Press "Enter" to skip to content

Storia Romana (I) – Dalla Fondazione alle Guerre Sociali

Iscriviti alla Newsletter!


Roma – Le origini

Gli studiosi più accreditati sullo studio delle origini dell’Urbe sono Gaetano De Sanctis promulgatore della critica temperata e Barthold Georg Niebuhr. La critica temperata è il metodo di studio della storia romana in cui si tendono ad analizzare più le fonti certe, come gli scavi archeologici, piuttosto che magari le fonti scritte, spesso errate o imprecise.

Le fonti storiografiche da cui attingere per conoscere la storia delle origini sono tratte dagli scritti di Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso e Virgilio che narra le origini di Roma secondo la leggenda più nota che inserisce la fondazione di Alba Longa e la dinastia dei re albani tra l’arrivo di Enea nel Lazio e il regno di Romolo. Secondo questa leggenda Romolo il fondatore e il primo dei sette re di Roma era figlio di Marte e Rea Silvia che a sua volta era figlia di Numitore l’ultimo re di Alba Longa.

Roma deve il suo nome probabilmente dalla derivazione della parola ruma che significa mammella, traslato collina: Roma si evolse infatti su sette colli dalla quale il villaggio poteva ben espandersi verso la pianura. Inoltre erano ben difesi oltre da attacchi nemici anche dalle continue esondazioni del fiume Tevere.

La prima fase della città di Roma è nota come la fase monarchica con i cosiddetti sette re e va dal 753 (21 aprile) al 509 a.C. Il primo re fu Romolo famoso oltre che per la fondazione per la creazione di un primo senato; Numa Pompilio, secondo re, creò i primi istituti religiosi; Tullio Ostilio che allargò i confini di Roma con la distruzione della città di Alba Longa; Anco Marcio che fondò la cittadina costiera di Ostia,  cioè del prolungamento marino di Roma che doveva sopperire alla mancanza di un diretto accesso al mare; Tarquinio Prisco è importante per la costruzione di prime opere pubbliche, per i frequenti contatti con la popolazione etrusca sita aldilà del Tevere, a nord della città, per le conquiste sulla costa e per la costruzione di un ponte sull’isola Tiberina; a Servio Tullio invece si fa risalire la costruzione della prima cinta muraria (dette serviane in suo onore) e per l’istituzione dei comizi centuriati; infine l’ultime re di Roma fu Tarquinio il Superbo, che si comportò come un tiranno, come narrano le leggende, ma portò la città di Roma ad avere un estensione di trecento ettari.

Il pomerio era il solco di confine originario della città tracciato secondo il rito etrusco da un toro e una vacca con l’aratro. Esso indicava il limite del confine della città di Roma. Entro il pomerio era inoltre vietato seppellire i morti.

Lo stato romano arcaico

Alla base dell’organizzazione sociale dei Latini ci fu una struttura in famiglie, alla cui testa stava un pater, una figura che deteneva il potere totale nel nucleo familiare.

La gens era un insieme di famiglie che avevano un antenato comune, ed erano un gruppo organizzato politicamente e religiosamente.

La popolazione dello Stato romano arcaico era divisa in gruppi religiosi e militari detti curie, che comprendevano tutti i cittadini ad eccezione degli schiavi. Erano inoltre il fondamento dell’assemblea politica cittadina più importante, ovvero i comizi curiati, a cui spettava fra gli altri il ruolo di votare la lex de imperio che conferiva il potere al magistrato eletto.

Della realtà storica della fase monarchica, la cui ricostruzione resta problematica per via delle scarse fonti attendibili, sappiamo dell’esistenza di un interrex, un magistrato che subentrava nel caso non ci fosse disponibile un successore del re o dei consoli successivamente; e un rex sacrorum un sacerdote che aveva il compito di dare realizzazione ai riti eseguiti dal re.

Com’è noto la storia romana si basa su un eterno conflitto fra patrizi, i grandi proprietari terrieri detentori dei diritti politici, e i plebei, cittadini privi della possibilità di partecipare alla vita politica attiva, e tale distinzione tra le due grandi classi sociali rimane inalterata per gran parte della storia romana. Tuttavia, il conflitto tra plebe e patriziato (che poi diventerà particolarmente rilevante nella configurazione plebe/senato) condurrà ad una lenta evoluzione che porterà la plebe ad ottenere diritti politici che saranno imprescindibili nei secoli successivi. D’altra parte, i plebei non sono una classe sociale totalmente inerte ma costituisce un importante impulso motivazionale alla classe senatoria giacché i loro continui fermenti pongono dei limiti indiretti alle decisioni del senato.

Il comitium era il luogo del foro nel quale il popolo si riuniva per deliberare e discutere. Di fronte al comitium era posta la curia Hostilia, la prima sede preposta per le attività del senato.

Il primo esercito organizzato da Servio Tullio era chiamato classis ed era formato da tutti i cittadini che erano capaci di procurarsi e comprarsi delle armi pesanti, come ad esempio una corazza e delle armi di ferro ben temprato. L’infra classis era, invece, l’esercito equipaggiato di armi leggere.

