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Vita
La vita
Gottfried Wilhelm von Leibniz nasce il 16 luglio 1646. Studia a Lipsia e consegue eccellenti risultati fin dall’inizio dei suoi studi, nel 1661, all’età di soli quindici anni, va all’università con tutto che le università tedesche dell’epoca non erano centri d’eccellenza. Studia filosofia e legge sia i classici che i contemporanei: Bacone, Campanella, Keplero, Galileo e Hobbes. Come si vede dalle sue letture del periodo, fu attento anche alle questioni inerenti alla nascita della scienza. Nel 1663 diventa bacelliere di filosofia, nel 1666 si reca a Jena per studiare matematica. A Norimberca incontra un barone che lo introduce alla corte dell’elettore di Magonza, Giovanni Filippo. Fu investito della carica di diplomatico, e in questa nuova veste di diplomatico di corte ebbe modo di portare avanti idee filosofiche e politiche importanti, tra cui si annovera la proposta di riunificare i protestanti e i cattolici, idea che non ebbe, com’era ovvio, molto successo. Partecipò a importanti discussioni e sfruttò bene i vantaggi derivanti dalla sua posizione, ciò si intuisce dal fatto che non si ha notizia di contrasti con il mondo politico dell’epoca, fatto sempre degno di nota e di interesse. Riprese a viaggiare nel 1672. Andò a Parigi ed è in questo periodo che egli elabora il calcolo infinitesimale e, così, è pure di questi tempi l’animata discussione sul primato della scoperta con Newton. Nel 1676 ritorna in Germania. Nel 1676 diventa bibliotecario ad Hannover e si dirige in Olanda per conoscere Spinoza. Si dice che tra i due ci fu un incontro, ma si dibatte sulla sua effettività. Nel 1687 viaggia in Francia, Germania e in Italia fino al 1690. Nel 1670 aveva fondato l’Accademia delle belle arti a Berlino. Muore nel 1716.
Il periodo storico e storia della filosofia
Il periodo storico che si determina, nel mondo culturale, dopo Cartesio e Spinoza è di fermento e di risposta alla visione filosofica razionalista, fortemente incentrata sul concetto di causa, di sostanza e di separazione della mente dal corpo (dualismo cartesiano). Ma anche se si filosofi si impegnarono, per lo più, a contrastare le tesi, in realtà, essi subirono molto di più di quanto loro stessi avesssero voluto, l’influenza dei due pilastri del pensiero razionalista seicentesco. Pensiamo al primo empirista, Locke, che fa suo il principio delle idee come qualsiasi contenuto mentale o psichico, definizione già adottata da Cartesio, pensiamo alla influenza dei due sulla metafisica leibiniziana. Nonostante ciò, dunque, ci fu certamente una doppia reazione nel mondo filosofico alle problematiche aperte da Cartesio e Spinoza. Da una parte abbiamo tutto il movimento empirista inglese (Hobbes, Locke, Berkeley e Hume), dall’altra abbiamo Leibniz, considerato uno degli esponenti e continuatori del pensiero razionalista.
Spinoza aveva offerto una interpretazione estremamente coerente della natura e del concetto di sostanza. I problemi risolti da Spinoza erano più di quelli sollevati (tanto è vero che non ci fu una “scuola” spinoziana paragonabile alla tradizione empirista, motivo per il quale, proprio, dunque, per l’estrema coerenza, si pone il paradosso di un’assenza di grandi revisori o continuatori del pensiero del più grande filosofo olandese), ma sorgevano opposizioni proprio per ragioni esterne alla posizione spinoziana, dovuti ad atteggiamenti diversi rispetto alla realtà.
La morale dell’utile, che voleva la virtù come essenza stessa dell’uomo e come espressione della sua potenza, rivendicava la centralità del proprio bene grazie al quale, di riflesso, nasceva il bene comune, se considerato il bene globale come la somma dei beni singolari (una concezione assai simile a quella di Hobbes). In altri termini, se le persone ricercano il proprio bene, automaticamente la società ne trarrà il massimo vantaggio. Ma la libertà non è relativa all’azione ma solo al volere, così che l’azione diviene completamente inserita nel panorama delle relazioni di causa ed effetto (questo tanto secondo Spinoza quanto secondo Locke). Se queste erano le problematiche poste da Spinoza che, con la sua estrema precisione, rappresenta le conseguenze possibili di una certa impostazione filosofica ben debitrice al cartesianesimo, altre erano le questioni aperte da Cartesio stesso.
