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Mitridate VI e la dittatura di Silla
Durante la guerra sociale che investì Roma, Mitridate VI, il re del Ponto si preparava a guidare le province greche e asiatiche contro Roma. Già dal 104 a.C. il Senato era stato attento alle sue mosse e, impossessatosi anche della Cappodocia nel 92 a.C., era toccato a Silla, in qualità di pretore, intervenire per insediare un re più gradito ai romani. Sfruttando un periodo di debolezza interna, Mitridate VI attaccò nuovamente la Cappodocia, allorchè il Senato si trovò costretto a dichiarare guerra al re del Ponto, anche se le legioni romane erano ancora impegnate contro le popolazioni italiche; Mitridate sostenne un efficace propaganda di rivolta al mondo romano, propaganda diretta al mondo greco: si presentò come un sovrano filoelleno, che rivendicava la libertà di tutti e vendicatore dei soprusi dei Romani. Ben presto dilagò in Cappodocia (attuale Turchia) e fu, presto, padrone di tutta l’Asia minore. Nell’88 a.C. si rese necessaria un’azione contro Mitridate, in conseguenza del massacro di migliaia di cittadini romani che vivevano nelle province asiatiche. Il comando dell’esercito venne affidato a Lucio Cornelio Silla.
Durante la guerra in Oriente in Roma i popolari tentarono di riorganizzarsi. Il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo revocò il potere consolare a Silla dandolo a Mario Druso. Lo Stato Romano giaceva, inoltre, in un profondo stato di crisi: la guerra sociale e la guerra contro Mitridate avevano impoverito le casse statali, così come le numerose razzie, massacri e devastazioni avevano portato alla perdita di numerosi capitali. Sulpicio Rufo propose una serie di provvedimenti per far fronte a questi problemi: richiamò dall’esilio quelli che erano stati perseguiti per collusioni con gli alleati italici, inserì i neocittadini italici in tutte le trentacinque tribù e impose un limite di indebitamento di duemila denari per ciascun senatore.
L’azione che fece scoccare la scintilla di una serie di reazioni a catena, fu il trasferimento del comando militare contro Mitridate da Silla a Mario: Silla non appena gli giunse la notizia, non esitò a tornare a Roma con la sua fedele legione, i soldati, infatti, si sentivano più legati al proprio comandante che allo Stato Romano, questo è un punto molto importante per capire i secoli avvenire della storia romana. Impadronitosi di Roma, Silla fece dichiarare i suoi avversari nemici pubblici: Sulpicio fu subito eliminato, così come vennero abrogati tutti i suoi interventi sul piano amministrativo, e Mario scappò nel nord Africa, dove poteva contare su amici capaci di proteggerlo. Prima di fare ritorno in Oriente per concludere la guerra mitridatica, anticipò la sua opera riformatrice: così ogni proposta di legge doveva essere approvata dal senato prima di essere sottoposta al voto popolare e i comizi centuriati dovevano diventare l’unica assemblea con potere legislativo.
Nel’87 a.C. Silla sbarca nell’Epiro e riprende gli scontri contro Mitridate. A Roma invece Lucio Cornelio Cinna e Mario tentano di riprendere in mano le redini del potere dichiarando Silla un nemico pubblico: fu tutto vano. Verso la fine dell’84 a.C., alla notizia dell’imminente ritorno di Silla, Cinna cercò di contrapporsi con il suo esercito ad Ancona, ma fu ucciso da una rivolta dei suoi stesi soldati.
