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3. la filosofia moderna
Con l’epoca moderna abbiamo i primi segni dell’incrinatura del dominio del paradigma razionalista[1]. Si può già vedere, in pensatori come Pascal e Nicole, i quali riprendono diverse direzioni del pensiero di Agostino, una sorta di recupero del sentimento contro la ragione, o per lo meno il superamento temporaneo della tradizionale contrapposizione tra sentimento e ragione. Non sono d’accordo con questa interpretazione. Penso piuttosto che queste filosofie possano essere tranquillamente catalogate come filosofie della retta ragione, per cui è sempre all’istanza della ragione che è demandato il compito di guidare l’azione. Per quanto riguarda l’amore di cui molto parlano queste filosofie credo basti quanto già osservato a proposito di Agostino; l’amore per il dio non va confuso con l’amore terreno. Che poi la ragione sia inerme senza la grazia del Dio, è una questione del tutto irrilevante per i nostri particolari interessi.
3.1 Hobbes
Secondo Hobbes la natura umana è composta dalle due istanze della ragione e della passione. Questa struttura della natura umana è diversa da quelle che abbiamo visto in molto pensiero antico e medievale, che inserisce tra pura ragione e pura passione un termine in grado di mediare tra le due istanze: il desiderio razionale. Il caso classico è Platone, secondo cui è l’elemento animoso (thymos) a fungere da intermedio tra il desiderio e la ragione; questo elemento, facente parte della parte irrazionale dell’anima, è in grado di servire agli scopi della ragione, e si presenta dunque come un’istanza di comunicazione tra ragione e passione, razionalità e irrazionalità. Hobbes concepisce l’istituzione dell’etica come convenzionale. La ragione non può di per sé porre dei fini, ma solo ragionare sui mezzi più adatti; ragionare, pensare è calcolare. La ragione sembra dunque uno strumento al servizio dell’istanza della passione, la quale può invece porre il fine. La passione stabilisce il desiderato o il non desiderato, la ragione permette in seguito all’uomo di definire attraverso un calcolo quale sia il mezzo adatto a raggiungere lo scopo, e infine stabilisce delle leggi di comportamento in relazione ai fini posti dalla passione. Allora l’etica è convenzionale proprio perché in un quadro del genere non possono darsi termini morali assoluti, ma soltanto relativi a quanto è desiderato. Bene sarà il fine posto dalla passione, male il fine evitato dalla passione[2]. La ragione dunque non farà ragionamenti considerando i termini della questione in assoluto, ma cercherà di comprendere quali sono i mezzi migliori (ovvero rettamente, che qui assume un significato del tutto strumentale) per conservare innanzitutto la propria vita. Ciò che fondamentalmente muove l’uomo è la ricerca della propria conservazione. Per evitare le difficoltà a cui va inevitabilmente incontro questo pensiero, Hobbes introduce la figura dell’autorità. In uno stato ove vi sia un’autorità a cui è demandato il compito di far rispettare la legge, con la possibilità di sanzionare chi non la rispetta, diventa strumentalmente corretto (ovvero retto) rispettare i patti, dal momento che così facendo si conserva nel miglior modo la propria vita. È secondo ragione rispettare i patti della società, dove l’autorità.
3.2 Spinoza
Spinoza esprime chiaramente un’incrinatura del paradigma tradizionale, pur però restando all’interno di esso. Spinoza concepisce l’etica come una scienza descrittiva della natura umana. Questa scienza deve comprendere soprattutto la natura passionale dell’uomo. Spinoza a proposito parla di affetti e passioni: gli affetti sono passioni trasformate dalla conoscenza, sono attività di contro alla passività, propria della passione. Per Spinoza le passioni non vanno dominate ma piuttosto trasformate in affetti.[3] Ma ritornando alla centralità riservata alla passione e all’affetto nella scienza etica è opportuno vedere quanto Spinoza scrive nella prefazione della terza parte dell’Ethica:
La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini, sembra che trattino non di cose naturali, che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un impero nell’impero. Infatti credono che l’uomo sconvolga l’ordine della natura, più che seguirlo, e che abbia sulle proprie azioni un potere assoluto, e che non sia determinato da altro che da se stesso.
Questa è esattamente la visione negativa dell’emozione mista alla divinizzazione della ragione, che ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale. Spinoza continua.
Attribuiscono poi la causa dell’impotenza e dell’impotenza e dell’incostanza umana non al comune potere della natura ma a un presunto vizio della natura umana, e perciò la compiangono, la deridono, la disprezzano, o, più comunemente, la detestano; e chi con maggior eloquenza o arguzia sa cogliere l’impotenza della Mente umana passa per uomo divino. […] nessuno ha determinato la natura e le forze degli Affetti, e che cosa possa fare la Mente per dominarli. […] sembrerà certamente strano che io mi accinga a trattare dei vizi e delle stoltezze umane secondo il metodo Geometrico, e che voglia dimostrare con un ragionamento rigoroso cose che essi proclamano incompatibili con la ragione, vane, assurde, orrende.
Così Spinoza finisce per superare il tradizionale pregiudizio nei confronti della passione. È un vero sollievo leggere queste righe.
Nella natura nulla accade che possa essere attribuito a un suo vizio; infatti la natura è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire è ovunque una sola e medesima, ossia le leggi e le norme della natura, secondo le quali ogni cosa accade e da una forma si muta in un’altra, sono ovunque e sempre le medesime, e perciò anche il modo di intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, deve essere uno e medesimo, ossia in base alle leggi e alle norme universali della natura. Quindi gli Affetti dell’odio, dell’ira, dell’invidia, ecc., in sé considerati, derivano dalla stessa necessità e virtù della natura, come le altre singole cose; e perciò ammettono determinate cause per mezzo delle quali vengono conosciuti e hanno determinate proprietà degne della nostra conoscenza […] Tratterò dunque della natura e delle forze degli Affetti e del potere della Mente su di essi, con lo stesso Metodo con cui nelle parti precedenti ho trattato di Dio e della Mente, e considererò le azione e i desideri umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi. (corsivo mio)
La nota metodologica esprime con potenza il superamento del tradizionale pregiudizio che tende a separare due nature nell’uomo, quella bassa delle passioni e quella alta della ragione. Pregiudizio che si riversa nella teoria dell’azione morale banalmente perché la sola possibilità del darsi del comportamento moralmente corretto presuppone, posto che la sfera della moralità sia considerata qualcosa di positivo, l’adozione dell’istanza razionale come elemento centrale di comando e governo dell’istanza passionale.
Per Spinoza il desiderio è l’essenza stessa dell’uomo. Questo però non significa ignorare il rapporto ragione/passione. Anche per Spinoza si dà la possibilità dell’uomo schiavo delle passioni. Nella prefazione alla quarta parte dell’Ethica troviamo scritto che la schiavitù è ‘l’impotenza umana nel moderare e reprimere gli affetti’. Ma ancora non si è detto niente riguardo il rapporto ragione/passione. La proposizione VII chiarisce che ‘un affetto non può essere soffocato o eliminato se non da un affetto contrario e più forte dell’affetto da soffocare’. La proposizione VIII è altrettanto nuova: ‘la conoscenza del bene e del male non è altro che l’affetto di Letizia o di Tristezza in quanto ne siamo consapevoli’. Per cui (prop. XIX) segue che ‘ognuno appetisce o avversa necessariamente, per le leggi della sua natura, ciò che giudica buono o cattivo.’ Dal sapore fortemente hobbesiano, la proposizione XXII: ‘non si può concepire alcuna virtù anteriore a questa, allo sforzo cioè di conservare se stessi’. La ragione non sembra dunque essere un’istanza particolarmente centrale nella teoria dell’azione morale di Spinoza. La proposizione XXVI recita: ‘Tutti i nostri sforzi intrapresi seguendo la ragione si riducono al comprendere’. Ma la ragione sembra avere un ruolo nel determinare la concordia tra gli uomini. Questi non si trovano in accordo tra loro perché mossi da passioni (non da affetti, si ricordi la distinzione tra affetti e passioni, che è la distinzione tra affetti attivi e affetti passivi). Quando gli uomini sono guidati dalla ragione, essi concordano. Infatti la passione è trasformabile in affetto proprio dalla ragione. La guida della ragione sembra essere in definitiva per Spinoza un valido strumento dell’uomo affinché si dia il comportamento moralmente corretto. Propriamente quando si dà la passione non è possibile nemmeno parlare di azione, poiché il soggetto è come determinato dall’esterno, e la ragione è assente. Possiamo invece parlare di azione, dove ci troviamo davanti a desideri o affetti; sono buone le azioni secondo ragione. Spinoza al capitolo V nell’appendice della parte quarta ci fa capire come la sua filosofia sia ancora da intendere come appartenente al paradigma tradizionale:
Non c’è vita razionale, dunque, senza intelligenza, e le cose sono buone solo nella misura in cui aiutano l’uomo a fruire della vita della Mente, che è definita dalla intelligenza. Invece chiamiamo cattive solo quelle cose che impediscono all’uomo di perfezionare la sua ragione e di godere della vita razionale.
