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Mussolini marcia su Roma e vuole prendere il potere. Un’immensa folla lo segue. Prima domanda: la folla che segue Mussolini sta compiendo un atto linguistico favorevole alla presa del potere da parte del Duce oppure no? Invece, coloro che guardano Mussolini sfilare senza dire una parola, stanno sostenendo il Duce o no?
Austin non dà risposte chiare a questo problema, piuttosto si limita a sollevare il punto, dicendo che è una questione aperta. In generale, possiamo dire che un’azione può valere come atto linguistico, se essa fa parte di una procedura nella quale l’atto linguistico e l’azione sono equivalenti. Ad esempio, se un giudice dice “Condanno l’imputato a dieci anni di galera” e sbatte il martello è equivalente a “Condanno l’imputato a dieci anni di galera e la seduta è tolta”: i due atti sono equivalenti (assumiamo che lo siano) perché la procedura non fa distinzione tra le due cose. D’altra parte, secondo una più recente letteratura, il problema, nei casi di assenza di una procedura condivisa ed esplicita, attiene alla comprensione delle intenzioni di chi proferisce un certo atto linguistico o compie un certo gesto.
Torniamo, ora, al caso del Duce. Si può dire che fosse chiaro l’intento di Mussolini, sia perché costituiva un chiaro atto di ribellione al potere costituito (la marcia e la relativa manifestazione sono degli atti espliciti di rifiuto di un ordine), sia perché erano evidenti le intenzioni di Mussolini. A questo punto, possiamo dire che chi si limitava a seguire il Duce lo stava evidentemente sostenendo, perché la marcia costituisce di per sé un chiaro atto nel quale il rifiuto del potere implica l’accettazione delle idee di Mussolini, se non tutte, almeno di una parte. L’unica eccezione sarebbe rappresentata da coloro i quali si trovavano lì per caso, non riconoscessero la marcia come tale (magari credevano si trattasse di una maratona) e non avessero l’intenzione di sottoscrivere le idee di Mussolini. Ma anche queste eccezioni non costituiscono un problema rilevante: essi compiono degli atti linguistici e, per tanto, a parer nostro, se essi non rientrano nella categoria degli atti illocutori (per l’assenza di intenzioni), innescano delle conseguenze tali che sono indiscernibili agli atti perlocutori (cioè le conseguenze degli atti illocutori che avrebbero compiuto se avessero avuto l’intenzione di farlo). Chi, invece, rifiutava la marcia su Roma apertamente si dissociava con atti linguistici espliciti (ad esempio, gridando “il potere al parlamento, il potere al Re” o “il potere ai cittadini” o “il potere ai soviet”) o con atti equivalenti, come l’ostacolo fisico alla marcia o lancio di sassi: quest’ultimo atto, sebbene moralmente disdicevole, rientra pur sempre nella categoria degli atti illocutori, in questo caso, a tutti gli effetti. Dunque, l’agevolazione o l’ostacolo costituiscono i due estremi. E chi non faceva niente e non aveva alcuna intenzione particolare?
Il problema, a parer nostro, è quello di comunicare le intenzioni, mediante atti chiari di dissenso. Qualora qualcuno si rifiutasse di dichiarare la propria posizione non agendo, allora egli sta agevolando la marcia su Roma. Infatti, se il dissenso è un atto intenzionale manifesto, allora il rifiuto del dissenso non costituisce un ostacolo all’azione di un’altra persona. Di conseguenza, la nostra proposta è: chi non agisce o non esprime la propria opinione in modo fermo in questioni pratiche, sta automaticamente accettando lo stato di cose, quale che sia. E questo è il punto nodale che proponiamo in una serie di clausole Cn:
C1 Un atto linguistico è di assenso, qualora agevoli lo svolgimento di una determinata azione intenzionale.
C2 Un atto linguistico è di dissenso, qualora ostacoli lo svolgimento di una determinata azione intenzionale.
C3 Un atto linguistico o è di assenso o è di dissenso.
Si potrebbe dire che la C3 non sia una buona clausola perché esistono atti che non siano né di assenso né di dissenso, assumendo che essi esistano. Ma essi esistono? Si potrebbe assumere che l’assenso e il dissenso, così come le abbiamo presentate, siano due categorie che l’una implica la negazione dell’altra. Ma questo sarebbe troppo radicale e renderebbe la nostra concezione in cui tutte le vacche o sono bianche o sono nere. Assumiamo, dunque, che esista una categoria vuota, cosa ci rientra? Siamo del parere che essi riguardino solo chi non è a conoscenza dei fatti e non possa disporre di un’opinione chiara su un determinato problema, ad esempio, la marcia su Roma. Il fatto che una persona non disponga di un’opinione (in senso intuitivo), non significa che non sia a conoscenza dei fatti e solo questa condizione necessaria (ma non sufficiente, perché anche senza essere a conoscenza dei fatti si può nutrire un’opinione, ingiustificata ma non significa assenza) impone una categoria vuota perché egli è incapace di formulare una posizione sia a livello intenzionale, sia tradurre, di conseguenza, le sue intenzioni in fatti. Ora, tenuto presente ciò, tutti coloro che erano a conoscenza dei fatti e potevano avere anche solo ipoteticamente un’opinione o manifestavano dissenso o assenso alla marcia di Mussolini: avere un’opinione, qui, significa avere una valutazione per i fatti, il che non implicato dall’avere conoscenza di essi. Dunque, la categoria neutra (né assenso né dissenso) è presente e non vuota ma è risicata nel numero dei presenti alla marcia su Roma.