Tornato a Roma nel 83 a.C. Silla, che si alleò politicamente con Gneo Pompeo, iniziò a combattere i seguaci di Mario. Questa guerra civile si concluse l’anno successivo con il massacro dei nemici sillani, ovvero popolani, Sanniti ed Etruschi nella battaglia di Porta Collina. Per rendere definitiva la sua vittoria, Silla si fece nominare nell’82 a.C. dictator a durata illimitata e diede inizio ad una feroce repressione, redigendo le liste di proscrizione, elenchi di avversari politici che potevano/dovevano essere uccisi: fu una vera e propria caccia all’uomo di cui le fonti dell’epoca ci tramandano un terribile ricordo. Non è il primo caso nella storia di un simile atto di terrore nei confronti dei propri cittadini avversari: già al finire della guerra del Peloponneso vengono attuati simili stratagemmi antidemocratici per “epurare” la società da ribelli e dissidenti conto la parte politica dominante. Tucidide stesso, in più di un passo, ricorda come la guerra intestina e il terrore siano le peggiori forme di violenza. Il caso di Silla, però, è il primo atto di una lunga serie di massacri intestini della storia Romana, il caso di una società con un forte centro politico e apparato istituzionale statale, al quale faranno seguito molti altri atti sanguinosi nella storia. Silla, inoltre, impose un nuovo ordinamento statale: ci fu un allargamento del corpo civico con una trasformazione delle comunità italiche e latine in municipia dello Stato romano, aumentò il numero delle province e professionalizzò l’esercito. Inoltre, vennero moltiplicati i tribunali permanenti, i già citati quaestiones perpetuae. Furono totalmente riformati i ruoli dei tribuni della plebe, che negli anni precedenti avevano avuto troppi ruoli sovversivi, e limitò il loro potere di veto. Vennero abolite le frumentationes. Infine il pomoerium fu esteso lungo una linea virtuale tra l’Arno e il Rubicone.
Compiuta la riorganizzazione dello Stato, Silla, inaspettatamente, si ritirò dalla vita politica il 79 a.C., convinto di aver portato a termine il suo progetto di restaurazione. Nel 78 a.C. morì nella sua villa di campagna in Campania.
Tentativi fallimentari di reazione antisillana, Spartaco e Pompeo
Già nello stesso 78 a.C. uno dei consoli, Marco Antonio Lepido tentò di ridimensionare l’ordinamento sillano proponendo il richiamo degli esiliati in seguito alle proscrizioni, il ripristino delle frumentationes e la restituzione delle terre confiscate agli oppositori di Silla. L’opposizione partì dal senato, rimasto fedele alle idee dell’ex dittatore perché venne aumentato il suo potere per l’indebolimento della controparte politica, e fu conferito un imperium eccezionale a Pompeo. Costui stroncò rapidamente le aspirazioni di Lepido che fuggì in Sardegna dove morì poco dopo. Tuttavia c’era da sistemare l’ultima resistenza mariana: infatti, in Spagna si era creato un forte contingente di soldati fedeli a Mario alla cui guida c’era il generale Quinto Sertorio. Costui era il governatore della Spagna Citeriore dove chiamò a sé gli esiliati sillani e i superstiti dell’esercito di Silla. La capitale di questo “staterello” autonomo da Roma fu posta ad Osca (l’odierna Huesca) posta ai piedi dei Pirenei. Ancora una volta il senato affidò a Pompeo un imperium straordinario sulla Spagna Citeriore e arrivato nel 76 a.C., Pompeo si trovò a fronteggiare una situazione molto difficile, dovuta a diverse sconfitte: necessitò di rinforzi. Ottenuti nel 74 a.C. la situazione migliorò gradualmente e la popolarità di Sertorio fra le truppe mariane andava calando, tanto che nel 72 a.C. il “fido” comandante Marco Paperna lo assassinò. Paperna a sua volta fu assassinato da Pompeo che spense tutti i moti di rivolta nel 71 a.C.
Al ritorno dalla Spagna, Pompeo dovette aiutare con il suo esercito il generale Marco Licinio Crasso a porre fine alla rivolta degli schiavi (la terza in pochi anni) guidati da Spartaco: questa rivolta era scoppiata a Capua in una scuola di gladiatori che si asserragliarono nelle pendici boscose del Vesuvio. Là furono raggiunti da altri gladiatori e schiavi provenienti da tutta Italia. Spartaco, un trace, e Crisso, un gallo, ebbero presto nelle loro mani un potente e combattivo esercito. Ma le legioni romane erano ben più organizzate e meglio armate e, così, Crasso riuscì a isolare Spartaco e i suoi in Calabria e, nello stesso 71 a.C. in cui Pompeo terminò la dissidenza in Spagna, la rivolta fu sedata.
Gneo Pompeo dimostrò di essere il capo militare di cui la repubblica romana necessitava e, tornato a Roma, dopo aver sedato gli animi degli schiavi, fu eletto console assieme a Crasso e riuscì a convincere i populares a modificare la riforma sillana. Da subito Pompeo e Crasso restituirono gli originali poteri dei tribuni della plebe: essi poterono nuovamente disporre del potere di veto sulle iniziative dei magistrati e poterono riproporre le leggi all’assemblea popolare.
