Di Enrico Pili
Reportage dal Sud.
Non più di dieci chili nel bagaglio a mano del volo low cost. A malapena l’abito per la cerimonia che, pazienza, si stropiccerà un po’, le camicie, due cravatte, intimo in abbondanza, non si sa mai diceva la madre, fanatica delle pulizie e del chiodo fisso, più angoscioso della morte, di trovarsi pronta per l’ultimo viaggio: che vergogna essere impreparati per tale evenienza, con le mutande di due giorni o i calzini che puzzano. Un viaggio di sola andata, low cost, l’ultimo e il più importante, pretende una biancheria fresca di bucato e più linda dell’anima.
Il viaggio da Cagliari a Bari e poi da Bari a Matera, con macchina pure low cost affittata via Internet, effettivamente risulta economico. L’acqua si paga sull’aereo, è vero, ma è anche vero che per un’ora si può farne a meno, e anche del tramezzino, che vale dieci euro e il mal di pancia. Né è pensabile un caffè all’aeroporto, caro come il fuoco. Ultimamente c’è stato un picco altissimo di vendite di thermos tascabili, dice Il Sole Ventiquattrore, sempre attento alle statistiche del mercato. I viaggiatori seri e scafati e quelli abbonati alle mille miglia se li fanno regalare per Natale. Così si contengono i prezzi, si combatte l’inflazione e si prende per il naso la globalizzazione. Il caffè hot ha un prezzo hot in tutti gli aeroporti cold del mondo. Magari, andare a prendersi l’autovettura, una Punto senza il satellitare nonostante fosse nei patti e nel voucher dimenticato a casa, nel parcheggio delle auto da noleggio a un chilometro e mezzo dall’aerostazione è una retribuzione non proprio bassa e dimostra l’assunto postumo che Cagliari Elmas batte Bari Palese quattro a zero, un po’ come nella partita di pallone dove però il gol della bandiera, il Bari, contro il Cagliari, l’ha fatto.
Si ha l’impressione che Cagliari, rispetto a Bari, sia una capitale del Nord. Il suo aeroporto è ampio, nuovo, pulito, ci si muove bene, amichevolmente variopinto di pubblicità autoctona dove spicca una gigantografia di una spiaggia con cavaliere vestito di ragas e berritta su cavallo bianco che fa schiumetta sul bagnasciuga e la scritta rossa gialla e blu tridimensionale, senza bisogno degli occhialini della fantascienza per leggerla, “Sardegna, quasi un Continente”. D’altronde, tutti gli idioti stereotipi sul Sud non valgono per la Sardegna. La Sardegna non fa parte del Sud. Forse perché c’è la Costa Smeralda e i banditi ora sequestrano le persone a scopo di turismo non di estorsione. Ora sì che sono balentes. La Sardegna è un Continente. Quasi. In Sardegna non ci sono Mafia, Camorra, N’drangheta, né la Sacra Corona Unita che, invece, pare di casa in queste lande più apulo che lucane, a quanto si dice e si sente mentre si transige un nolo di autovettura.
In Lucania ci sarebbe la mafia dei Basilischi che, se lo sapeva Lina Wertmuller, il suo primo film non lo avrebbe intitolato così. Ma è ancora giovane, codesta organizzazione, imberbe, inesperta e non è ancora assurta agli onori della vera ribalta. In televisione non se ne parla mai, sui giornali nemmeno, potrebbe essere un’invenzione di quei lucani gelosi del fatto che nessuno parli della Basilicata neanche quando un terremoto la strattona o viene trovata una vena di petrolio che risolverà i problemi della bilancia commerciale italiana. Che poi è una balla, visto che qualcuno si è messo in testa di approvvigionarsi di energia con centrali nucleari o pale eoliche, già ambita meta degli ecologisti che ci hanno ripensato: le pale inquinano il panorama.