Anche se deve rimanere chiaro che la razionalità è essenzialmente strumento utile all’uomo per conservare al meglio il proprio essere. Ed è anche chiaro che l’uomo non ha il totale controllo razionale di se stesso, dal momento che è naturale sia condizionato dalla potenza delle cause esterne. E la comprensione della necessità della nostra natura e della natura in generale è non solo un’attività scientifico-descrittiva umanamente sterile, ma bensì un’attività dell’intelletto utilissima all’uomo, in quanto ne preserva la serenità e la soddisfazione.
È dunque vero che non abbiamo un potere assoluto sui nostri affetti. Ma la ragione può trasformare la passione in affetto. ‘Un affetto, che è una passione, cessa di essere passione non appena ce ne formiamo un’idea chiara e distinta’ (prop. III, parte V). Avere in nostro potere un affetto dunque significa conoscerlo; tanto più lo conosciamo tanto più lo possiamo controllare. Dal momento che ‘non esiste alcuna affezione del Corpo della quale non ci si possa formare qualche concetto chiaro e distinto’ (prop. IV, parte V) sembra di poter dire che è generalmente possibile all’uomo trasformare la passione in affetto. Vi sono però affetti contrari alla nostra natura, ovvero cattivi, e sono definibili come quelli che impediscono alla Mente di comprendere. Questi affetti non permettono la comprensione, che sembra essere dunque la via alla virtù. E la suprema virtù della Mente consiste proprio nel conoscere Dio. Virtù è beatitudine. Ma attenzione: non godiamo della beatitudine perché abbiamo finalmente represso le nostre affezioni, piuttosto riusciamo a reprimerle una volta che godiamo della beatitudine, che intrattiene uno stretto legame con la conoscenza, dunque con la ragione. Questo chiarisce perché Spinoza sia da considerare un continuatore della tradizione, nonostante la sua innovativa attenzione alla parte passionale e affettiva della natura umana.
3.3 Leibniz
Il XVII secolo è ricco di pensiero. Accanto a Spinoza, vi è un altro razionalista, Leibniz. Egli attribuisce un ruolo centrale all’intelletto nel processo di presa di decisione morale. Per Leibniz, in polemica con i volontaristi, il dovere di seguire le prescrizioni della legge naturale si dà in base alla natura delle cose, anche in assenza del comando, poiché esistono massime fondamentali insegnate dalla pura e semplice ragione. Che ci sia o meno Dio, che ci sia o meno lo Stato, noi ci adeguiamo al diritto naturale perché è nella nostra natura farlo. Ed è la ragione che ci permette questo adeguamento naturale. Christian Wolff sviluppa una visione piuttosto simile a quella di Leibniz. Egli sostiene una visione dell’uomo come soggetto morale autonomo capace di orientarsi per mezzo della ragione. La vera felicità consiste nel pieno sviluppo delle capacità intellettuali. Leibniz e Wolff, oltre che Cartesio, esprimono delle posizioni più chiaramente tradizionali rispetto a Spinoza. Cartesio stesso è criticato da Spinoza nell’Ethica per aver sostenuto che la ragione ha il potere assoluto sulle passioni, e che l’uomo è libero di autodeterminarsi come vuole. La ragione ha il controllo della ghiandola pineale, che media le istanze del corpo. La mente dunque controlla il corpo agendo sulla ghiandola pineale. Ma Cartesio non riesce a dar conto di questa interazione mente-corpo in modo soddisfacente. Questa è l’opinione di Spinoza, ma anche di grandissima parte del pensiero contemporaneo, nonché la mia.
3.4 Lord Shaftesbury
Shaftesbury è una figura difficile da valutare. Esprime bene la direzione della storia: i.e. esprime il momento della contrapposizione tra moralisti della ragione e moralisti del sentimento.[4] Lord Shaftesbury argomenta che l’uomo è naturalmente inclinato a provare sentimenti che noi definiremo come moralmente positivi, dunque sentimenti nobili, amichevoli, compassionevoli. Tuttavia il giudizio morale è il prodotto della capacità riflessiva dell’uomo sui propri sentimenti. La specificità morale del comportamento allora è conseguenza di questa capacità riflessiva propria dell’uomo, e di nessun altro animale. Shaftesbury la chiama moral sense. Questa è una capacità interiore all’uomo che gli permette di distinguere tra bene e male, ed una capacità riflessiva. Tuttavia il materiale su cui questa capacità riflessiva riflette è un materiale emotivo. In Shaftesbury convivono elementi razionali ed elementi del sentimento, e non è chiaro, seppure facilmente si giudichi in tal senso, che egli faccia dipendere il giudizio e l’azione morale totalmente dalla sfera emotiva. Sebbene sembra che il Nostro possa anticipare moralisti del sentimento come Hutcheson Smith e Hume, è possibile sostenere che possa anticipare aspetti del pensiero morale della ragione (i.e. Kant).
3.5 la Scuola di Cambridge
Comunque sia, il tempo che ci separa dalla rottura con la millenaria tradizione razionalista è poco. Intanto però il paradigma si esprime ancora chiaramente con le filosofie dei moralisti della ragione. Si tratta della cosiddetta Scuola di Cambridge. Cudworth sviluppa un parallelismo tra etica e matematica. La conoscenza in etica è simile a quella in matematica. I principi etici sono eterni e indipendenti dall’esistenza del soggetto empirico. L’uomo è in grado di coglierli per una capacità innata che possiede. La ragione pratica che guida l’azione segue questi principi a priori. La fonte dell’approvazione e disapprovazione morale è la ragione. Prima del presentarsi della legge, la mente possiede già una facoltà che distingue ciò che è lodevole giusto virtuoso da ciò che viceversa è biasimevole ingiusto e vizioso. La legge non può essere la fonte delle distinzioni morali perché non è in grado di decidere a proposito di se stessa, ovvero non è in grado di decidere della giustezza o della ingiustizia o ancora della indifferenza di ubbidirle. Da questa osservazione Cudworth deduce che la mente già possiede una nozione delle distinzioni morali, e che queste se non derivano dalla legge derivano all’uomo dalla sua ragione. Per Samuel Clarke l’appropriatezza e l’inappropriatezza delle azioni non dipendono da un sentimento morale di qualche tipo. Le leggi etiche, come quelle matematiche, derivano o sono fondate dalla natura propria delle cose stesse. Queste leggi sono leggi della natura o altrimenti della retta ragione, e sono, similmente a quanto già diceva Cudworth, valide in eterno. L’agire è guidato dalla percezione della congruenza o incongruenza dell’azione alla situazione, e questa percezione è simile a quella che in geometria coglie le proporzioni o sproporzioni delle figure. La percezione della congruenza rappresenta per l’uomo la ragione per agire. Questa ragione è in grado di motivare e obbligare all’azione in modo autonomo. Per questi due filosofi dunque la morale deriva senz’altro dalla ragione e non dal sentimento. Nella stessa direzione si muove Richard Price, nel secolo successivo. Per Price le idee generalmente non hanno origine dalle sensazioni. Alcune idee nascono a priori. In particolare le idee morali non hanno fondamento nell’esperienza, ma sono piuttosto idee apprendibili tramite intuizione. L’idea della rettitudine, una volta intuita, obbliga necessariamente all’azione moralmente corretta. Si dà naturalmente e conseguentemente un motivo per l’azione una volta che si possieda la consapevolezza che l’agire è moralmente appropriato. Di per sé non serve altro per muovere l’azione, oltre questa consapevolezza del tutto razionale. Price non esclude che vi sia anche una componente sentimentale all’interno del processo d’azione morale. Vi sono di fatto sentimenti che ci motivano all’azione. Tuttavia questi sentimenti sono sempre dei prodotti derivati dall’approvazione o disapprovazione morale, che è un processo demandato del tutto alla ragione, in quanto sola responsabile della conoscenza di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Questa direzione razionalista del pensiero filosofico morale britannico sarà ripresa infine da Kant.