Fra gli anni 70 e 60 a.C. erano riemerse due minacce importanti: Mitridate e i pirati illirici. Quest’ultimi resero il trasporto delle merci sempre più difficile, rischioso e costoso sia per chi investiva i capitali sia per i consumatori, che soffrivano molto l’irregolarità dei rifornimenti. I pirati, inoltre, si erano diffusi nella parte orientale del mar Mediterraneo, fra le isole greche e Creta. In quest’ultima isola ci fu lo scontro campale dove una flotta comandata da Quinto Cecilio Metello riportò una vittoria molto importante sui pirati. Contro Mitridate invece la guerra fu molto dura e lunga. Furono anni di sconfitte: ancora una volta il senato consegnò a Pompeo un imperium infinitum sul mar Mediterraneo, in modo da ridefinire gli antichi trattati di pace con i pirati e più avanti gli fu affidata anche la campagna militare contro Mitridate. Nel 63 a.C. ci fu la definitiva sconfitta di Mitridate con la sua morte. Riorganizzate le sue conquiste dalle conquiste delle coste occidentali dell’Asia minore fino al fiume Eufrate, regolati i conti con i re e le città libere nel 62 a.C. Pompeo fece ritorno a Roma carico di bottini e ricchezze e al suo ritorno fu accolto in trionfo.
Durante la campagna di Pompeo in Oriente a Roma ci furono parecchi dissidi tra i populares e gli optimates. A capo di quest’ultima fazione c’erano Marco Tullio Cicerone e Marco Porcio Catone; dalla parte dei populares c’erano invece Crasso, Caio Giulio Cesare e Lucio Sergio Catilina: quest’ultimo, per mantenere vivo il decoro della propria immagine, spese fortune per farsi eleggere console ma, alla fine, la sua elezione venne rifiutata. Fu accusato di concussione ed anche prosciolto dal tribunale adepto. Al posto suo venne eletto Cicerone. Ma l’ambizione di Catilina non si prostrò e tenne discorsi demagogici per ottenere un forte consenso dalla plebe, ma, nello stesso tempo, perse il consenso di Crasso e Cesare. Catilina nel 62 a.C. venne nuovamente battuto, ma non nello spirito: ideò una cospirazione che mirava a sopprimere i consoli e terrorizzare la città per impadronirsi di Roma ma fu tutto vano. Cicerone venne a sapere di questo suo intento e smascherò il tentativo di colpo di stato in senato pronunciando una celebre orazione, la Prima catilinaria, in cui disse: “Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia?” “Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza? […]” Catilina e i suoi congiurati furono condannati a morte.
Dal primo triumvirato alle idi di marzo. Il primo triumvirato, l’ascesa e la caduta di Cesare. L’ascesa e la caduta della repubblica.
Nel 62 a.C. Pompeo sbarcò a Brindisi in ritorno dalla campagna in Oriente e tornato con un grande bottino e onore militare, fu umiliato dai suoi avversari politici: essi rimandarono di giorno in giorno il riconoscimento della sua gloria, il trionfo in Roma. Fu così che Pompeo si riavvicinò prima a Crasso e poi a Caio Giulio Cesare, già alleato di quest’ultimo: questi tre personaggi stipularono un accordo di reciproco aiuto e sostegno che fu chiamato “primo triumvirato”. Quest’accordo, inizialmente segreto, venne anche avvalorato dal matrimonio di Pompeo con la giovane figlia di Cesare.
Il primo triumvirato diede subito i suoi frutti e nel 59 a.C. Giulio Cesare venne eletto console. Cesare poté subito far approvare le leggi che aveva concordato con i suoi alleati. Si trattava di due leggi agrarie che prevedevano la distribuzione della terra ai veterani di Pompeo di tutto l’agro rimanente in Italia, ad eccezione della Campania. In un secondo momento furono distribuite anche le terre campane. Fu approvata la lex Iulia de repetundis, per i procedimenti di concussione, che migliorava la precedente legislazione sillana.