Il parcheggio situato lontano dal check in nel “corno della forca” – in su corru ‘e sa furca, come si dice nella lingua sarda per “lontano” – dimostra all’incontrario che nella confinante Apulia qualcuno che agisce nell’ombra e approfitta dei subappalti deve pure esistere se per arrivare a prendersi la macchina senza satellitare occorre fare un chilometro e mezzo abbondante a piedi con le valigie che scivolano faticosamente sull’asfalto bagnato, scabro e accidentato. Chi ha dato un’autorizzazione del genere, a costruire così un’area per la sosta delle macchine dei rent-a-car e perché? A chiederlo, la risposta è – nel dialetto meno comprensibile che esista – un “si faccia i fatti propri” e un’alzata di spalle. Non le basta pagare una miseria il nolo di un’auto per due giorni filati?
La Sardegna ha una sua dignitosissima lingua, non uno dei tanti dialetti strascicati da meridionali e settentrionali. La Sardegna non è il Sud, la Sardegna è un Continente. O quasi, cuddu cunnu, aiò! Ma, a pensarci bene, neanche il Sud è il Sud. Dalla Tunisia o dall’Algeria il Sud è il Nord, e così scendendo sino al Sud Africa che dovrebbe essere il Sud per eccellenza. E invece a Sud c’è l’Antartide. Ecco un posto davvero sfigato. Ecco perché il Sud è considerato tale. Perché l’Antartide è un posto indegno per viverci, eccetto che per i pinguini e gli scienziati pazzi. Ci stanno tanto bene, i pinguini, nel loro Sud che non gli viene voglia di migrare. Sanno bene che al Nord sono razzisti, anche in Sud Africa nonostante la fine dell’Apartheid, e che troverebbero più freddo che nel Sud, quel freddo che penetra nelle ossa e nell’anima e si chiama fame, odio, alienazione. O forse, come diceva Kapuscinsky dell’Africa, il Sud è un posto che non esiste.
Turbolenze sul mare Adriatico, grigio per riflesso dei nembi che, visti alla loro altezza, sembrano annunziare scrosci a terra di quelli che ormai da diversi mesi hanno immerso la Sardegna nell’acqua che, tanta, a memoria storica, non si era mai vista. Le dighe sono aperte e fatte tracimare a beneficio del mare che di acqua non ha bisogno. Gli scrosci, tuttavia, come il volo low cost, hanno un rovescio buono: la sposa lucana, la sposa di Luca, il nostro eroe sardo che si ammoglia domani in terra straniera, sarà fortunata, come dicono i proverbi di tutto il mondo, e quindi, diversamente dal comune senso dei proverbi, deve essere vero. Sarà bagnata, quando uscirà col suo bell’abito di cinquemila euro e di organza bianca e di merletti e nastri e strascichi, tutti bianchi pure loro. Sarà bagnata e quindi fortunata. Sarà stata la pioggia, che però in quel momento non c’era, a farla entrare nella chiesa addobbata di fiori bianchi, accompagnata dal padre azzimo e da Shirley MacLaine, la madre che tutti vorrebbero, con un ritardo di oltre un’ora? Pare che si faccia così al Sud, che sia un modo per onorare gli ospiti, una specie di aperitivo prima del banchetto nuziale. L’attesa, secondo questa teoria meridionale, è come il desiderio, la porzione più buona dell’amore.
Certo fortunata lo è già, a prescindere dalla pioggia, la sposa lucana, perché Luca è davvero a jolly good fellow that nobody can deny, è proprio un bravo ragazzo che nessuno negare lo può. E lui, il bravo sposo, sarà fortunato visto che si bagnerà anche lui? Facendo un viaggio nella grande ragnatela internettiana, navigando nel mare aperto delle informazioni, dove c’è tutto, anche il colore e la misura del camauro del pastore tedesco, non si trova uno straccio di proverbio che somministri allo sposo il contrappasso della buona sorte in cambio della pioggia. I proverbi non sono democratici, delle pari opportunità se ne infischiano, degli sposi maschi, non gl’importa nulla… forse sottintendendo un “Ma chi diavolo te lo ha fatto fare?” Vengono in mente le rime di una canzone che si canta nei cerimoniali post liturgici in Sardegna. “E gei dda fatta bella a ti cojai!” L’hai fatta proprio bella a sposarti. “Piga su piccu e bai a traballai”. Prendi il piccone e vai a lavorare. “Piga sa funi e bai a t’impiccai”. Prendi la fune e vai ad impiccarti.