Con il XVIII secolo assistiamo al momento di massima tensione e rottura con il paradigma tradizionale. La filosofia di questo secolo determinerà la caduta del paradigma; questa filosofia determinerà la reazione della tradizione stessa, che parlerà con la voce di Kant; La filosofia di Kant sarà l’espressione massima ed estrema della reazione della tradizione nei confronti della filosofia che la sovverte nel tentativo di operare un oltrepassamento. La filosofia di Kant segna così il punto massimo e finale della tradizione. Il tramonto di questa filosofia sarà il tramonto della visione tradizionale. La nettezza di Kant è dunque sintomo del tramonto. In verità la realtà non è mai così semplicemente schematica come può sembrare dalle note che vado esponendo. Tuttavia questa osservazione non inficia la bontà della mia esposizione, per le ragioni che ho esposto all’inizio introducendo il progetto di questa micro-storia di una parte del pensiero filosofico morale occidentale.
I protagonisti della reazione al paradigma millenario sono principalmente tre: Francis Hutcheson (1694-1746), David Hume (1711-76), Adam Smith (1723-90).
3.6 Hutcheson
Hutcheson è contrario ad un’idea propria della tradizione in senso lato razionalista nella sua declinazione cristiana seguente la Riforma: l’idea che le passioni siano frutto del peccato. Hutcheson, nel tentativo di superare questa idea di malattia, che dipende chiaramente anche dal fatto di individuare la passione propria e centrale dell’uomo nell’amor proprio, sostiene innanzitutto che non è possibile trarre la virtù dall’egoismo, dal momento che questa origina solo dalla benevolenza, passione altrettanto naturale all’uomo quanto l’amor proprio. Ma la rilevanza del pensiero di Hutcheson per il nostro discorso sta precisamente nell’aver ipotizzato un senso morale nell’uomo. Il senso o istinto o facoltà morale è un’originaria capacità psichica di vedere e distinguere ciò che è moralmente buono e cattivo, o, il che è lo stesso per Hutcheson, una naturale determinazione ad approvare certe affezioni e certe azioni. Questo senso morale è in grado di porre il fine dell’azione morale, senza ragionamento. La funzione demandata alla ragione è quella di indicare il mezzo adatto al fine. La ragione non può determinare l’agire, l’intelletto non è mai pratico, invece è solo il sentimento a determinare l’agire. Il sentimento è il fondamento del giudizio morale, ed è qualcosa di naturalmente inscritto nella natura umana, che non cambia lungo la storia dell’uomo. Se le morali cambiano lungo la storia dell’uomo lo si deve all’intelletto, non certo al sentimento, che è stabilmente sedimentato nella natura umana.
3.7 Hume
Hume: il pensatore che simbolizza il passaggio rivoluzionario nei confronti della tradizione razionalista. Per Hume
Non c’è questione di qualche importanza la cui soluzione non sia compresa nella scienza dell’uomo, e non ce n’è nessuna che possa essere risolta con certezza se prima non ci rendiamo padroni di quella scienza. […] la sola base solida per la scienza dell’uomo deve essere l’esperienza o l’osservazione [… e bisogna sempre tenere ben presente che] non possiamo mai andare al di là dell’esperienza. (THN, p. 7-8)
È proprio lo studio della natura umana allora che va affrontato per risolvere le questioni morali. Hume[5] si oppone a quella che definisce una semplice apparenza: che la ragione, sotto la forma della conoscenza della legge, possa determinare l’azione. La virtù non è qualcosa di conforme alla ragione, ché non è la ragione l’istanza che coglie la distinzione tra virtù e vizio. La natura umana spiegata da Hume è caratterizzata dal fatto che è mossa solo da stimoli di piacere e dolore. Solo il sentimento è in grado di motivare la volontà. La ragione svolge funzioni del tutto secondarie. Essa non è in grado di motivare l’azione, essa è in grado di offrirci la conoscenza del vero e del falso, ma questo è una sfera differente da quella morale; è il gusto a fornirci il sentimento del bello e del brutto, della virtù e del vizio. La ragione non è in grado di porre il fine ma solo di farci comprendere le relazione che i mezzi intrattengono con i fini. La ragione è dunque e non può che essere schiava delle passioni. La ragione conosce, il gusto approva o disapprova. Il fondamento proprio del giudizio morale è il sentimento; la conoscenza morale è raggiunta attraverso il sentimento, non attraverso la ragione; ‘la morale è più propriamente oggetto di sentimento che di giudizio’ (THN, p. 497). E questo perché la ragione riguarda solo tautologie o stati di fatto, e la morale non consiste né in relazioni né in dati di fatto. La virtù e il vizio morale sono qualità secondarie dell’azione, sono percezioni della mente e non qualità oggettivamente attribuibili agli oggetti; non è possibile insomma dire il giudizio morale vero o falso, contrario o conforme alla ragione. L’uomo non dice propriamente virtuosa o viziosa la singola azione presa per sé, ma giudica moralmente approvabile o disapprovabile solo le qualità del carattere e le motivazioni che portano all’azione, e le azioni solo nella misura in cui intrattengono una conosciuta relazione con il carattere. La motivazione all’azione morale deriva dal sentimento simpatetico per cui proviamo piacere e dolore di fronte a certe motivazioni e caratteri, certo prima che la ragione possa intervenire. Di fatto nel sentimento non c’è ragione. Hume dedica molta attenzione e spazio alla trattazione delle passioni, elemento centrale del processo di presa di decisione e azione morale.