Egli, infatti, aveva posto un nuovo criterio di validità epistemologica per i contenuti della mente: ciò che è proferito in base alle idee chiare e distinte è automaticamente vero e ciò che è confuso è automaticamente falso. Cartesio aveva sottolineato come il contenuto dell’intelletto, e sul quale l’intelletto aveva potere d’intervento, erano proprio le idee; aveva così notificato che il mondo fisico era problematico nella sua esistenza in rapporto alla res cogitans (cosa pensante, il pensiero). Egli aveva messo in dubbio la validità dei sensi come sistemi affidabili per attingere conoscenze e aveva sostenuto che la conoscenza del mondo esterno è possibile solo grazie alla presenza di un Dio verace e garante dell’immutabilità della verità. Cartesio, cos’, aveva proposto un rigido meccanicismo metafisico, e aveva dato spiegazione della sua natura matematica proprio perché esisteva una chiara corrispondenza tra la mente e il mondo (corrispondenza che verrà estremizzata da Spinoza sul piano metafisico) e la mente, grazie ad un sistema metodologico di ispirazione matematica (come viene presentato nel celebre Discorso sul metodo) il mondo diventa intellegibile.
Leibniz si trova a dover rispondere a tutti questi problemi e costruisce una metafisica riassumibile nell’idea della monade, unità semplice del tutto. Ma i suoi studi furono vari, dalla matematica alla fisica, e come pensatore si presenta come un eclettico e asistematico, sebbene, come capita spesso nella storia, se ne dia un’immagine di un monolite nero, tutto compatto ed unito nella varietà dei suoi atomi. Dev’essere un’esigenza dell’uomo quella di vedere una solidità, una certezza, almeno nel passato e, per ciò, quando non c’è la si crea.
Opere principali
Meditationes de cognitione veritate atque deis (1684).
Nuovi saggi sull’intelletto (scritti in risposta al saggio lockeano).
Il nuovo sistema della natura (1695).
Nova metodus pro maxime et minimis (1673).
La teodicea (1710).
Saggio sulla monadologia (1714).
Principi sulla natura e della grazia fondati sulla ragione (1714).
Schema di ragionamento: i principi della monadologia
- La monade è una sostanza perché senza parti.
- Devono esistere sostanze semplici perché ne esistono di composte.
- Le monadi sono i veri atomi della natura, sono gli elementi delle cose.
- Le monadi non vengono create da altre e non si distruggono.
- Solo Dio può creare e distruggere le monadi.
- Le monadi non hanno origine fisica.
- Ogni singola monade è inalterabile dalle altre monadi.
- Ogni monade è differente dall’altra perché non esistono due esseri che siano completamente identici per il principio di identità degli indiscernibili.
- Ogni monade è soggetta a mutamento, così come gli altri esseri. Il cambiamento è continuo in ciascuna.
- La monade ha causa del suo mutamento in sé stessa (per la 7 e la 9).
- Ogni monade è relazionata ad ogni altra monade.
- Il mutamento implica una molteplicità nell’unità così che nella sostanza semplice deve esistere una pluralità di rapporti.
- Il mutamento è percezione (da osservare che la percezione è da tener distinta dall’appercezione o autopercezione).
- L’azione interna implica il mutamento. Un’azione interna è definita come il passaggio da una percezione ad un’altra e l’azione interna può essere anche l’appercezione.
- La percezione non è speigabile a partire da figure e movimenti: essa non è spiegabile a partire dalla pura meccanica così che è negato il meccanicismo metafisico.
- L’entelechia è la monade perché la monade è in sé autosufficiente.
- Qualunque stato presente implica uno stato passato perché uno stato presente è uno stato passato in base ad uno stato futuro.
- L’uomo è un animale in grado di conoscere le verità eterne e può conoscere Dio.
- L’uomo conosce solo ciò che percepisce come chiaro e distinto.
- L’uomo conosce Dio in base alla conoscenza dei suoi stessi limiti.
- I ragionamenti sono fondati su due regole: principio di non contraddizione e principio di ragion sufficiente.