Al termine della carica consolare, il tribuno della plebe Publio Vatinio fece approvare un provvedimento che assicurava a Cesare per cinque anni il governo della Gallia Cisalpina e dell’Illirico con tre legioni. Poco dopo resosi vacante il governo della Gallia Narbonese, su proposta di Pompeo, il senato dovette affidargli il comando anche di quella provincia con a capo un’altra legione. È evidente che Giulio Cesare e le sue quattro legioni potevano fare la differenza in qualunque battaglia. Quando Cesare arrivò nelle Gallie nel 58 a.C., Cesare dovette affrontare in uno scontro aperto gli Elvezi che minacciavano le terre a nord. Cominciò in questo modo la campagna militare cesariana. I galli, dal punto di vista militare, ma anche politico ed economico, erano una popolazione totalmente disunita e Cesare ebbe modo di allargare i confini delle proprie province non senza un bagno di sangue che si ricorderà per sempre nella storia dell’umanità. La conquista della gallia segna un momento cruciale della storia europea in quanto portò la civiltà urbana e statuale in gran parte dell’Europa continentale, fino ad allora dominata da popolazioni la cui struttura sociale era ancora legata ad un mondo prestatuale e prevalentemente rurale. Giulio Cesare riuscì in un’impresa straordinaria per l’epoca e per sempre, durante la quale egli stesso scese in campo non solo come genio militare ma anche come valoroso soldato, capace di comprendere i momenti critici delle proprie truppe e fu in grado di mantenere viva l’idea della sua indiscussa ragionevolezza, pur nei limiti di uno scontro armato di dimensioni epocali. Cesare, infatti, non fu solo uno straordinario capo militare, ma anche un uomo di capacità politiche fuori dal comune e riuscì ad imporre un ordine ad una serie di popolazioni disunite ma profondamente combattive, grazie all’intelligenza e alla praticità. La campagna gallica può essere portata ad esempio dell’intera storia romana, come di una civiltà burocratica, urbana e militare, nella quale l’intelligenza si univa ad una straordinaria capacità pratica, in grado di essere efficace e, nel contempo, razionale. D’altra parte, Cesare è, appunto, la figura storica che più di tutte le altre è capace di sintetizzare i limiti e le virtù del suo popolo, un popolo profondamente civile e imperialista, caparbio e violento, ma anche profondamente dedito alle pratiche più elevate dell’Uomo.
Nel 55 a.C. Cesare conquistò la Bretagna e spinse le popolazioni germaniche al di là del Reno tracciando, di fatto, arrivando a porre un confine naturale del territorio romano. Nel 53 a.C. conquistò la Britannia.
Preoccupato per la situazione pericolosa che si era venuta a creare a Roma, dove c’erano continui scontri tra populares e optimates, Cesare rientrò in Italia nel 56 a.C. per incontrare a Lucca Pompeo e Crasso dove i tre si accordarono per lasciare a Cesare per altri cinque anni il potere sulla Gallia con un aumento di sei legioni a sua disposizione, mentre Crasso e Pompeo si sarebbe impegnati a farsi eleggere consoli.
La grande crisi militare si ebbe nel 52 a.C. nella Gallia centro-occidentale sotto la guida di Vercingetorìge, re degli Arverni. Gli Arverni inflissero parecchie sconfitte all’esercito di Cesare, e si macchiarono dello scempio di Romani e Italici residenti a Cenabum. Vercingetorìge non era un capo come tutti gli altri. Egli era abile nelle cose militari, capace sul piano politico e intelligente abbastanza da riconoscere i sistemi più idonei per infiammare i cuori dei soldati. Egli si batteva per la difesa della libertà del suo popolo, contro l’imperialismo di un altro e di ciò era consapevole. Cesare, compresa la necessità di rinforzi, inviò una richiesta di aiuto al suo legato Tito Labieno e, dopo un lunghissimo scontro in cui le parti di assediante e assediato si susseguirono nei mesi (fondamentale fu la caduta di Alesia, caposaldo gallico, nella quale il genio militare di Cesare raggiunse, probabilmente, il suo apice nella campagna militare gallica), Vercingetorige si arrese. Al termine di uno degli ultimi scontri, Cesare, che si era ormai fatto la fama di uomo misurato e giusto, conscio che non l’avrebbe persa per un atto sanguinoso ma utile per imprimere alla memoria dei galli la potenza dell’Impero Romano, fece tagliare le mani ad alcune migliaia di galli, partecipi dell’ultimo scontro, così che tutti vedessero qual’era il prezzo da pagare per sfidare il dominio del popolo Romano. Cesare descrisse questo con obbiettività nel De bello gallico, mostrando tutta la consapevolezza di quest’atto brutale ma giustificato, in sede politica, dall’estrema chiarezza e praticità. Sei anni dopo, nel 46 a.C., Vercingetorìge sfilò nel carro trionfale a Roma assieme a Cesare come “simbolo della preda” di guerra.