Ma vediamo il rapporto tra ragione e passione come questo viene delineato nel Trattato sulla natura umana. Ci sono due classi di percezioni: le impressioni e le idee. Le percezioni che hanno al loro primo presentarsi maggiore forza e violenza sono le impressioni. Si tratta di sensazioni, passioni ed emozioni. Le “immagini illanguidite delle impressioni” sono le idee; queste sono le percezioni più deboli, o anche le copie delle impressioni nella memoria e nell’immaginazione. Le impressioni dunque precedono e sono la causa delle idee. Tutte le idee semplici derivano da impressioni. Per percezione semplice si intende quella che non permette nessuna distinzione o separazione. È chiaro comunque che come ‘le nostre idee sono immagini delle nostre percezioni, così noi possiamo formare idee secondarie che siano immagini di quelle primarie’ (THN, p. 18). Le impressioni sono di due tipi: originarie e secondarie. Le impressioni originarie o ‘impressioni di sensazione sono quelle che sorgono nell’anima, senza che alcuna percezione le preceda, dalla costituzione del corpo, dagli spiriti animali, o dal contatto di oggetti con gli organi esterni’ (THN, p. 289), mentre le impressioni secondarie o ‘di riflessione sono quelle che provengono da alcune di quelle originarie o direttamente o per il frapporsi delle loro idee’. A questo secondo tipo appartengono le passioni. Hume distingue tra passioni dirette e indirette e impressioni di riflessione calme e violente, e si inoltre in un’analisi dettagliata delle singole passioni. Questa analisi non può che essere il risultato di una certa concezione della natura umana e del processo di presa di decisione e azione morale. Ora che abbiamo definito preliminarmente cos’è una passione vediamo il suo rapporto con la ragione e la motivazione, ovvero con la volontà. Quest’ultima è così definita da Hume:
quella impressione interna che noi avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli, quando coscientemente diamo origine a qualche nuovo movimento del nostro corpo o a qualche nuova percezione della nostra mente. (THN, p. 419)
Dopo aver dimostrato che vi è tra motivazione e azione la stessa costanza di unione che sussiste in tutti gli altri eventi naturali, per cui possiamo parlare propriamente di volontà e motivazione all’azione, e di morale, ovvero di merito e demerito in relazione ad un’azione di una persona, Hume passa a considerare il rapporto ragione passione. Se in filosofia e nel discorso comune, dice Hume, quando si parla di questo conflitto si tende di norma a dare la palma alla ragione, allora la filosofia e il discorso comune senz’altro erra. Per quanto si trovino in altre opere di Hume passi che sembrano contraddire questa affermazione[6], la tendenza generale del suo pensiero e senza ombra di dubbio nettamente definita in questo senso: che
la ragione, da sola, non può mai essere motivo di una qualsiasi azione della volontà […] e che la ragione non può mai contrapporsi alla passione nella guida della volontà. (THN, p. 434)
Inutile tentare di ridimensionare queste conclusioni: sono in deciso contrasto con il paradigma tradizionale. Va fatta però una distinzione, che comunque non pregiudica la forza della conclusione. Si distingue tra intelletto che giudica per dimostrazione e intelletto che giudica per probabilità; se il primo, abitando il mondo delle idee, è già escluso da un qualsiasi ruolo nel darsi dell’azione, il secondo può guidare un certo impulso, ma l’originaria propensione verso l’azione risiede pur sempre nel sentimento di piacere o dolore dato dall’oggetto cui si tende. E si conferma la chiara direzione del pensiero humiano:
poiché la ragione da sola non può mai produrre un’azione o suscitare una volizione, ne inferisco che la stessa facoltà è ugualmente incapace di ostacolare una volizione, o di contendere la preferenza a qualche passione o emozione. […] Nulla può ostacolare o rallentare l’impulso di una passione se non un impulso contrario [… per cui risulta chiaro che] non parliamo né con rigore né filosoficamente quando parliamo di una lotta tra la passione e la ragione. La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni e non può in rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse. (THN, p. 435-436; corsivo mio)
Queste parole le ho riportate proprio perché si commentano da sole: questo è l’estremo a cui è arrivata la reazione alla tradizione: non è nemmeno legittimo parlare di contrapposizione tra ragione e passione, tanto la ragione è dispensabile dall’agire morale. Ma allora ci si può chiedere come facciano le passioni a guidare in modo moralmente corretto e sobrio le azioni umane. È l’abitudine, che forma un certo carattere dotato di certe inclinazioni, a guidare l’azione nella maggior parte dei casi. L’uomo è poi stimolato dalle passioni dirette del desiderio e dell’avversione, del dolore e della gioia, della speranza e della paura. Ci si può chiedere ancora da dove derivino le distinzioni morali che sembrano ai più derivare dall’alta attività della ragione.
… poiché la morale ha un’influenza sulle azioni e sulle affezioni, ne consegue che essa non può derivare dalla ragione, e ciò in quanto la sola ragione […] non può mai avere un’influenza del genere. La morale suscita le passioni e produce o impedisce le azioni. La ragione di per se stessa è del tutto impotente in questo campo. Le regole della morale, perciò, non sono delle conclusioni della nostra ragione. (THN, p. 483)
Ragione e morale hanno sfere di competenza del tutto diverse. Il giudizio morale non dipende dalla ragione.
La ragione è la scoperta della verità o della falsità. La verità e la falsità consistono in un accordo o in un disaccordo o con le reali relazioni delle idee, o con l’esistenza e i dati di fatto reali. […] le nostre passioni, volizioni e azioni non sono suscettibili di un simile accordo o disaccordo, poiché sono dei fatti e delle realtà originari, completi in se stessi, e che non implicano alcun riferimento ad altre passioni, volizioni e azioni. Perciò è impossibile dichiararle vere o false, contrarie o conformi alla ragione. […] Le azioni possono essere lodevoli o biasimevoli, ma non […] ragionevoli o irragionevoli […] le distinzioni morali non sono il prodotto della ragione. La ragione è completamente inattiva e non può mai essere l’origine di un principio così attivo come la coscienza ossia il senso della morale. (THN, p. 485; corsivo mio)
Cos’è allora il giudizio morale? Esso consiste nell’esplicitazione linguistica di uno stato sentimentale.
… quando dichiarate viziosa [o, altrimenti, virtuosa] un’azione o un carattere, non intendete dire niente altro che, data la costituzione della vostra natura, voi provate un senso o un sentimento di biasimo nel contemplarli. Il vizio e la virtù possono perciò essere paragonati ai suoni, ai colori, al caldo e al freddo che, secondo la filosofia moderna, non sono qualità degli oggetti, ma percezioni della mente […] Niente può essere più reale o interessarci di più che i nostri sentimenti di piacere e dolore, e se questi sentimenti sono favorevoli alla virtù e sfavorevoli al vizio, non occorre certo niente altro per regolare la nostra condotta e il nostro comportamento. (THN, p. 496)
La morale è dunque oggetto di sentimento, non di ragione. Le sue distinzioni derivano da un senso morale intrinseco all’anima umana di natura esclusivamente sentimentale, o, altrimenti detto, da certi particolari sentimenti di dolore e di piacere. Ma la teoria di Hume non è rude. Egli parla del principio della simpatia. Questa è centrale nella vita morale degli individui, è propriamente la fonte principale delle distinzioni morali, ed è tale ‘da darci i più intensi sentimenti di approvazione’. Ad esempio una virtù artificiale come la giustizia è permessa solo dal fatto che l’uomo è in grado di simpatizzare con l’interesse altrui, che in un certo senso diventa il nostro.
3.8 Adam Smith
Adam Smith[7] è un validissimo continuatore dell’istanza rivoluzionaria. C’è un aspetto attualissimo del pensiero di Smith che considereremo con maggiore attenzione più avanti. Per ora ci limitiamo a presentare brevemente quella parte della sua filosofia che ci parla della distinzione e del rapporto tra passione e ragione all’interno del processo di presa di decisione e azione morale.
Smith espone le sue riflessioni sulla morale nella Teoria dei sentimenti morali, opera di grandezza almeno pari al Trattato di Hume. Smith, per quanto riguarda il rapporto ragione/emozione, segue la via aperta da Hutcheson e da Hume: la ragione ha un ruolo del tutto secondario in morale, questa è piuttosto una questione di sentimento. E il sentimento per Smith è soprattutto la simpatia.
Bisogna partire con il riconoscere un fatto evidente: l’uomo non è solo mosso dall’impulso egoista, ma in lui vi sono dei principi non secondari che lo rendono partecipe della felicità e dell’infelicità altrui. La conoscenza delle impressioni altrui comunque non ci è data direttamente. L’unica via che la natura sembra aver trovato per farci partecipi delle impressioni dell’altro è quella di farci concepire cosa noi proveremmo fossimo (noi) nella sua situazione. La rappresentazione delle sue sensazioni sulla nostra persona ci viene così da uno sforzo dell’immaginazione. Immaginare non è un atto puro della mente: immaginare di provare un’emozione provoca in noi un certo grado di quella stessa emozione. Quanto più è vivace la rappresentazione, tanto più è vivace l’emozione esperita. Tutto questo ha un nome: simpatia: il sentimento di partecipazione per qualunque passione. Propriamente non è la passione a suscitare la simpatia, ma la situazione. Il meccanismo della simpatia non è semplice: non è che perché si dà nella situazione una certa emozione che allora nello spettatore se ne dà una uguale, seppur di minore intensità. Vi sono situazioni dove una certa passione elicita nello spettatore simpatia non tanto per chi prova la passione ma per il soggetto a cui la passione è diretta, per cui non vi è sempre specularità di passioni tra spettatore e attore primario della passione. Il meccanismo della simpatia è complesso e permette di spiegare l’altrettanto complessa vita morale delle persona. È un principio (euristico) a cui viene magistralmente ricondotta tutta la vita morale dell’uomo. Vi è ad esempio una risposta emotiva anche alla simpatia che l’altro prova nei miei confronti. E vi è il fatto, supportato dall’evidenza dell’esperienza, e in grado di spiegare bene questa stessa evidenza, per cui l’uomo è disposto più a simpatizzare con piccole gioie e con grandi sofferenze piuttosto che con grandi gioie e piccole sofferenza. La potenza esplicativa di queste osservazione è potentissima.