- Esiste la verità di ragione e le verità di fatto: la verità di ragione è una verità che, se negata, implica contraddizione. La verità di fatto è una verità contingente e la negazione non implica una contraddizione in linea di principio ma solo in via di fatto.
- Esistono infinite idee semplici delle quali non è possibile dare definizione.
- L’idea di Dio implica la sua stessa perfezione.
- Qualunque monade è stata creata da Dio.
- Qualunque monade fa parte di un corpo limitato.
- Dio è potenza ovvero creatore di ogni parte della realtà; Dio è conoscenza, ovvero ciò che possiede il piano del progetto generale dell’ordine delle monadi; ovvero conosce ogni singola monade. Dio è volontà, in quanto opera volontariamente per il meglio.
- Esistono infiniti mondi possibili.
- Il mondo attuale è il migliore dei mondi possibili.
Principi generali
a. Principio di non contraddizione: una contraddizione è una proposizione sempre falsa del tipo “a e non a”.
b. Principio di identità: ogni elemento è identico a se stesso.
c. Principio di identità degli indiscernibili: se un elemento a è indiscernibile dall’elemento b allora a e b sono lo stesso elemento.
d. Principio di ragion sufficiente: ogni evento E ha una ragione R per cui E accade secondo la proprietà indicata da R.
e. Principio di determinazione completa: ogni oggetto deve essere descritto da tutte le sue parti per essere interamente determinato.
Filosofia
Teoria della logica e della verità
La filosofia di Leibniz è sostanzialmente divisa in due parti che si integrano in un tutto organico: la prima parte è costituita dalla logica, dalla teoria della verità e dalle conseguente teoria epistemologica. La seconda parte, invece, è relativa alla parte più specificamente metafisica nella quale si traggono le conseguenze dell’approccio logico, riassumibile nel concetto di “monade”; in fine, si presenta una parte a sé la difesa dell’idea di Dio, una peculiare idea di Dio, che aveva subito vari attacchi sia sul piano strettamente ontologico che morale. D’altra parte, gli attacchi alla concezione morale e religiosa saranno delle costanti del pensiero illuminista successivo. Il periodo in cui vive Leibniz è caratterizzato da uno scontro tra culture e tra approcci filosofici opposti.
Leibniz vedeva nella logica una fondazione di un linguaggio universale. Ma per concepire ciò, egli deve fondare una nuova logica, che poi sarà l’avvio di una parte importante della logica moderna: la logica, così concepita, non deve essere più un linguaggio meramente discorsivo, ma deve essere ripensata a partire dall’uso di simboli indipendenti dal discorso stesso, simboli che ne mostrino la forma logica priva di semantica. La logica, così pensata, al pari dell’algebra, non è vista solo come pura forma, ma dev’essere capace di formulare nuove verità. Fino a tempi molto recenti, la logica, concepita come discorso puro, privo di semantica, era malvista nel mondo filosofico perché non consentiva di pervenire a verità nuove, ma solo a “ovvietà”: Kant, ad esempio, non darà importanza alla logica pura giacché, appunto, incapace di formulare verità sintetiche. La logica di Leibniz è pensata come strumento per chiarire gli elementi oscuri del discorso, causa di ambiguità e vaghezza nel discorso ordinario, capace di dedurre nuove proposizioni vere. A queste condizioni, dunque, la logica viene reinserita all’interno di un’ideale panorama epistemologico nel quale la chiarezza è frutto dell’analisi logica, intesa in questo senso moderno.