Nel frattempo nel 54 a.C. Crasso giunse in Siria per prender parte alla delicata successione dinastica dei Parti. Accompagnato dal figlio Publio, si mise in marcia verso le steppe della Mesopotamia. Trovatosi in una battaglia campale con l’esercito dei Parti presso Carre nel 53 a.C., Crasso e il suo esercito furono annientati dalla cavalleria corazzata partica composta dai famigerati catafratti. Il triumvirato cessava di esistere.
Prima ancora di rientrare in patria, Cesare si rese conto che avrebbe trovato una grande ostilità da parte di Pompeo, preoccupato della potenza di Cesare, e del senato. A Roma, infatti, nel 52 a.C. gravava una grave anarchia politica, sulla quale Pompeo tentava di starne a capo. Lo scontro de visu tra Cesare e Pompeo era solo questione di tempo.
Nel 50 a.C. dall’idea del tribuno Caio Scribonio Curione, il senato depose le cariche di Cesare e Pompeo. Di fatto Cesare non accettò questa scelta e nel 49 a.C. varcò con le sue legioni il fiume Rubicone, entrando in Italia come un nemico di Roma e dando inizio alla guerra civile. Pompeo impreparato ad affrontare il conflitto si imbarcò a Brindisi per andare in Macedonia dove aveva diverse amicizie risalenti ai tempi della guerra mitridatica.
Cesare non diede però la possibilità a Pompeo di organizzare un esercito adeguato e sconfisse le sue legioni nella battaglia di Farsalo nel 48 a.C. in Tessaglia. Pompeo scappò in Egitto, cercando la protezione del re Tolomeo, il quale si rifiutò di accordargliela e, poco tempo dopo, Pompeo venne assassinato.
L’ultimo elemento del triumvirato si trattenne in Egitto per un anno dal 48 al 47 a.C. allo scopo di dirimere le lotte tra i due fratelli, eredi al trono, in modo tale da assicurarsi l’appoggio di quella regione ricchissima. Cleopatra VII fu confermata regina d’Egitto e quando Cesare partì, la regina diede alla luce un figlio nato dall’unione col romano che venne chiamato Tolemeo Cesare: questo evento costituiva un forte legame e appoggio verso l’uomo che stava per diventare il capo di Roma e del suo impero.
Dopo più di un anno passato in Egitto, Cesare ripartì per affrontare alcuni combattimenti contro i ribelli del Ponto (a Zela nel 47 a.C.) e contro gli ultimi seguaci di Pompeo che furono sconfitti a Tapso e a Munda, in Africa.
Al suo rientro a Roma, Cesare assunse il ruolo di imperator e si fece eleggere dittatore a vita, imponendo anche il culto della sua persona, come già aveva fatto Alessandro Magno presso i greci, un atto di potenza propria dei costumi orientali. Dopo Tapso Cesare era stato nominato praefectus moribus, controllore dei costumi e delle liste dei senatori, dei cavalieri e dei cittadini: il ruolo occupato dai censori.