Il giudizio morale è spiegato interamente senza fare ricorso all’istanza della ragione. Approvare la passione di un altro significa niente di meno e niente di più che osservare che simpatizziamo interamente con essa; disapprovare la passione di un altro significa specularmente osservare che non simpatizziamo interamente con essa. Il principio è del tutto simile a quello implicato nell’approvazione e disapprovazione dell’opinione dell’altro: approvare o disapprovare l’opinione altrui significa semplicemente osservare che vi è accordo o disaccordo fra le sue e le nostre opinioni. Propriamente quando si giudica della condotta altrui non si giudica sulla base di una simpatia effettivamente presente o provata, ma sulla base di una simpatia condizionale. L’eventualità per cui il giudizio sul caso particolare è distorto dall’inappropriatezza in noi di una certa emozione, è evitata dal fatto che solitamente noi giudichiamo prendendo in considerazione una simpatia condizionale, ovvero supportata dalle regole generali che ricaviamo dalla nostra precedente esperienza morale[8]. Nel giudicare si distingue poi tra appropriatezza e inappropriatezza dell’azione, e merito e demerito dell’azione. La prima coppia dipende dall’adeguatezza o inadeguatezza proporzione o sproporzione dell’affezione rispetto alla causa o oggetto che la suscita, la seconda coppia dipende invece dalla natura benefica o dannosa degli effetti a cui l’affezione tende. Ancora una volta il metodo con cui si giudica di queste cose è ricondurre il caso osservato a noi, e dunque farci guidare dalla simpatia. Le relazioni definite dalla simpatia tra noi e la situazione arrivano a definire anche la suddivisione delle virtù (che per Smith consistono nell’eccellenza delle qualità morali comuni).
Non tutte le passioni e non tutte le intensità delle passioni sono egualmente condividibili tra gli uomini. Il livello condivisibile dallo spettatore di una situazione morale risiede nell’intensità media della passione. Ogni passione ha un’intensità media che rappresenta il suo grado di appropriatezza. La passione è ritenuta più o meno decente a seconda del grado in cui lo spettatore è pronto o possibilitato a simpatizzare con essa. Questo può spiegare ancora una volta magistralmente ad esempio l’indecenza attribuita (da parte di molta filosofia, antica e medievale) alle passioni del corpo: queste sono indecenti proprio perché lo spettatore difficilmente riesce a simpatizzare con esse, dal momento che è piuttosto difficile trasportarsi con l’immaginazione all’interno di una situazione in cui è implicato una disposizione fisica e assumere le parti di chi è affetto da tale disposizione. L’uomo temperante è allora ben accetto perché semplifica allo spettatore il compito di simpatizzare con la situazione che lo affligge.
Abbiamo già detto in cosa consiste il merito e il demerito. È considerando il merito e il demerito che l’uomo ricompensa e punisce. I sentimenti che più immediatamente e direttamente ci spingono a ricompensare e punire sono la gratitudine e il risentimento. Appare così meritevole di ricompensa chi è oggetto naturale di una gratitudine per la quale ognuno approverebbe; appare meritevole di punizione chi è oggetto naturale di un risentimento con il quale ogni uomo ragionevole[9] simpatizzerebbe. Anche qui il principio è la simpatia. Per sentire gratitudine o risentimento dobbiamo simpatizzare con le motivazioni dell’agente. Così per il merito e il demerito. Il senso del merito della condotta di un uomo deriva da una simpatia indiretta per la gratitudine di chi beneficia dell’azione dell’agente; così, specularmente, il senso del demerito della condotta di un uomo deriva da una simpatia indiretta per il risentimento di chi subisce l’azione dell’agente e soffre per questo.
Il principio per cui approviamo e disapproviamo la nostra condotta è del tutto simile a quello per cui approviamo e disapproviamo la condotta altrui. Però l’autoapprovazione o l’autodisapprovazione implica una sdoppiatura dell’individuo in io giudice e io giudicato. Ovvero approviamo o disapproviamo la nostra condotta a seconda che sentiamo, quando ci mettiamo nei panni – attraverso l’immaginazione – di un equo e imparziale spettatore, di riuscire o meno a prendere parte e simpatizzare con i sentimenti e le motivazioni che l’hanno influenzata. Lo spettatore imparziale e ben informato (che è giudice e arbitro) è la nostra coscienza. La giurisdizione di questo uomo interiore si fonda non tanto sul desiderio di lode e sull’avversione al biasimo, ma piuttosto sul desiderio di essere degno di lode e sull’avversione d’esser degno di biasimo[10]. L’influenza e l’autorità della coscienza è molto grande; solo consultando la coscienza capiamo come muoverci correttamente. Ad esempio attraverso la presenza della coscienza, della ragione, dell’uomo interiore giudice e arbitro della nostra condotta, è possibile essere mossi dall’altruismo. È propriamente lo spettatore imparziale che ci mostra l’appropriatezza della generosità e la mostruosità dell’ingiustizia. Ma la coscienza non è un senso morale. L’uomo non possiede una facoltà morale. È la semplice osservazione del comportamento altrui che ci conduce impercettibilmente (inconsciamente?) a formarci certe regole generali su ciò che è appropriato e adeguato fare o evitare di fare. La regola morale è dunque scoperta e fondata dall’esperienza che generalmente tutte le azioni di un certo tipo piuttosto che un altro vengono approvate o disapprovate. Lo stesso senso del dovere non deriva che da una generalizzazione dall’esperienza, dunque dal sentimento.
3.9 Kant
Alla reazione di questi ‘pensatori del sentimento’, segue la contro-reazione della tradizione: Immanuel Kant.
Considero la filosofia di Kant[11] come paradigmatica della posizione razionalista in etica. Nella Fondazione della metafisica dei costumi egli chiarisce che la fonte del supremo principio della moralità è la ragione, i.e. l’uomo come legge a se stesso. Quest’uomo legge a se stesso, o, altrimenti detto l’obbligazione interna, è la risposta kantiana alla domanda sull’origine dell’obbligazione. Nella Critica della ragion pratica Kant chiarisce che la ragione è di per sé pratica, ovvero determina la volontà mediante la sola forma della regola pratica. È chiaro comunque che di fatto non si danno che uomini sensibili, i.e. non ne esistono di nessuna altra specie. Per determinare la volontà bisognerà pur passare prima o poi per il sentimento. La legge determina la volontà mediante il rispetto; il motivo etico dell’agire è il puro rispetto per l’imperativo categorico. Il rispetto è senz’altro un sentimento e in quanto sentimento non può che essere sensibile, ma il punto vero di Kant è che l’origine del rispetto risiede esclusivamente nella ragion pura pratica, e quest’origine differenzia il sentimento del rispetto dagli altri sentimenti.
Ma vediamo con ordine l’argomentazione di Kant, e così la sua posizione sulla questione del ruolo relativo di ragione e passione nel processo di presa di decisione e azione morale, prendendo come testo guida la Fondazione. In questo scritto Kant si pone l’obiettivo primo di ricercare e definire il supremo principio della moralità. La fonte di questo principio è la ragione, ovvero l’uomo come legge a se stesso; è il principio di autonomia che orienta la morale. Il principio o la legge non è da trovarsi attraverso una descrizione dell’uomo empirico, che è inutile allo scopo. Il fondamento della morale non è un contenuto che si trova empiricamente (e nemmeno concettualmente; Kant non segue nemmeno la strada della deduzione dialettica, la vecchia sintesi della logica scolastica), ma è piuttosto il presupposto della moralità come questa si è sviluppata e diffusa concretamente. Il metodo da usare per comprendere il presupposto della moralità è allora il metodo analitico o regressivo: si tratta di risalire analiticamente dalla conoscenza comune alla determinazione del suo supremo principio. Questo processo sarà poi in grado di sviluppare una filosofia morale pura, i.e. purificata dall’empirico e dall’antropologico. È dunque dalla moralità di senso comune che bisogna partire, per chiarire le rappresentazioni oscure presenti nell’uomo, dove le oscurità sono principi razionali presenti nell’agente morale.