Leibniz arriva, così, formulare una definizione del concetto di verità. Egli la partizione in due categorie: verità di ragione e verità di fatto. Le verità di ragione sono quelle che non necessitano dell’esperienza per essere conosciute. Esse rispondono solo del principio di non contraddizione (“a e non a” è falso, qualunque proposizione sia a), e del principio di identità (l’elemento b è identico a se stesso, quale che sia b). La verità di ragione è quella verità espressa da una proposizione nella quale il soggetto è presente nel predicato (“Il cavallo bianco di Napoleone è bianco ed è di Napoleone”; “il cavallo è il cavallo”), vale a dire peculiari forme di tautologie, sintattiche o semantiche (proposizioni la cui forma logica impone che siano sempre vere). Questa concezione della “verità di ragione” è identica alla posizione kantiana in merito alle verità analitiche, vere per ragioni puramente sintattiche o semantiche, ad esempio, “tutti gli scapoli sono uomini non sposati” è una verità semantica perché una volta fissato il significato del termine “scapolo” è automaticamente vera la frase. Il significato dei termini si presuppone fissato a priori, al di là dell’esperienza del soggetto, così che in Leibniz si può parlare di una piena scissione tra proposizioni empiriche e proposizioni analitiche, sebbene sia più discutibile che in Leibniz ci fosse una chiara separazione tra la sintassi e la semantica. La matematica è pensata come un insieme di proposizioni analitiche (di ragione) proprio perché retta dai principi di non contraddizione e identità. La verità di fatto, invece, è espressa da una proposizione in cui il predicato non è necessariamente associato al soggetto della frase, così che è evidente che se la proposizione è vera, lo è perché relativa ad un dato di fatto conoscibile esclusivamente a posteriori, non deducibile da verità di ragione e, dunque, di fatto si tratta di una proposizione empirica e contingente. Ad esempio, la proposizione “Cesare varcò il Rubicone”, esempio celebre di Leibniz, è una verità contingente perché (1) dalla sua negazione non segue nessuna contraddizione a livello di principio perché (2) esistono mondi possibili in cui Cesare non varcò il Rubicone e, dunque, (3) la proposizione “Cesare varcò il Rubicone” è conoscibile attraverso la constatazione di un particolare dato di fatto, ma non attraverso pure deduzioni logiche. Una proposizione contingente si discosta, dunque, da una verità di ragione per la sua indeducibilità e per la sua validità empiricamente determinata. Si faccia caso che, invece, le verità di ragione sono vere in tutti i mondi possibili, quali che siano i fatti di quel mondo: che “ogni elemento, se esiste, è identico a se stesso” è una verità logica, che vale per ogni mondo possibile, mentre “Il cavallo di Napoleone è bianco” vale in tutti i mondi in cui il cavallo di Napoleone è bianco ed è falsa in tutti gli altri. Per conoscere le verità di fatto si segue un processo induttivo e non deduttivo. A quest’impostazione logica fa capo il principio di ragion sufficiente, secondo cui tutto avviene secondo almeno una ragione. In questo principio è contenuto, in nuce, il concetto di quello che si potrebbe chiamare “ottimismo epistemico”, secondo cui, in linea di principio, tutto è conoscibile, almeno nel suo nucleo chiave (ragion sufficiente). Questi pochi principi permettono a Leibniz di edificare tutta la sua metafisica e di poter, così, essere semplice e molto potente sul piano esplicativo.
Teoria della conoscenza.
La teoria della conoscenza è fondata su due piani: innatismo dell’intelletto e conoscenza a posteriori. Leibniz, sebbene sia collocato nella tradizione storiografica nel movimento razionalista, si presenta più come il punto di connessione tra un razionalismo più radicale e l’empirismo. D’altra parte, la teoria epistemologica leibniziana ricalca quella che è la sua concezione logico-metafisica del mondo: se le verità logiche sono conoscibili esclusivamente dall’intelletto puro, allora le verità logiche sono conosciute indipendentemente dall’esperienza; d’altra parte, le verità contingenti possono solo essere certificate a posteriori e, dunque, dai sensi. Leibniz dei razionalisti condivide l’atteggiamento generale, vale a dire che la conoscenza non dipende esclusivamente dai sensi (come in Locke, Berkeley e Hume), ma condivide, con gli empiristi, la necessità della conoscenza scientifica fondata sui sensi. Esistono, dunque, due livelli di conoscenza: il livello delle verità eterne di ragione e il livello delle verità di fatto o contingenti. In base a ciò, Leibniz edifica la teoria dei mondi possibili.