Ciò che fa di Cesare la figura di grande magnificenza e di preminenza storica, che tutti gli attribuiscono, risiede nella strana peculiarità, per un uomo di tale potere, che nonostante detenesse il potere civile, militare e religioso, non abusò mai di ciò, ma mantenne un comportamento equo ed equilibrato nei confronti di Roma, in modo tale da ricreare un sistema di pace e uguaglianza. Egli fu l’immagine stessa del sovrano illuminato, la cui capacità di usare il potere non si assommò mai all’ambizione o alla sfrenatezza dei costumi che, invece, fu propria di gran parte degli uomini investiti di tale potenza. Le leggi da lui promulgate permisero ai Galli di avere la cittadinanza romana, favorirono i commerci e l’artigianato e impedirono ai tribuni della plebe di abusare del loro potere. Confermò le distribuzioni di grano regolando gli aventi diritto (da 320.000 distribuzioni infatti si passò a 150.000). Per decongestionare la città di Roma, fu realizzato un vasto piano di colonizzazione ed un vasto piano di attività di ristrutturazione edilizia: ci fu un ambiziosa serie di progetti pubblici che migliorarono l’aspetto di Roma e contribuirono a fornire lavoro e manodopera, assorbendo la disoccupazione e la precarietà dei ceti meno abbienti in straordinarie opere pubbliche, anticipando di millenni il piano di ripresa della crisi economica di Roosvelt, ispirato ai principi Keynesiani. Cesare, in tutta la sua grandezza, testimonia come la storia sia fatta da pochissimi personaggi storici geniali perché, semplicemente, la statistica impone la mediocrità come la componente umana dominante su tutto il resto, giacché essa nasce dall’incapacità del riconoscimento di un progetto a lungo termine che massimizzi il funzionamento virtuoso della società nel suo complesso, capace di prendersi cura di ogni singolo e non di massimizzaare l’utilità del capo. Cesare si servì del bastone e della forza, come della ragione e dell’intelletto perché egli era un uomo di ragione e di intelletto, motivo per il quale, purtroppo, le molte figure mediocri dei capi di stato si mostrano, per contrasto, come la normalità. Cesare, in fine, impose la riforma del calendario civile grazie anche all’astronomo alessandrino Sosigene nel 46 a.C. Si pensi che il calendario giuliano non fu solo la misura del tempo canonico per tutto l’impero Romano, cioè gran parte del mondo “civile”, ma viene ancora usato da alcune nazioni e istituzioni.
L’eccessiva concentrazione di poteri ed il moltiplicarsi di oneri senza precedenti, finirono per creare l’allarme non solo tra gli ex pompeiani superstiti, cavalieri e senatori, ma anche dagli stessi seguaci di Cesare. Nei primi mesi del 44 a.C. Cesare preparò una grande campagna militare contro i Parti in modo da ristabilire la pace in Asia, ma a Roma venne messa in giro la voce di un oracolo che diceva che il popolo dei Parti poteva essere sconfitto solo da un re. Ciò andò ad aumentare le dicerie di un futuro monarchico per Cesare e fu allora ordita una congiura guidata Marco Giunio Bruto, Caio Cassio Longino e Decimo Bruto che portò Cesare alla morte il 15 marzo del 44 a.C. nelle cosiddette “idi di marzo”.
Dopo l’omicidio di Cesare, i congiurati si resero immediatamente conto che il popolo non era dalla loro parte e neppure l’esercito, rimasto fedele ad Antonio, un luogotenente di Cesare: i cesaricidi, di fatto, non si erano preoccupati di eliminare anche i suoi principali collaboratori, oltre il già citato Marco Antonio, anche Marco Emilio Lepido. Dopo un primo sbandamento, questi due, tentarono di riassettarsi, mentre i cesaricidi erano totalmente impreparati e la mancanza di un programma aumentò notevolmente le difficoltà.
Il 18 marzo del 44 a.C. ci fu un’altro momento importante. A pochi giorni dall’uccisione di Cesare si pose il problema di chi fossero gli eredi: legittimi erano senz’altro Tolemeo Cesare, non interessato, però, al potere di Roma. Si scoprì alla lettura del testamento che Cesare lasciò tre quarti dei suoi beni a un suo pronipote (Giulia, sorella di Cesare, era sua nonna) Caio Ottavio, che, all’epoca, era un giovane diciannovenne. Ottaviano, che al momento dell’omicidio di Roma si trovava ad Apollonia in Illiria, fece ritorno a Roma ove reclamò ufficialmente l’eredità: onorò gli ingenti lasciti previsti dal testamento, ovvero un pagamento di 300 sesterzi ad ogni membro del proletariato e ai legionari, dimostrazione, ancora una volta, della grandezza di Cesare. Ottavio pose come suo principale obbiettivo quello di rendere onore alla figura del padre adottivo e, soprattutto, quello di vendicarne la morte. Così, rispettando i punti del testamento, ottenne il consenso del proletariato e anche del senato, in particolare da Cicerone.
