesso sulla loro realtà allora è accompagnato da un certo vissuto interiore.
Possiamo capire cosa significa il momento riduttivo, la derealizzazione: significa annullare, in via sperimentale, l’impressione della realtà con il suo correlato affettivo. Significa inoltre togliere l’angoscia e la paura derivate dalla pressione esercita sull’uomo dalle cose semplicemente in quanto esistenti, dal momento che derealizzare significa abolire l’impulso vitale in rapporto al quale il mondo appare come resistenza. “L’uomo è perciò l’essere vivente che, in virtù del suo spirito, è in grado di comportarsi in maniera essenzialmente ascetica nei confronti della sua vita, che lo soggioga con la violenza dell’angoscia” (Scheler, PUC). Infine l’uomo sublima (ovvero trasforma) l’energia delle proprie tendenze in attività spirituale.
Il movimento di derealizzazione e sublimazione non determina l’essere dello spirito, ma semplicemente influisce sull’energia da esso utilizzata e quindi sulla sua possibilità di manifestarsi. Lo spirito, attributo dell’essere stesso, originariamente è privo di forza e attività, e solo la derealizzazione seguita dalla sublimazione gli danno forza e attività. Lo spirito ha essenza e leggi proprie, ma non energia propria; l’atto negativo della volontà che reprime le tendenze non fa emergere lo spirito, ma lo dinamizza, lo toglie dalla sua impotenza (dovuta al fatto che è un insieme di pure intenzioni). È però lo spirito ad introdurre la rimozione delle tendenze, in relazione al rifiuto di tutti gli impulsi istintivi contrari, guidato dalle idee e dai valori, nonché a introdurre il privilegio verso le tendenze sopite che favoriscono le idee e i valori, “al fine di coordinare gli impulsi istintivi in maniera tale che essi realizzino il progetto della volontà imposto dallo spirito, traducendolo in realtà” (Scheler, PUC). Lo spirito non solo oggettiva ma, grazie al processo di derealizzazione, è in grado di intuire le idee e le essenze. Lo spirito non può comunque generare o sopprimere, aumentare o diminuire le forze istintive, ma solamente muovere queste forze al fine di realizzare la volontà dell’organismo.
Lo spirito dunque è autonomo nella sua essenza e nelle sue leggi ma dipende allo stesso tempo dall’energia del vitale, dal momento che non ha potenza in sé. In questo senso ciò che è inferiore è potente, mentre ciò che è superiore è in sé impotente. Lo spirito può realizzarsi solo attraverso il vitale. “Lo spirito come tale prospetta le idee alle forze istintive, mentre la volontà procura o sottrae agli impulsi istintivi, già presenti, quelle rappresentazioni atte a realizzarle concretamente” (Scheler, PUC). La volontà non può agire direttamente sulle tendenze, ma può modificarne le rappresentazioni.
Questa concezione dello spirito è differente rispetto a molte concezioni dell’uomo proposte. Lo spirito non è concepito come avente in sé energia e potenza, e non è concepito come scaturente esclusivamente dalla negazione della realtà.
Chiarito cosa s’intende per spirito, possiamo tornare al problema della natura umana. Da quanto detto risulta evidente che non v’è separazione ontologica (cartesiana) tra anima e corpo, soprattutto non v’è un’anima tanto separata dagli impulsi, e che piuttosto “vi è un’unica e medesima vita che possiede una struttura che è psichica quando è interiore e fisica quanto è esteriore” (Scheler, PUC), dal momento che i processi fisiologici e quelli psichici sono uguali ontologicamente. Dire ‘fisiologico’ piuttosto che ‘psichico’ esprime solo un diverso punto di vista sull’unico e medesimo processo vitale. I processi vitali sono dunque accessibili sia dal di fuori che dalla coscienza. E non solo ogni atto vitale ha due aspetti paralleli, uno psichico e l’altro fisico, ma anche ogni atto spirituale, dal momento che trae la propria forza d’azione dalla sfera vitale delle tendenze, grazie alla quale si manifesta alla nostra esperienza. La vita psico-fisica è una, e questo vale per tutti gli esseri viventi, uomo compreso. L’opposizione ontologica si dà allora tra vita e spirito. Nondimeno vita e spirito sono nell’uomo interdipendenti: “lo spirito ideifica la vita, ma solo la vita può rendere attivo ed effettivamente reale lo spirito” (Scheler, PUC). E non si dà lotta tra loro, piuttosto essi sono ordinati l’uno all’altro.
Secondo Max Scheler, il risultato più soddisfacente (notato in chiusura del saggio) del tentativo antropofilosofico intrapreso è che dal rapporto metafisico dell’uomo con il principio delle cose è deducibile che l’essere dotato di spirito deve cogliere l’idea d’un essere sovramondano, infinito e assoluto. Come l’uomo (dotato di Spirito) riesce ad emanciparsi dal mondo, si pone allo stesso tempo il problema dell’esistenza sua e del mondo, e la sua soluzione (unica possibile) nei termini di una persona infinita e perfetta = Dio (il che sta a dire: siamo teomorfi). L’uomo prima oggettivizza il mondo e poi si rende conto di non poter essere compreso in esso (come oggetto), dal momento che il suo spirito e la sua persona trascendono le forme del mondo oggettivato. In questo modo scopre la possibilità del nulla assoluto, il che lo porta alla domanda sull’esistenza del mondo e dell’io. Ma la stessa coscienza del mondo e del sé è la risposta intuita con evidenza che il mondo e il sé esistono, e (se capisco bene il ragionamento di Scheler) tale intuizione si appoggia sulla coscienza di un essere assoluto e sulla sfera degli oggetti ideali, sull’Essere-per-sé. La sfera di un essere assoluto è dunque costitutiva dell’essenza dell’uomo, come lo è l’autocoscienza e la coscienza del mondo. Le tre cose sono tutte strettamente necessarie all’essenza dell’uomo, e anzi le coscienze delle tre cose (del mondo, di sé e di Dio) formano un’unità strutturale inscindibile. L’uomo, fin da subito, per affrontare la possibilità del vuoto assoluto, si sostiene nel mondo attraverso le rappresentazioni e le idee della nuova sfera dell’essere. Tutte le cose scaturiscono continuamente da una creazione continua dall’Essere-per-sé, che, abbiamo detto, è unità funzionale di impulso e spirito, e nondimeno solo nell’uomo i due attributi di Dio (spirito e impulso) giungono ad un rapporto vivente. Pertanto è proprio in noi stessi (punto di incontro vivente tra spirito e impulso) che possiamo partecipare di Dio. Come l’uomo, dunque, anche Dio è in continuo divenire, e per l’uomo l’unica maniera di conoscere Dio è identificarsi con la sua attività spirituale, agendo in comunione con esso.
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