“Chi te lo fa fare, Luca, di sposarti?” Domanda il pretino officiante, unto da Verdone e ironico – vorrebbe – alla Moretti, nella sua omelia scendendo dall’altare con microfono in mano dopo la tiritera biblica sulla sacralità del matrimonio, che non vuole tirare per le lunghe perché molti ospiti sono alloglotti, alcuni venuti dalla Malesia, altri chissà da quale corno della forca planetaria, colleghi degli sposi, manager di potente casa farmaceutica, viaggiatori in tutte le lande del pianeta dove i farmaci sono la merce che non conosce crisi perché a nessuno piace morire anzitempo o soffrire per troppo tempo, in barba alle medicine alternative di tutto il mondo, agli sciamani, ai guaritori e al viciniore San Pio che pure lui, con le stimmate posticce, propinava le medicine della più grande casa farmaceutica di tutti i tempi. Una multinazionale che fattura più di tutti gli Stati africani messi insieme.
I collaboratori scientifici hanno un linguaggio universale, come i musicisti o i matematici. Tutti li capiscono, anche i bambini. Mostrano l’aspirina e tutti dicono: “La compro!”. Soldi a palate con spray nasali e cerotti attacca tutto. Non ci sono picchi sul segno meno. Nel caso che un inopinatamente benefico buco dell’ozono renda tutti improvvisamente sani, allora le case s’inventano un’influenza e i governi si comprano i vaccini perché si sa che ad ogni vaccino corrisponde un voto.
Il sondaggio cinefilo del sacerdote, tutto carote evangeliche e niente bastone coranico, prosegue con la sposa. Ora lo stile è quello di Woody Allen e, come in un suo film, “O Don Come-Ti-Chiamano, perché non ti fai i fatti tuoi?” pensa la maggioranza silenziosa, anche un po’ divertita ma più ancora imbarazzata, degli invitati. Costringere qualcuno a dire cose scontate e lapalissiane o camuffare reticenze, è un peccato che alla fine sconterà lui, il pretino, che ha un pizzo di nobiltà fin de siècle. Il secolo della cui fine si parla, naturalmente, è l’Ottocento che a noi, scapolatori imperterriti e baldanzosi addirittura di un millennio, sembra l’altro giorno. Forse il tempo, come il Sud, non esiste e lo spazio – come quello – è un concetto relativo. Un’ora da Cagliari a Bari, da un Continente al Sud. Aveva ragione Einstein, ecco tutto. Semplice, scontato, lapalissiano.
A causa delle turbolenze l’atterraggio è penoso. Sembra di scendere su uno slittino in un costone nevoso pieno di buche. Alla fine, sospiro di sollievo al duro clang dell’impatto con la madre terra, e applausi a scena aperta al pilota, che forse non li meritava, ma ha portato tutti sani e salvi al Sud, un volo transcontinentale di un’ora sola e senza gli effetti perversi del jetlag. Le hostess hanno un visus riconoscente, già pallido per natura, e salutano allegrette ma non troppo i passeggeri nella loro parlata forse irlandese forse gaelica incomprensibile come quella dei vernacolieri indigeni.
Uscire dall’aerostazione con la Punto noleggiata, ma senza satellitare nonostante sia stato prepagato, non è difficile. Basta seguire l’indicazione “Bari centro” e voilà ecco la rotatoria, come aveva ricordato lo sposo interpellato alla bisogna via sms, in questo caso sos. Prodigo di messaggini, come sempre, aveva scritto: “Raggiungete la rotatoria e siete a posto”. Invece, raggiunta e presa un paio di volte in giro la rotatoria, occorre giocare con la monetina. Testa o croce? Bitonto o Palese? Facciamo Palese, un posto chiamato “due volte tonto” non deve essere quello giusto. E invece era quello giusto, si scopre dopo circa un’ora di vai e vieni senza senso imbrigliati dal traffico e dai sensi unici, apparentemente senza senso più del va e vieni, per gente che non li ha mai visti prima. La professoressa di bioetica – o qualcosa del genere, di molto moderno e “trendy” come tutte le discipline che iniziano per “bio” – fa presente che una cartina regionale, o una mappa del Sud, forse sarebbe stata necessaria visto che il satellitare è un optional che si prepàga ma non c’è. Dice anche di essere già stata a Matera e che, per arrivarci, bisogna passare per Altamura, ancora nella Apulia angioina, dove c’è un duomo davvero interessante. Ma non si farà in tempo a vederlo, sarà per un’altra volta. È imperdibile, dice la professoressa. In un viaggio c’è sempre una prossima volta. È questa la prerogativa più accattivante di un viaggio. Non finisce, non può finire e l’appuntamento ad meliora è sempre rimandato lasciando la mente e a volte il cuore in progetti per il futuro. Il viaggio è vita. La vita è un progetto per il futuro.