I mondi possibili, la monadologia e la difesa dell’idea di Dio: la metafisica di Leibniz
Dio, nella sua infinita potenza, non poteva creare in maniera diversa le verità eterne perché egli stesso deve rispettarle e attraverso quelle ha creato il mondo, così come si presenta (in base a ciò, Leibniz annulla la possibilità stessa di concepire un Dio che non segue le regole logiche, com’era stato, invece, adombrato da Cartesio; e, per la stessa ragione, sostiene l’impossibilità di avere geni maligni). In opposizione a coloro che avevano una visione di Dio che non era infinitamente potente, Cartesio sostiene o che Dio può modificare le leggi della matematica e della logica, oppure che quelle verità implicano che Dio stesso è limitato da quelle. Leibniz controbatte a questo argomento che le verità eterne sono proprie della natura di Dio e furono usate per creare il mondo. Ma per Leibniz il mondo non era, come visto, interamente costituito di elementi necessari, per tanto le verità di fatto, ovvero le particolari condizioni contingenti corrispettive alle proposizioni empiriche, potevano essere diverse perché i fatti contingenti, questi si, potevano essere diversi da quelli che furono.
La teoria delle monadi chiarisce in che termini il mondo poteva essere diverso da quel che è. La verità, dunque, per Leibniz non può essere conosciuta se non si comprende prima la base metafisica di sfondo, cioè le monadi: “la monade è una sostanza semplice dove semplice significa senza parti” (Frase 1, Monadologia). La monade è il vero atomo della realtà e, non a caso, viene definita come il “punto” della geometria euclidea. La monade è l’elemento non ulteriormente riducibile, scomponibile, dunque, si tratta dell’elemento semplice. Le singole cose non si creano e non si distruggono a partire da nulla che sia fisico: la creazione dei singoli oggetti è stata opera di Dio e solo Lui, nella sua onnipotenza, è in grado di distruggere le monadi. Pur essendo delle unità, in parte perfette ed autosufficienti, le monadi sono soggetto, come tutta la realtà, ad un continuo mutamento. Il mutamento, però, non è dato dall’interazione attiva (come un corpo che ne colpisce un altro) ma solo dalla percezione che tutte le monadi hanno tra loro. In questo senso, ciò che varia sono le percezioni interne di ogni monade, le quali sott’intendono una continuità e un passaggio da una percezione ad un’altra. Tale attitudine è chiamata “appetizione”. Le monadi variano per gradi di perfezione ed in base a questa sono anche più o meno in grado di autoconoscersi, così che esisteranno esseri dotati di autocoscienza, o “appercezione”, ed esseri dotati di sola capacità percettiva. La percezione, come si è detto, non è il frutto di un’interazione attiva, ma solo passiva. Il mondo è formato da una serie infinita di monadi, tutte relazionate tra loro, le quali sono organizzate in composti, i quali sono, appunto, forme di una stessa sostanza. In questo senso, si ripropone la teoria della sostanza aristotelica, dalla quale deriva il termine “eutelechia” associato da Leibniz a quello di monade.
Ogni corpo ha la sua forma, data dall’organizzazione delle monadi che lo compongono: ogni corpo, dunque, è un composto architettonico di monadi. Tutto ciò che accade è a partire dal principio di ragion sufficiente, così che tutto deve avere una ragione per svolgersi così come accade. L’ultima considerazione importante sulla monadologia è il “principio di determinazione completa”: un oggetto, essendo sempre diverso da tutte le altre esistenti, per esser definita, deve essere descritta in tutte le sue singole parti. Ciò perché ogni corpo deve essere distinto dagli altri e identico a se stesso (principio di identità degli indiscernibili e principio generale di identità): due cose identiche non esistono o sono la stessa cosa.
Riassumendo la metafisica della monadologia, essa si fonda sull’elemento semplice, la monade, definito come elemento senza parti. Le configurazioni delle monadi compongono i singoli oggetti, concepiti come composti di elementi semplici. La variazione della configurazione delle singole monadi segue il principio di ragion sufficiente, per cui tutto ciò che accade ha almeno una ragione per cui accade. Ogni complesso di monadi è distinto dagli altri per il principio di identità degli indiscernibili, che impone che ogni elemento identico è uguale a se stesso e diverso da tutti gli altri, così che se ci fossero due elementi identici allora sarebbero lo stesso elemento. Le monadi hanno in sé il principi di percezione e la capacità di autopercezione (appetizione), tale che alcune entità saranno capaci di autoconoscersi in quanto si autopercepiscono e altre no. L’organizzazione generale delle monadi in composti è il mondo, organizzazione pianificata da Dio, come vedremo.