Se la ragione teoretica è costitutiva ché pone le leggi in grado di organizzare i fenomeni, la ragione pratica lo è ché pone l’imperativo categorico, ovvero motiva l’azione sulla base della sola forma razionale dell’imperativo, indipendentemente da qualsiasi elemento esterno. Kant distingue tra regola pratica e legge morale: una prescrizione che si fonda su principi dell’esperienza è una regola pratica, una prescrizione che si fonda su principi della ragion pura è una legge morale. Si distingue poi tra azione conforme al dovere e azione per il dovere. La prima è semplicemente un’azione conforme nel risultato pratico al comando della legge morale, e può allora essere compiuta anche per inclinazione emotiva; la seconda è l’azione che accade per se stessa, ovvero è un’azione motivata solamente dall’obbedienza alla legge morale. La volontà è buona, ovvero si agisce moralmente, solo quando si agisce per il dovere. Agire conformemente al dovere non è sufficiente. Il valore morale risiede dunque nel principio motivante. L’elemento dell’inclinazione e del sentimento è così escluso come fattore non rilevante nella definizione di ciò che rende morale l’agire. Si può capire allora cos’è il dovere: la necessità di un’azione che va compiuta per semplice rispetto alla legge. Propriamente ciò che obbliga oggettivamente la volontà, ed è dunque oggetto di rispetto da parte della volontà buona che agisce, è la legge pratica, ovvero un principio oggettivo dell’azione, e non semplicemente una massima, ovvero una regola o un principio pratico soggettivo della volontà. Questo chiarisce l’esclusione del sentimento come elemento qualificante. Di fatto il rispetto per la legge è niente altro che la rappresentazione della legge nell’essere razionale, nonostante sia un valore pratico (il solo morale) motivante l’azione. L’agire è guidato da un imperativo. Questo può essere di due tipi: ipotetico o categorico. Il primo comanda condizionatamente a un fine, il secondo comanda incondizionatamente. L’imperativo categorico è un comando della pura ragione e rappresenta l’azione come in se stessa oggettivamente necessaria; esso è l’imperativo della moralità, ovvero la legge pratica, e può formularsi in diversi modi. Kant fornisce le tre celeberrime formule: della legge universale, dell’umanità e dell’autonomia. Non è rilevante al nostro discorso un esame puntuale di queste formulazioni. Basti dire quanto segue.
Per Kant il principio che serve alla volontà morale è la semplice conformità alla legge. La volontà è capace di determinare se stessa all’agire in conformità alla rappresentazione della legge. Il fondamento oggettivo della sua autodeterminazione è il suo fine, che non è (e non può essere) materiale o soggettivo, ma è un fine in se stesso: l’uomo. Segue la seconda formulazione dell’imperativo, che specifica il fondamento dell’obbligatorietà. È proprio l’uomo (o più in generale l’essere razionale) lo scopo oggettivo, il fine in sé, che permette all’imperativo categorico di uscire dalla pura determinazione formale. La volontà non è solo parte soggetta alla legge, ma anche parte autrice della stessa: la volontà è autolegislatrice. L’obbligo morale nasce così dalla ragione, dalla volontà che determina se stessa. L’essere razionale è autolegislatore (universale). Questa è l’essenza della morale autonoma kantiana.
La filosofia di Kant non poteva esprimere con maggior nettezza la posizione razionalista. Reagendo a Hume: la morale è molto più una questione di ragione che di sentimento. È l’emozione che segue (e deve seguire) la ragione. La ragione pura può essere pratica; e soltanto la ragione pura pratica è ciò che dà luogo ad azioni definibili morali. Possiamo concludere dicendo che la scissione ragione sentimento, eredità di gran parte del pensiero etico filosofico occidentale, trova il suo compimento in Kant.
Ma va capita meglio questa conclusione. Kant in realtà non concepisce la natura dell’uomo come bipartita in ragione e passione, ma come tripartita in facoltà della conoscenza, facoltà del desiderio, e, tra le due, sentimento del piacere e del dolore. Del sentimento del piacere e del dolore fanno parte anche i sentimenti morali. Ora, Kant non nega la presenza di sentimenti morali, come si vede, però non riconduce questi sentimenti a stati della sensibilità, come fa il sentimentalismo, ma li riconduce alla ragione nel suo uso pratico. La ragione è perfettamente in grado di sollecitare il sentimento del rispetto di fronte alla legge morale, e il sentimento della contentezza per la consapevolezza di aver agito secondo dovere. È la ragione dunque il vero fattore motivante l’azione, e il vero fattore su cui si fonda il giudizio morale. Il sentimento morale è semplicemente la ‘capacità di essere incitati nel nostro libero arbitrio dalla ragione pura pratica’ (MC, p. 252). Ma prescindendo dal sentimento morale, il sentimento è visto come un elemento sensibile del tutto contrapposto alla ragione, la volontà è pura, pura dalla passione; non a torto a Kant è stato criticato di aver dicotomizzato il rapporto tra ragione e sensibilità.
3.10 dopo Kant
Giudicando complessivamente il periodo di riflessione filosofica sulla morale che segue Kant, noto che, soprattutto nel Novecento, vi è una forte tendenza del pensiero a non ignorare l’importanza per la morale della parte emotiva dell’essere umano. Suggerisco che ciò sia dovuto anche alla crescita dello studio e della conoscenza scientifica sull’uomo, la cui parte irrazionale passionale corporea e sensibile riceve così attenzione e maggiore comprensione. È rilevante inoltre al superamento della secolare tradizione, la corrente filosofica della fenomenologia, sviluppata inizialmente da Husserl, la quale porta la razionalità stessa nel sentimento. Contro il mio giudizio complessivo vi è la presenza nel pensiero otto-novecentesco del neokantismo (Hermann Cohen, Marburgo e Heidelberg con la Scuola di Baden) e dell’intuizionismo con Whewell, solo per fare alcuni esempi. Ma contro questi e altri presunti contro-esempi di filosofia in senso lato e per certi aspetti definibile razionalista abbiamo una tendenza generale della filosofia che è opposta alla tendenza altrettanto generale datasi con lo svolgersi della filosofia morale occidentale fino a Kant.
3.11 Fichte
Le prime critiche a Kant vengono da Fichte, che gli rimprovera la scarsa attenzione prestata alla dimensione sensibile dell’uomo. Fichte è interessato al soggetto concreto, ad un etica reale, non formale e vuota. Per questo il soggetto morale di Fichte è composto da elementi impulsivi e sensibili oltre che da elementi razionali. Fichte introduce il concetto di destinazione, fondamentale per riportare il soggetto morale nella dimensione concreta. Il soggetto è determinato e individuale; possiede una propria specifica destinazione, determinata dagli elementi della costituzione naturale e della collocazione nella società.
Voglio brevemente notare, anche se non è di utilità alla nostra discussione, che Fichte e poi Hegel insistono su un altro fatto fondamentale per l’etica, e a loro giudizio trascurato dal sistema kantiano: la vita intersoggettiva. Entrambi questi pensatori cercano di fare uscire l’etica dall’angusto spazio dell’interiorità in cui l’aveva costretta Kant.[12]
Il romanticismo (soprattutto tedesco) rivaluta il sentimento contro la ragione. Nel suo complesso critica Kant per aver misconosciuto la sensibilità del soggetto morale, per aver negato l’importante ruolo dei sentimenti nella concezione della natura umana; che siano giustificare o meno queste critiche nei confronti della filosofia razionalista di Kant.