Nel frattempo per poter controllare da più vicino l’Italia, Antonio, allo scadere del suo consolato, si fece affidare tramite una legge ad hoc, le province della Gallia Cisalpina e quella della Gallia Comata per la durata di cinque anni: queste due province erano tuttavia già state assegnate a Decimo Bruto che non accettò di lasciare il governo ad Antonio. Così nel 43 a.C. ci fu la guerra di Modena in cui Decimo fu assediato dalle truppe di Antonio. Decimo Bruto fu però assistito dai due consoli di Roma e Antonio fu battuto e cacciato, e si rifugiò nella Narbonese dove contava sull’appoggio delle truppe di Marco Emilio Lepido.
Ottavio, che poi si farà chiamare Ottaviano e da questo momento in poi chiameremo così, a soli vent’anni e senz’aver dunque percorso il cursus honorum previsto, chiese di diventare console. Avendogli il senato rifiutato questa richiesta, non esitò a marciare su Roma. Nell’agosto del 43 a.C. venne eletto console e assieme a Quinto Pedio (coerede del testamento di Cesare) non esitò a istituire un tribunale che perseguisse gli assassini di Cesare.
In Gallia Antonio si era congiunto con le truppe di Lepido, attirando le simpatie di altri governatori della Gallia e della Spagna. Decimo Bruto, isolato e abbandonato dalle forze consolari, fu ucciso mentre tentava la fuga assieme ad altri cesaricidi.
Nell’ottobre del 43 a.C. Antonio, Lepido e Ottaviano si incontrarono a Bologna e, malgrado i loro rapporti non ottimali, strinsero un accordo conosciuto con il nome di “secondo triumvirato” che aveva lo scopo di perseguire gli uccisori di Cesare e di dare allo Stato romano un nuovo ordinamento costituzionale: si attribuirono l’istituzione rei publicae constituendae, ovvero l’istituzione per la riorganizzazione dello Stato. L’arma che usarono per sconfiggere i nemici, come già aveva fatto Silla, furono le liste di proscrizione: in quel modo vennero uccise ed esiliate migliaia di persone tra cui Cicerone. A centinaia di cavalieri e senatori, che furono uccisi, furono confiscati i loro beni e così furono rimesse in sesto le finanze statali. Così risistemate le faccende economiche interne allo Stato e a Roma poterono rivolgere le armi verso Oriente contro Bruto e Cassio che si erano costituiti una solida base di potere e avevano raccolto un consistente esercito. Prima comunque provvidero alla divinizzazione di Cesare e all’istituzione di un suo culto ed Ottaviano divenne Divi filius, figlio di un dio.
Alla missione in Oriente contro Cassio e Bruto non partecipò Lepido, che rimase a Roma in qualità di console; partirono Ottaviano e Antonio. Lo scontro decisivo si ebbe a Filippi che costò la morte degli uccisori di Cesare e finì con il suicidio sia di Cassio che di Bruto.
Dopo l’uccisione della maggior parte dei “nemici di Stato” a Roma si respirava un’aria diversa: l’opposizione senatrice più conservatrice era quasi del tutto scomparsa e il loro posto fu preso da membri delle classi dirigenti dei municipi italici e da persone di fiducia dei triumviri. Si realizzò così un mutamento radicale nella composizione e nelle mentalità delle elite di governo e ciò fu la premessa verso il regime imperiale che, di lì a poco, si sarebbe delineato. La Repubblica Romana stava per capitolare, anche se, ormai, già dalle guerre fratricide di Mario e Silla, profondamente colpita nelle istituzioni e nella stabilità.
Benché avessero deciso di licenziare gran parte dell’esercito e di dividersi il governo delle province, la rivalità tra i triumviri, in particolare tra Antonio e Ottaviano era molto forte. Infatti, i due, attraverso campagne militari, tentavano sempre di emergere un gradino di più rispetto all’altro: dopo la guerra di Perugia del 41-40 a.C. in cui erano intervenuti militarmente l’uno contro l’altro, nell’ottobre del 40 a.C. venne stipulato l’accordo di Brindisi in base al quale veniva assegnato ad Antonio il comando dell’Oriente mentre ad Ottaviano l’Occidente. Lepido rimase fuori da questa serie di controversie e gli fu riservata l’amministrazione delle province d’Africa. Per aumentare il valore del patto fra Ottaviano e Antonio, il primo diede in sposa la sorella Ottavia ad Antonio.