Dio è l’ordinatore del mondo monadico ed è concepito come potenza creatrice e forza ordinatrice. Dio, dunque, non solo è stato il creatore del mondo, ma pure il “grande architetto”, così che ha imposto un ordine alle monadi.
Nella Teodicea Leibniz intendeva difendere l’idea di Dio da attacchi simili a quelli di Spinoza o Bayle (attacchi a una certa idea di Dio). Leibniz associa il principio, già esposto, secondo cui Dio è il grande architetto del mondo, all’idea che Dio ha creato e ordinato il mondo nel modo migliore possibile, cioè la configurazione globale delle monadi era la migliore di quelle consentite dai principi ai quali Dio stesso doveva attenersi. Così, il nostro mondo, il miglior mondo possibile, possibile perché se ne davano anche di peggiori (!), presenta dei mali, ma tali mali sono i “mali minori possibili”: Dio, nella sua pura bontà, non poteva che volere il meglio per la sua creazione. Così, la scelta di Dio era libera perché non causata da altro che dalla sua stessa bontà che, facendo parte della sua stessa natura, costituisce l’unico motivo per cui Dio ha operato la scelta, che, dunque, non si presenta coatta. La critica più celebre a questa posizione è quella riportata nel Candido di Voltaire.
Filosofia pratica
Leibniz elabora il problema della libertà a partire dall’analisi aristotelica. La libertà è divisa in libertà di diritto e in libertà di fatto ed in generale è definita come potere di fare o non fare qualcosa in accordo con la propria volontà. Leibniz per volontà non distingue tra desiderio e ragione (cosa che poi verrà fatta tanto da Hume quanto da Kant).
La libertà è dunque una possibilità, un potere e questo potere però è la stessa espressione di un soggetto. In questo senso solo gli esseri dotati di intelletto possono essere liberi con delle limitazioni. Il problema tra libertà e necessità è risolto non ponendo il problema se l’una si escluda all’altra ma come non incompatibilità tra l’una e l’altra. Al concetto di libertà si oppone il concetto di costrizione. In questo senso il soggetto può dirsi costretto in due sensi: o per costrizione interna o per costrizione esterna. La costrizione esterna è una condizione fisica tale che esclude tutte le altre alternative del soggetto. La costrizione interna si pone quando ad una volontà si oppone un certo e determinato desiderio. In questo modo la volontà è continuamente sottoposta a forze resistenti e ci si può difendere solo con la possibilità da parte nostra 1) di dare il giusto peso ai vari desideri, 2) sospendere la nostra facoltà di giudizio, 3) sostituire un desiderio ad un altro, così da farli entrare in conflitto.
Per Leibniz il soggetto si dice libero se può fare o non fare qualcosa in accordo con i propri desideri. Il fine si pone a partire da una certa disposizione del soggetto ad agire in un certo modo. Il soggetto appetirà al bene che altro è se non la ricerca del piacere mentre il male è dolore e da questo il soggetto fuggirà come può.
Bibliografia
Adorno F., Gregory T., Verra V., Manuale di storia della filosofia (voll.2), Laterza, Roma-Bari, 1996.
Descartes R., Discorso sul metodo, Mondadori, Milano, 1997.
Descartes R., Meditazioni Metafisiche, Traduzione e introduzione di Sergio Landucci. Editori Laterza, Roma-Bari, 2007.
Hobbes T., Leviatano, Laterza, Roma-Bari, 2004.
Hume D., Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano, 2001.
Hume. D., Ricerca sull’intelletto umano, Laterza, Roma-Bari, 2004.
Kant I., Critica della ragion pratica, Traduzione di Francesco Capra, Laterza, Bari, 1997.
Kant I., Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari, 2003.
Locke J., Saggio sull’intelletto umano, Laterza, Roma-Bari, 2006.
Severino E., Antologia filosofica, Rizzoli, Milano, 1988. cap. Monadologia.
Severino E., La filosofia dai greci ai giorni nostri. I filosofi moderni, Rizzoli, Milano, 2004.
Spinoza B., Etica dimostrata con metodo geometrico, A cura di Emilia Giancotti, Editori Riuniti, Roma, 1988.
Trombino M., La filosofia moderna. (Voll. 2) Poseidonia, Bologna, 1998.
Voltaire, Candido. Ovvero l’ottimismo, Bompiani, Milano, 1987.
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