Si potrebbe obiettare che coloro i quali non facevano nulla, non dissentissero né assentissero, anche se avessero avuto una loro opinione su Mussolini, buona o cattiva. Infatti, la loro dichiarata neutralità implica il rifiuto di un’azione esplicita e il non-fare non significa fare. Questa obiezione, però, è limitata al momento presente. In realtà, il rifiuto di un dissenso esplicito non implica il rifiuto di responsabilità della scelta, semplicemente la rinvia: essa è rinviata al momento della vittoria o della sconfitta di Mussolini. Se Mussolini vince, allora essi sono per Mussolini; se Mussolini perde, allora essi sono per il partito antifascista. E, in fondo, non è così che vanno continuamente le cose? Ad esempio, se una persona non va a votare consapevolmente egli non sta rifiutando la scelta popolare, sta sostenendo che “quale che sia il risultato, io sono per il vincitore”. Queste persone, infatti, sono incoerenti perché si riservano sempre il diritto di criticare (manifestare il dissenso) per la parte che ha vinto, proprio in ragione della loro presunta neutralità. In realtà, essi non avrebbero il diritto di lamentela proprio perché essi hanno agevolato la vittoria di chi criticano. E allora possono criticare, ma ricordandosi che essi fanno parte della causa dei loro mali.
A questo punto, aggiungiamo una quarta clausola C4 per inserire la categoria neutra.
C4 Un atto non è né di assenso né di dissenso solo se una persona S non era a conoscenza dei fatti e non aveva un’opinione sui fatti.
La clausola C4, dunque, esclude tutti coloro che avevano cognizione di causa sui fatti e che, comunque, non nutrivano nessuna opinione su di essi. Prendiamo ancora il caso emblematico della marcia su Roma, per mostrare come l’assenza di conoscenza dei fatti non sia ancora una condizione sufficiente. Prendiamo Alfonso, un signore che è sempre stato avversario di Mussolini, egli non sa cosa stia succedendo a Roma, ma sa che non vuole in alcun modo che Mussolini prenda il potere, con o senza marcia. Così Alfonso dichiara esplicitamente “Io non voglio che Mussolini prenda il potere”. Si può dire che egli abbia dissentito dalla marcia su Roma? Evidentemente si, perché era nelle sue intenzioni per via delle sue opinioni pregresse. Dunque, Alfonso non fa parte della categoria vuota. Mentre Alfredo non sapeva né della marcia su Roma, né di Mussolini perché egli abitava in Africa per tutto il periodo e non aveva notizie né di Mussolini né delle sue marce e non si era fatto alcuna opinione di tutto ciò. Alfredo non va incluso all’interno dei manifestanti né dei contromanifestanti.
C’è, però, un’ultima questione: ciò che va incluso nella categoria di “atto linguistico”, come atto puramente comportamentale valido come “atto linguistico”. In realtà, basterebbe l’idea di Strawson, secondo cui un atto linguistico è sostituito dall’azione qualora esso manifesti la medesima intenzione di quello che sarebbe stato l’atto linguistico verbale. Ad esempio, l’ostacolare la marcia su Roma può essere considerato equivalente a “Mussolini boia” perché entrambe manifestano la stessa intenzione. Noi proponiamo, più semplicemente, che un atto linguistico verbale esplicito sia indistinguibile da un comportamento non-verbale intenzionale dall’identità degli effetti: se le persone recepiscono i due fatti come equivalenti sul piano delle intenzioni e le conseguenze sono, in un certo senso, le stesse (cioè non a livello fisico, ma da un punto di vista sociale, ad esempio) allora i due atti sono identici. Assumiamo, cioè, che se i due atti sono “socialmente indiscernibili” allora sono identici. Dunque, scriviamo la seguente clausola C5:
C5 Un atto linguistico verbale è equivalente ad un atto non-verbale se la storia degli effetti è identica (recezione di intenzioni e conseguenze reali).
Riportiamo tutte le clausole:
C1 Un atto linguistico è di assenso, qualora agevoli lo svolgimento di una determinata azione intenzionale.
C2 Un atto linguistico è di dissenso, qualora ostacoli lo svolgimento di una determinata azione intenzionale.
C3 Un atto linguistico o è di assenso o è di dissenso o né di assenso o di dissenso.
C4 Un atto non è né di assenso né di dissenso solo se una persona S non era a conoscenza dei fatti e non aveva un’opinione sui fatti.
C5 Un atto linguistico verbale è equivalente ad un atto non-verbale se la storia degli effetti è identica (recezione di intenzioni e conseguenze reali).
In conclusione, se si vuole manifestare il dissenso, bisogna farlo esplicitamente; se si vuole avvallare il comportamento di un altro, se si è a conoscenza di esso e, allora, si ha anche un’opinione, allora si può anche non agire. La categoria neutra riguarda solo i casi in cui una persona non ha alcuna cognizione di ciò che sta succedendo in una certa parte del mondo.
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