Finalmente un cartello stradale con l’indicazione Altamura e Matera, la destinazione finale del viaggio. Più precisamente, l’albergo Italia, sui Sassi, che Luca ha prenotato per i suoi ospiti venuti da tutti i continenti. Ma si sposerà a Montescaglioso, Mons caveosus o Mons scabiosus, dicevano i latini medievali, evidentemente anche lui situato su scaglie di sassi.
Poco più di mezzora e la Punto poco turbo ma molto diesel silenzioso ed elastico scapola la città angioina e le cuspidi della cattedrale e vira per la statale che, come tutte le statali ha un numero e forse anche un nome non riportato però sul cartello indicatore, porterà i viaggiatori sui Sassi di Matera. Tutto l’equipaggio – la bioprofessoressa, il medico onco e il marito del medico onco – in apnea ormai dalle otto del mattino, manifesta necessità fisiologiche che vanno dal panino con la mortadella o companatico similare allo svuotamento della vescica. A una specie di autogrill si fanno una specie di focaccia chiamata pizza per via delle chiazze di una specie di sugo di pomodoro sparse sulla crosta scura di bruciato, un bicchiere d’acqua di rubinetto – perché, dice il barman che conferma cortesia e gentilezza estreme della gente del posto, la nostra acqua è più buona di quella minerale ed è zero cost – e caffè, uno normale, uno lungo e uno macchiato. Se il cesso per le signore – dice, dopo l’ingurgitamento forzoso della così detta pizza, il marito dell’oncologa e driver per contratto di noleggio – è lo stesso di quello dei maschi, la pipì la farete sui Sassi. Sassi bagnati, Sassi fortunati.
Non bagnati ma umidi. Così si mostrano dalla finestra della stanza dell’Albergo Italia, esempio – questo bell’albergo low cost – che gli stereotipi sono sempre stupidi e mai ci azzeccano. L’albergo, e Matera gli rassomiglia molto, è tutto il contrario del Sud inefficiente, corrotto, improduttivo e assistito. È vero che la signora Rosalia, madre padrona dell’albergo, è una donna venuta dal Nord, una migrante nella direzione opposta ma è anche vero che nel Sud è rimasta diventandone un simbolo di intelligenza e laboriosità.
La nebbia ai grigi tufi e ai calcari gialli piovigginando sale e mostra i sassi in una veste fantasy gotico-medievale. Sembrano una città, così avvolti nei vapori ambigui dell’inverno, del film (ma meglio, come sempre, il libro) “Il Signore degli Anelli”. Oppure un villaggio della Palestina, quando la Palestina, come l’Arabia, era “felix”, tanto che vi nascevano i messia e vi morivano quelli che pretendevano di esserlo e pretendevano di essere re. Pretesa che i pratici antichi romani, che avevano il monopolio della “grande potenza”, contestavano giustificando la condanna a morte per attività terroristiche del presunto pretendente al trono.
Il regista australiano Mel Gibson, scambiando Cristo per il nazionalista scozzese Wallace “cuore impavido”, gli fa ascendere i sassi frustandolo a sangue, scarnificandolo, torturandolo tanto da provocare una specie di godimento, come quello che aveva a Calcutta Madre Teresa mostrando in trionfo un bambino dolorante e morente, l’essenza stessa della sofferenza, dono e privilegio di Dio che porta in paradiso con volo low cost. Uno dei film – “The Passion” – più pornografici mai girati, una violenza gratuita degna dei più sublimi integralisti (i talebani, in confronto, sono timide matricole del primo anno di pedagogia), fanatismo allo stato puro che ha costretto – per via del “realismo” – il povero attore Jim Caviezel a stare davvero affisso su una croce impiantata sulla cima dei Sassi per ben nove ore consecutive. L’interpretazione gli ha cambiato la vita. Ci credo, fa la signora Rosalia, conversando col driver, nella hall per inserire il suo saluto nel guest book dell’albergo. Stava per morire davvero, ed è più volte svenuto, una delle quali mentre l’elicottero girava attorno alla croce per la ripresa più spettacolare e oscenamente hollywoodiana del film.