La situazione che pareva essersi riequilibrata, venne nuovamente compromessa dalle rivendicazioni di Sesto Pompeo: deluso di non essere stato preso in considerazione a Brindisi, bloccò le forniture di grano che venivano date a Roma dalle legioni oltremare, creando scarsità di viveri e forte malcontento popolare. Così nel 39 a.C. in base all’accordo di Miseno vengono riservate a Sesto Pompeo l’amministrazione delle isole Mediterranee e del Peloponneso.
Nel 37 a.C. venne rinnovato il triumvirato per altri cinque anni e mentre Antonio fornì ad Ottaviano una flotta di 120 navi per occultare il potere di Sesto Pompeo, invece Ottaviano fornì ad Antonio 20.000 legionari per muovere guerra contro i Parti, che, con i germani, erano gli eterni nemici di Roma.
Nel frattempo nel 37 a.C. un grande amico di Ottaviano, il console Marco Vipsanio Agrippa, dopo aver fatto collegare con un grande opera di ingegneria il lago Averno e Lucrino al mare attraverso una serie di canali, costruì una grande flotta che andò a infliggere a Sesto Pompeo due clamorose sconfitte entrambe nel 36 a.C. prima a Milazzo e in seguito a Nauloco, entrambe due località siciliane: Sesto Pompeo fuggì in Oriente dove venne ucciso l’anno dopo. Lepido stesso uscì dal triumvirato in seguito all’abbandono da parte dei suoi soldati e decadde ritirandosi presso la sua villa nel Circeo.
Nel 35 a.C., però, ci fu una nuova rottura fra Antonio e Ottaviano, giacché due forze politiche preponderanti non equilibrate da una terza forza, tendono inevitabilmente alla reciproca dissoluzione giacché gli interessi non possono che essere divergenti e non controbilanciabili, come già avevano mostrato, a loro tempo, Mario e Silla e Cesare e Pomepo. Infatti, proprio pochi giorni prima della partenza di Antonio contro i Parti, Ottaviano restituì al triumviro solo 70 delle 120 navi che aveva prestato e gli inviò, inoltre, la sorella Ottavia con 2000 uomini. Antonio caduto nella provocazione, ingiunse ad Ottavia di tornare indietro e, così, Ottaviano rimase offeso dall’oltraggio della sorella scacciata a causa di Cleopatra, l’amante di Antonio. Antonio celebrò la conquista dell’Armenia con una fastosa cerimonia ad Alessandro, confermando a Cleopatra e Tolemeo il trono dell’Egitto, di Cipro e della Celesiria e assegnando altri territori ai figli da lui avuti con Cleopatra. Ottaviano non poteva sopportare l’offesa. Nacquero, così, i presupposti per lo scontro finale fra le due potenze nella celebre battaglia di Azio.
Nel 32 a.C. alla scadenza, il triumvirato si sciolse definitivamente. Ottaviano di fronte al popolo romano si presentò come il difensore della patria nei confronti di uomo, Antonio, che minacciava di lasciare le regioni romane in mano a dei figli avuti con una donna avida di potere e non romana, capace di corrompere un valoroso generale come Antonio. Lo scontro determinante si ebbe nel 31 a.C. nei pressi di Azio, nelle coste occidentali greche, e la dea Vittoria arrise ad Ottaviano. Deciso a penetrare anche in Egitto per eliminare Cleopatra e Antonio, i due si suicidarono. L’Egitto fu dichiarato provincia romana: il 31. a. C. fu la data dell’inizio dell’Impero.
Bibliografia essenziale
- Geraci G., Marcone A., Storia romana, Le Monnier, Firenze, 2004.
- Franḉois J. Scheid J., Roma e il suo Impero, Editori Laterza, Roma-Bari, 1992.
- Clemente G., Gabba E., Storia di Roma. La repubblica imperiale, Mondadori, Milano, 2010.
- Mazzarino S., L’impero romano, Mondadori, Milano, 2010.
Pubblicazioni in riviste:
- Segnalo recenti articoli di approfondimento su Storica National Geographic e su Civiltà Dossier.
Pubblicazioni e siti online:
- http://www.rassegna.unibo.it/
- http://www.unc.edu/depts/cl_atlas/
- http://www.thelatinlibrary.com/
- http://www.perseus.tufts.edu/hopper/
- http://www.archeorm.arti.beniculturali.it/
- http://www.roman-emperors.org/
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