3.12 Bentham
Gli anni di Kant sono anche all’incirca gli anni di Bentham, che viene considerato dalla tradizione utilitarista il padre di questa. L’utilitarismo classico si oppone sia al sentimentalismo che al razionalismo, ed è quindi difficile comprendere la sua risposta alla nostra domanda, o altrimenti la sua tendenza di risposta. Il concetto di utilità in Bentham è sia descrittivo sia normativo o valutativo. Di fatto gli individui ricercano l’utile rincorrendo il piacere e fuggendo il dolore; il valore morale dell’azione è da giudicarsi considerando l’utilità di questa. Diversi principi – diversi dal principio di utilità – come il sentimento morale, la simpatia o il dovere, non sono adatti a fungere da fondamento alla morale. Qui risiede l’opposizione alle tradizioni sentimentaliste e razionaliste. Il principio dell’azione morale, stando nel principio di utilità o di massima felicità come lo definirà Bentham, non risiede nel sentimento disinteressato e nemmeno nell’imperativo categorico kantiano. Il principio risiede nel desiderio individuale che per sua natura si concilia con i desideri dell’altro. Da una parte abbiamo che l’individuo non è motivato dalla ragione, ma dal desiderio di ricercare il piacere e fuggire il dolore, per quanto poi questo desiderio si dimostri razionale. Dall’altra abbiamo che l’individuo opera un calcolo razionale per decidere della moralità dell’azione.
Consideriamo solo la posizione di Bentham in quanto ci basta per mettere in luce i punti principali dell’utilitarismo classico. Per Bentham sono il dolore e il piacere i ‘supremi padroni’ dell’uomo. Bentham scrive molto chiaramente che:
spetta ad essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare quel che faremo. Da un lato il criterio del giusto e dell’ingiusto, dall’altro la catena delle cause e degli effetti sono legati al loro trono. (Introduzione, I, I)
Dolore e piacere sono il criterio del giudizio morale, ed è un dato di fatto che noi siamo determinati ad agire da essi. Gli stimoli del piacere e del dolore sono le ‘molle dell’azione’. È evidente che l’uomo per sua natura tende al proprio benessere; ovvero è evidente che l’uomo cerca il piacere e fugge il dolore, e non che cerca il dolore e fugge il piacere. L’agente morale segue il principio della massima felicità:
che approva o disapprova ogni e qualsivoglia azione secondo la tendenza che essa mostra di avere ad aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è in questione (Introduzione, I, 3)
La massima felicità è inoltre il fine che deve essere perseguito. La ricerca dell’utilità è un principio descrittivo e normativo. Il criterio del giusto e dell’ingiusto comunque non risiede nel sentimento o senso morale, anche se l’uomo adotta il principio a guida dell’azione spesso senza riflessione, ché questo è come costituzionale alla natura dell’uomo. Per capire bene la teoria di Bentham è decisivo separare il motivo che porta all’azione dal fondamento che porta al giudizio morale. Il motivo dell’azione non deve essere confuso con la regola dell’azione. L’azione è giudicata giusta quando conforme al principio di massima felicità, dunque la ragione è coinvolta propriamente in questa parte della morale. Mentre ciò che muove (o impedisce) l’uomo all’azione è solo il dolore e il piacere. Sono in particolare le sanzioni quelle che permettono di avere una società di agenti conformatisi al principio della massima felicità. Ma non è solo questo. Questo è il punto. Se l’uomo è pur sempre dominato da passioni e appetiti, l’utilitarismo sembra sottintendere che egli può riflettere razionalmente, calcolare quale sia l’azione migliore in grado di soddisfare il principio.
3.13 Schopenhauer
Ad opporsi alla ragione pratica è anche un celebre critico di Kant: Schopenhauer. Secondo questo pensatore il fondamento della morale non risiede nella ragione o nella nozione di dovere (che perde di senso all’interno di una morale filosofica, pur avendolo in una teologica), ma nell’impulso della compassione. La compassione porta l’uomo ad interessarsi dell’altro, quindi ad uscire da se stesso, i.e. a superare il principium individuationis. Dunque la vita morale avvicina l’uomo alla negazione della volontà di vivere, poiché permette di superare l’egoismo, che è esattamente restare sedotti dal principium individuationis. E non è la ragione a farci uscire dalla seduzione, bensì il sentimento della compassione.
3.14 la fenomenologia
Ma propongo senz’altro di interpretare come una delle forze maggiori di reazione al pensiero razionalista kantiano, e dunque come una delle forze che segnano definitivamente il tramonto della tradizione razionalista e l’affermarsi della tendenza filosofica rivoluzionaria che tende a non misconoscere più il ruolo dell’emozione nella morale, la corrente filosofica fenomenologica. Accanto a questa va considerata, come grande forza, la tradizione (appartenente alla filosofia analitica) non-cognitivista ed emotivista del Novecento. Queste forze riportano l’elemento emotivo nella morale, e superano la visione solo negativa dell’emozione. Specifico, al fine di evitare incomprensione, che per tramonto della tradizione razionalista non intendo tramonto della filosofia kantiana. Di fatto Kant eserciterà una grande influenza sul pensiero del Novecento, e la sua filosofia è ancora molto studiata e viva in molte forme. Per tramonto della tradizione razionalista allora intendo piuttosto il tramonto di un pensiero etico che tende a non riconoscere come dato costitutivo e degno di considerazione la parte emotiva (e irrazionale) dell’uomo nella presa di decisione e azione morale. Oppure, il che può essere lo stesso, il superamento stesso della contrapposizione tra emozione e ragione.
Qui considero molto brevemente, in chiusura, il pensiero fenomenologico. Non considero invece l’emotivismo e il non-cognitivismo perché queste posizioni fanno parte della filosofia analitica, che racchiude in sé un multiverso di posizioni diverse tra loro, tra cui evidentemente anche il cognitivismo.[13] Durante il secolo scorso la posizione più difesa sembra essere stata quella non-cognitivista a cui solitamente si accompagna quella emotivista, e oggi sembra essere ancora lo stesso. Non abbiamo comunque né la pretesa di né lo spazio per addentrarci in un’analisi di queste posizioni. Non sembra nemmeno che all’interno del nostro discorso di tesi si dia la giustificazione per una ulteriore micro-storia delle posizioni sull’etica della filosofia morale analitica, che richiederebbe una lavoro di tesi a parte. Basti allora quanto si è già detto, con l’aggiunta di una breve osservazione. La tradizione non-cognitivista ed emotivista è da considerarsi oggi senz’altro l’erede principale del discorso humeano e in generale sentimentalista. Per cui oggi, chi, meglio e con più forza, in filosofia, difende il ruolo dell’emozione nel processo di presa di decisione e azione morale, è senza dubbio questa forma di pensiero.
Veniamo dunque alle voci della fenomenologia. Questa, come detto, considera l’elemento dell’emozione come un importante costituente della morale. In particolare, caratterizza il pensiero fenomenologico il voler superare la contrapposizione dicotomica, propria della tradizione, tra ragione e sensibilità. Così la fenomenologia cerca di conciliare in una stessa teoria della morale l’elemento oggettivo con l’elemento emotivo (non soggettivo), solitamente considerato sinonimo di soggettività. Brentano indica la via alla fenomenologia quando parla della necessità di ritornare alle cose stesse: questa necessità significa infine anche superare l’esclusione dell’emozione dalla morale. Risulta così che ritornando alla cose stesse, e sviluppando la nozione di intenzionalità, ci si accorge ad esempio che il bene è intenzionato in maniera emotiva. Ma la cifra caratteristica del pensiero fenomenologico è che questo intenzionare emotivo non conduce alla soggettività in morale. Non è che è buono tutto quello che si ama, e cattivo tutto quello che si odia, anche se la relazione con il bene implica un rapporto di amore. Invece il bene è ciò che deve essere amato con giusto amore e la correttezza dell’atto d’amore è immediatamente evidente, dunque oggettiva. È possibile un discorso oggettivo in campo morale, dove appunto la giustificazione ultima poggia sull’evidenza di certi fatti.