Dopo la conversazione con la signora dell’albergo, l’amico dello sposo appunta in versi il suo saluto sul grosso libro pergamenato. Per diletto ama scrivere e il regalo personale per lo sposo – ne farà una copia anche per Evaristo, il padre dello sposo, uno dei suoi ventiquattro incalliti lettori – sarà proprio il racconto del viaggio, il reportage dal matrimonio che nella sua mente ha il titolo provvisorio de “La sposa lucana”.
Sospese tra sorprendenti sfumate
Allusioni di brume parautunnali
Strade ricordo nei tufi di Braque
Sospiri di miserie antiche. Albergo
Italia, Matera, il Sud buono e bello.
Dopo essersi rassettati, i tre amici dello sposo decidono che c’è ancora un po’ di luce per un paio di discese e ascese sui Sassi di Matera che, convengono, valgono davvero la pena. Ci sono, a far loro compagnia, le gazze che, per il momento, sono l’unica attrattiva che ricordi un furto o un ladrocinio, cose di cui il Sud è molto famoso e non si capisce il motivo. Codesto tipo di laurea ad honorem, infatti, meglio dovrebbe essere data al Nord perché – e sono le puntigliose statistiche del “Sole Ventiquattrore” ancora una volta a darne corretta informazione – lì avvengono più omicidi, più stupri, più rapine a mano armata, più spaccio di droga, più violenze private, più peculati, corruzioni, concussioni e abusi che nel resto del Paese. Probabilmente queste spettacolari – come la crocifissione di Gibson – performance sono più appariscenti, più intriganti e più “esotiche” al Sud perché al Nord sono di ordine quotidiano, non fanno più notizia e annoiano. Le gazze ladre fanno dimenticare i falchi grillai di cui si attende il ritorno dalle afriche australi. I falchi grillai sono ottimi viaggiatori. Vanno e vengono dove ritengono si stia meglio e ci sia da mangiare senza pagare dazi. A Matera stanno facendo di tutto per convincerli che l’ambiente è rispettato, tra i Sassi è bello vivere anche per loro. Però, l’unico grillaio avvistato sta sull’insegna di un ottimo ristorante – il consiglio professionale della signora Rosalia – cui i tre, dopo alcuni gradini facili, si appropinquano con l’acquolina in bocca all’ora di cena. Chiuso per ferie. Anche i falchi grillai ne hanno diritto, perché stare a casa propria è sempre bello dopo un viaggio lungo e faticoso.
L’indomani mattina breve giro a Matera, città che si lustra moderna, pulita, gentile e colta. Bei musei e tanta musica che si spande dal Palazzo del sedile, sede del conservatorio “Egidio Romualdo Duni”, grande compositore, amico e collega di Pergolesi e Paisiello. Che fosse “grande” nessuno lo sa, che fosse un compositore lo sanno a Matera che è già tanto. La riconoscenza non è mai troppa. Anche a Parigi ne ebbero perché nell’Opéra comique lo ritenevano “superiore agli stessi francesi”.
Sulle note di un flauto traverso che si allena in un difficile ghirigoro di contrappunto bachiano, i tre amici dello sposo lasciano Matera per Montescaglioso dove li attendono gli altri invitati alla cerimonia. Il viaggio dura meno di mezzora, ma la tentazione di deviare per Metaponto, antica capitale della Magna Grecia, al primo svincolo è grande, la cerimonia potrà attendere un’oretta oppure la puntualità è segno di amicizia e buona educazione? Prevale questo saggio sentimento anche se poi la sposa si farà attendere proprio quell’ora che sarebbe valsa la vista del mare Jonio e delle rovine greche, se pure ancora ne esistono o non sono state inglobate da cemento e speculazioni volgari. Meglio, forse, mantenere integra l’idea che i sibariti siano ancora tanto raffinati e dediti al piacere e alle cose belle piuttosto che al noioso oblio delle devastazioni.