3.15 Husserl
Husserl vuole un’etica che accolga alcune istanze sia del razionalismo sia del sentimentalismo, ma che in definitiva superi la stessa contrapposizione tra le parti; entrambe le teorie sono scorrette. Il sentimentalismo, seppur, diversamente che il razionalismo, pone una giusta attenzione alla dimensione concreta e sensibile dell’uomo, rischia di cadere nel soggettivismo, nel relativismo o, in una parola, nello psicologismo (che Husserl ha sempre avversato, non solo nella sua forma etica). Il razionalismo, seppur riconosce giustamente che la validità dell’etica è oggettiva, misconosce il carattere pratico di questa, e il ruolo che l’emozione vi gioca. Sia Hume che Kant hanno sbagliato nell’interpretare in maniera dicotomica il rapporto tra ragione e sensibilità. Nessuno dei due ha riconosciuto che la sensibilità non è riducibile alla fattività, e che l’esperienza può tracimare dalla fattività a cogliere il valore oggettivo. Questo ci è dato propriamente attraverso un atto intenzionale emotivo. Il processo però non è da intendersi come irrazionale, infatti la valutazione morale dipende da un atto intellettivo obiettivante che pone l’oggetto della valutazione. In sostanza, Husserl vuole sviluppare una logica del sentimento analoga alla logica del giudizio, dove il soggettivo è da riconoscersi nel sentire del sentimento, nell’intenzione, mentre l’oggettivo risiede nel valore intenzionato.
3.16 Scheler
Anche Max Scheler, proponendo un’etica materiale dei valori, critica quella formale di Kant. Si tratta così, per prima cosa, di rimediare alla falsa concettualizzazione dicotomica del rapporto tra ragione e sensibilità. Superando la contrapposizione è possibile sviluppare un’etica materiale che sia a priori. Scheler mostra, in consonanza parziale con la nostra analisi, che la scissione da superare tra razionalità e sensibilità, se trova la sua forma compiuta in Kant, è eredità di gran parte della tradizione etica filosofica dell’occidente. Noi abbiamo voluto mostrare che questa scissione è stata per lo più sbilanciata a favore della razionalità, come può ben mostrare la sua forma compiuta datasi in Kant. Secondo Scheler Kant ha sbagliato nel ridurre l’emozione alla sensibilità empirica. E ha sbagliato nell’intendere l’a priori come qualcosa da confinare nel razionale e nel formale. L’a priori invece intrattiene uno stretto e necessario rapporto con l’esperienza. Così anche il vissuto emotivo è dotato di un contenuto a priori. L’esperienza valoriale però differisce da altri tipi di esperienze. Sentire o percepire affettivamente e così cogliere i valori è un’esperienza intenzionale, immediata e conoscitiva. L’emozione così può intenzionare il valore, e inoltre ha un ruolo esclusivo in questa sfera. Infatti solo l’emozione può intenzionare e così cogliere il valore, mentre la ragione non può sola accedere al valore. Questo processo di coglimento da parte dell’emozione non è comunque un processo soggettivo. Piuttosto è oggettivo: gli enunciati di valore hanno infatti valore di verità, non sono mere espressioni della soggettività emotiva.
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– Spinoza, B. Ethica ordine geometrico demonstrata, et In quinque partes distincta, in quibus agitur I. De Deo II. De natura III. De origine, & natura affectum IV. De servitude humana, seu de affectuum viribus V. De potential intellectus, seu de libertate humana, 1677, (in Opera posthuma), trad. it. Etica dimostrata second l’ordine geometric e distinta in cinque parti nelle quali si tratta I. Di Dio; II. Della natura e dell’origine della mente; III. Della natura e dell’origine degli affetti; IV. Della schiavitù umana, ossia delle forze degli affetti; V. Della potenza dell’intelletto, ossia della libertà umana, a cura di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 1988.
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– Vegetti, M. L’etica degli antichi. Editori Laterza, Roma-Bari 1989.
[1] Uso l’espressione paradigma razionalista come sinonimo della tendenza che ho individuato caratterizzare il pensiero etico antico e medievale per quanto riguarda il rapporto ragione passione.
[2] Hobbes individua infatti come passioni fondamentali il desiderio e l’avversione.
[3] Altrimenti egli parla di affetti attivi e passivi.
[4] Per usare la terminologia che si trova ad esempio in Husserl. In realtà Husserl classifica Shaftesbury come un moralista del sentimento.
[5] Quello che segue è detto in linea del tutto generale, si cercherà dal prossimo paragrafo di precisare meglio le affermazioni che seguono, andando a trovare Hume sulle pagine del Trattato.
[6] Ad esempio in Hume, D. An Enquiry Concerning the Principles of Morals, A. Millar, London 1751; trad. it. Ricerca sui principi della morale, Laterza, Roma-Bari 2008 (pp. 180-183).
[7] Specifico che Smith può a pieno diritto essere considerato un filosofo morale. Non tutti gli autori che abbiamo considerato nelle pagine precedenti possono definirsi dei filosofi morali, molti anzi si sono occupati solo trasversalmente delle questioni morali. Ma se Smith non è stato considerato che recentissimamente un filosofo morale ciò è dovuto solo a diffusa ignoranza o noncuranza.
[8] Questo significa forse dare spazio all’istanza della ragione nel processo di decisione morale. Rimane il fatto comunque che il processo è fondato sull’istanza emozionale della simpatia.
[9] In questi passi Smith sembra usare ‘ognuno’ come sinonimo di ‘ogni uomo ragionevole’.
[10] Sia detto del tutto marginalmente. Smith fornisce anche una breve storia dello sviluppo psicologico dello spettatore imparziale, che pare anticipare molti temi propri della psicoanalisi.
[11] Il primo giovane Kant è un sostenitore della prospettiva sentimentalista in morale. Ma la sua riflessione matura, come è noto, lo porta decisamente nella direzione opposta al sentimentalismo. Il sentimentalismo, secondo il giovane Kant, sembra fornire una valida teoria della motivazione. Ma presto nota che il sentimento derivante dalla sensibilità non è in grado di dar conto della necessità e universalità dell’obbligazione morale.
[12] Questa critica a Kant non è affatto irrilevante oggi quando si tratta di considerare lo studio sperimentale sulla morale da parte della psicologia e della neuroscienza. Anche il laboratorio può essere luogo angusto che impedisce un’autentica comprensione del fenomeno.
[13] Si può contrappone il sentimentalismo al razionalismo. Il primo è ben rappresentato dalla filosofia di Hume, il secondo dalla filosofia di Kant. Queste due etichette vengono date a delle opzioni riguardanti una questione normativa: quale sia l’origine della normatività dell’asserto morale, ovvero quale sia l’origine della forza normativa della ragione morale. Per filosofia sentimentalista allora si intende una filosofia che pone l’origine della forza normativa dei principi morali nel sentimento, i.e. nella reazione del soggetto empirico alle caratteristiche della situazione morale. Per filosofia razionalista invece si intende una filosofia che fa derivare la forza normativa del comando morale esclusivamente dalla ragione pratica. Sempre all’interno della questione normativa ci si può chiedere qual è l’origine della forza motivazionale della ragione morale. La domanda permette di distinguere tra posizioni internaliste, per cui i soli giudizi morali sono sufficienti a motivare l’azione, e posizioni esternaliste, per cui i soli giudizi morali non bastano al fine, ma a questi deve accompagnarsi un movente esterno non derivato dal giudizio morale. Porci poi la questione semantica di quale sia la natura del linguaggio morale, permette di distinguere una posizione cognitivista, per cui gli enunciati morali hanno valore di verità (il cognitivismo non è necessariamente una posizione che difende strenuamente la ragione, ad esempio l’intuizionismo di Oxford è un cognitivismo che però attribuisce capacità limitate alla ragione all’interno del discorso etico), e una posizione non cognitivista, per cui gli enunciati non hanno valore di verità. Al non cognitivismo si accompagna solitamente una posizione emotivista, per cui gli enunciati morali sono espressioni di sentimenti o emozioni. Si da poi la questione ontologica, che interroga sulla natura ontologica dei valori e sull’oggettività del giudizio morale. Si distingue tra realismo morale e antirealismo morale. Seguo la definizione di Brink (1986) per cui la tesi metafisica del realismo morale suggerisce quella semantica e quella epistemologica. Così per realismo morale si intende l’unione di queste due tesi: a) ci sono fatti o verità morali, b) questi fatti o verità morali sono indipendenti dall’evidenza a loro sostegno e dal metodo di verifica usato, i.e. sono oggettivi. Per antirealismo morale si intende una posizione che tipicamente nega la tesi (a), ma può negare anche solo la tesi (b), come è il caso del costruttivismo.
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