Meglio attendere nella chiesa, con qualche stucco di troppo ma non barocchissima, dedicata ai santi Cosma e Damiano che, come gli sposi, dovevano avere a che fare con le medicine, e forse per questo è stata scelta come base della cerimonia o perché un impettito ma fiero padre della sposa è il priore della antica confraternita che preserva da tempi remoti il culto dei santi. Il padre dello sposo, invece, non è troppo a suo agio fuori dalle plaghe sicure del suo pezzo di continente, quello che un tempo dava da mangiare a moltitudine di minatori del piombo, dello zinco e del carbone, e ora, con l’esaurimento delle vene metallifere, si è riciclato a paradiso per i turisti meno danarosi di quelli che frequentano la Costa Smeralda. Tuttavia la Costa Verde, con le sue dune da grande Erg, è preferibile sotto tutti i punti di vista, in particolare non è inquinata da quel particolare smog che si chiama “puzza al naso”: anche chi non ha soldi può farvi il bagno, chi non ne ha la Costa Smeralda non può vederla nemmeno da lontano e nemmeno con un binocolo.
Diversamente dalla madre – nella sua permanente ordita alle sei del mattino dall’organizzazione ferrea del cerimoniale, molto a suo agio ma con un’aria di preoccupazione come ce l’hanno tutte le madri il giorno che si sposano i loro figli maschi – il padre dello sposo si vede che fa uno sforzo tremendo per apparire sereno e tranquillo. Viaggiare non gli piace specialmente perché viaggiare implica una perfetta forma fisica. Evaristo, il padre di Luca, ultimamente non sta molto bene, lamenta sempre qualche acciacco che attenua l’allegria e il mood buono anche negli uomini più paciosi. Gli antefatti imposti dalla tradizione, poi, devono averlo sballottato da un rito a una cena, da un protocollo a un addio al celibato, tutte cose che a Montescaglioso sono importanti e non può defilarsene. Però Evaristo è commosso a modo suo. E all’arrivo della sposa – che cadenza col padre priore un passo su un largo forse di Handel o magari, chissà, proprio del Duni che il Palazzo del sedile ha salvato dall’oblio – allenta la tensione accumulata in questi giorni di attesa in terra straniera.
Il ritardo della sposa, avvenuto nel pieno rispetto della tradizione del Sud, che ha il tempo ma non l’orologio (d’oro) come viceversa il Nord, ha determinato l’effetto domino di far scalare di oltre un’ora tutto il programma. Perciò viene cancellata, come previsto e pregustato, la visita guidata degli invitati alla splendida abbazia di Montescaglioso e il corteo, che deve finire in una masseria di Ruvo, non lontano da Altamura ma non vicinissimo alla città della sposa, rinvia a tempo indeterminato lo sprint nuziale, perché radunare tante macchine in fila indiana non è né semplice né facile, e parte due ore dopo il previsto. Sommando l’errore del priore, testa del corteo, che ad Altamura si perde, sbaglia direzione e gira a vuoto per un quarto d’ora, il risultato è che il banchetto inizia nella vecchia (e bellissima) masseria alle sedici inoltrate con gli invitati che abbozzano un sorriso di molta circostanza quando vedono gli sposi salutarli felici e contenti. Erano arrivati da tempo perché, pur essendo la vecchia Fiat Millecento – una macchina d’epoca, come si usa al Sud e anche al Nord – sfiatata e poco confortevole, avevano tagliato Altamura dal loro percorso ed erano giunti per primi alla masseria penosamente vuota e sgombra di convitati vocianti e clacsonanti. I quali hanno invece le facce come le quaresime appese sulle strade di Montescaglioso, che attendono il giorno di Pasqua come i parenti e gli amici degli sposi attendono l’ora della prima portata.
Per fare onore alla vecchia masseria (ia, ia, oh…, canticchia una giovane signora al suo bambinello insofferente all’ingresso dell’enorme edificio) e dare un tocco di profumo georgico e di bucolico sapore al clou del cerimoniale, un casaro è stato appositamente noleggiato per fare on line, in diretta, e forse low cost, le mozzarelline che saranno pure un po’ gommose, e forse anche un po’ insipide, ma, nell’acme della fame generale, talmente piacevoli da essere trangugiate e divorate come un cane fa con una polpetta, con tale velocità e tale sbavo da non sentire gusto alcuno.
Il catering è di un buon livello, nouvelle cuisine in ambiente apulo-lucano, con sentori dei profumi del parco della Murgia. Alcune portate superano la lode, altre non arrivano all’infamia. Tra l’una e l’altra, servite da personale inappuntabile, il giro degli sposi ai diversi tavoli intovagliati di bianco, come sono le sedie, il tutto in bella sintonia con i fiori e la sposa, bella come tutte le spose, che sorride felice a tutti anche a qualche inevitabile battuta poco chic. Terminato il giro, un duo di musicisti intona prima melodie romantiche, poi assolo di sax in onore dello sposo che di jazz si intende più di un edipeo enciclopedico e infine sonata “Al chiaro di luna” di Beethoven. Chopin è stato censurato, dice il valente pianista, perché al precedente matrimonio, inondato dalle note di impromptu, barcarole, notturni e cadenze d’inganno, proprio questo, l’inganno, è stato scovato dopo qualche giorno dal fatidico “sì”: la sposa amava il cognato e con lui era scappata con strazio di tutti, sposo, parenti e amici che avevano speso per il regalo una somma ingente per niente. Via, dunque, al benaugurale grande Ludovico Van e vade retro, Frederick!
Alla fine della sonata, accompagnata da applausi commossi, il maestro delle cerimonie musicali dà il via alle danze. Ma quando si scatena il “ballo dell’ascella”, con le forzate movenze di simulazione di fiuto di una zona del corpo unanimemente vituperata (con la sola eccezione dei feticisti), lo sposo sbotta con verve alla Groucho Marx: “Questo è troppo” aggiungendo una sformietta di disgusto e sottofondo di rimprovero per il popolo festante: “mi dissocio!”.
Il volo low cost di ritorno è più tranquillo di quello di andata. Da Bari a Cagliari il cielo non è privo di nuvole, ma sono come quelle africane, bianche, leggiadre come farfalle, spumeggianti come un sorbetto che fa digerire l’ansia di chi, come l’amico dello sposo, non sopporta le turbolenze. Lasciano intravedere ai non molti passeggeri che tornano in Sardegna, oltre alla propria ombra proiettata sulla terra che sembra la livrea di un leopardo uscito da un film di Tim Burton, prima la costa adriatica e poi quella tirrenica. Sotto una nube ecco il Vesuvio, dice un uomo che sa molto di geografia. Ho sentito dire che stia per eruttare, aggiunge l’uomo che evidentemente si aggiorna di news e di pubblicità progresso. La gente di Napoli ha fatto più volte la prova generale dell’evacuazione. E sempre che Bertolaso riesca a tenere sotto controllo le immondizie. Chissà dove le avrà nascoste.
Il Tirreno che si vede ora è quello dell’Ogliastra. L’aereo entra da lì sull’isola dividendola idealmente in due come di fatto è: il Capo di Sopra e il Capo di Sotto. All’altezza di Guspini, il paese dello sposo, e di Villacidro, il “Paese d’ombre” di Giuseppe Dessì, vira decisamente verso la parte più sotto del Capo di Sotto. Si riconoscono tutti i paesi del Medio Campidano e poi di quello basso e infine si infila nel corridoio di atterraggio sopra Elmas.
La professoressa bio, dentro il finger che porta i passeggeri al nastro del ritiro bagagli, chiede senza un’apparenza logica, se sarà piaciuto agli sposi il regalo di nozze.
Alla fine del tunnel ben illuminato un grande schermo con la luminosissima immagine di un cielo e di un mare senza pari, altro che Antille o Atolli. Un cavaliere su un cavallo bianco al piccolo trotto che fa schiuma sul bagnasciuga. Cavallo e cavaliere sono felici di indicare, e tronfi anche, la scritta tridimensionale gialla rossa e blu: Sardegna quasi un Continente.
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