La nascita della Repubblica

La tradizione narra che l’ultimo re, Tarquinio il Superbo, venne deposto nel 509 a.C. da una rivolta popolare guidata da Lucio Tarquinio Collatino, la cui moglie era stata oltraggiata da Sesto, figlio del re. Ma, in realtà, sembra più credibile una versione meno individualistica dell’avvenimento: i cittadini, stanchi dei soprusi dei Tarquini, misero al bando il re e i figli che si rifugiarono a Cere. Dopo la cacciata dei Tarquini, gli aristocratici vollero mettersi al riparo da qualunque altro tipo di autorità che detenesse il potere in maniera totale e fondarono la Repubblica, il cui nome indica appunto un tipo di potere in cui il popolo è sovrano.

La nascita della Repubblica, che fu un avvenimento traumatico e rivoluzionario rispetto alle precedenti forme sociali e istituzionali, non va concepito come un evento storico estemporaneo, né la solidità delle nuove istituzioni repubblicane furono un fatto immediato ma ebbero bisogno di qualche decennio perché la nuova politica si potesse stabilizzare.

I primi due consoli furono Bruto e Collatino, eletti nel 509 a.C. rinnovati annualmente attraverso libere elezioni dell’aristocrazia naturalmente.

I consoli o praetores svolgevano diversi compiti politici: la detenzione del comando dell’esercito; la conservazione e protezione dell’ordine della città; il mantenimento della giustizia civile e penale; il potere di convocare le assemblee pubbliche e il senato; la convocazione di un censimento annuale e la scelta dei senatori. Era una carica di durata annuale ed erano eletti da comizi centuriati.

Il potere politico (esecutivo), dunque, era nelle mani dei due consoli aveva diverse magistrature, ciascuna molto importante.

In tempi di crisi militari o politiche poteva essere nominato un dittatore che deteneva il potere assoluto per sei mesi ed era nominato o da un console o da un interrex che era colui che in un periodo di vuoto politico si assumeva la responsabilità di dare la nomina a qualcuno affinché prendesse le redini della repubblica.

Il ponteficex maximus o  rex sacrorum era colui che deteneva il potere religioso. Ancora oggi è un titolo che appartiene al papa. Le sue funzioni erano quelle di presiedere alle cerimonie, amministrare il calendario religioso e scegliere le vergini vestali. Le vestali erano le sacerdotesse della dea Vesta, la dea del focolare domestico, che dovevano sempre tenere acceso il fuoco sacro: facevano solenne voto di castità e di non lasciare mai senza fuoco il sacro focolare, che era il simbolo della potenza romana. Per dieci anni servivano come novizie, per altri dieci come ministre del culto e per gli ultimi dieci come maestre delle novizie.

I censori, due di numero, erano eletti ogni cinque anni dai comizi centuriati: il loro ruolo era quello di redare il censimento, controllando attentamente le proprietà dei cittadini, compilare le liste dei senatori e sorvegliare le pubbliche finanze, gestendo tasse e controllando la qualità dei lavori pubblici. In altre parole, essi svolgevano le istituzioni moderne di controllori dei conti, di guardie di finanza e di censori della popolazione.

I pretori potevano ad arrivare ad essere in sei (uno urbano, uno peregrino e quattro provinciali) detenevano la loro carica per un anno e fra i loro ruoli c’era quello di presiedere il comando dell’esercito, delle province (dopo la prima guerra punica, infatti le conquiste nell’Italia non entrarono mai in una amministrazione provinciale) e controllare la giurisdizione fra cittadini di città e cittadini di campagna.

Gli edili curuli erano eletti dai comizi tributi, erano in due e la loro carica durava un anno: il loro ruolo era quello di organizzare i Ludi maximi, ovvero i giochi che ogni anno si tenevano nella città di Roma.

Gli edili plebei erano eletti dai concilia plebis tributa ogni anno ed erano gli archivisti e tesorieri della plebe, curavano i mercati, gli approvvigionamenti, le strade, i templi e gli edifici pubblici.

I questori arrivarono ad essere in numero di dieci ed erano eletti ogni anno, come gran parte delle cariche della Repubblica, ché volevano evitare ad ogni costo l’accentramento di potere troppo prolungato nelle mani di una sola persona, sia in termini di istituzioni (divisione del potere e dei compiti) che in termini temporali. I questori avevano il ruolo di amministrare le finanze e controllare il lavoro dei censori.

Infine un’altra carica importantissima, se non fondamentale nella storia della Repubblica Romana fu certamente quella del tribunato della plebe, composto da due a dieci membri, eletti ogni anno dal concilia plebis tributa, di cui si parlerà sotto. Il tribunato della plebe aveva il diritto di Ius auxilii, ovvero il diritto di soccorrere un plebeo contro il sopruso di un patrizio, e lo Ius intercessionis, noto anche come diritto di veto.

Le assemblee pubbliche in epoca repubblicana furono un altro tassello fondamentale. I comizi curiati erano composti da tutta la cittadinanza, rappresentata da trenta littori (uno per curia). Alla presidenza di questa assemblea c’era un console o un pretore e le competenze assembleari erano quelle di conferire con la lex curiata de imperio il ruolo ai vari magistrati, già analizzati precedentemente.

I comizi centuriati erano composti da tutta la cittadinanza suddivisa in cinque classi per censo. Sostituendo il criterio di suddivisione per stirpe a quello per censo permisero a tutti di presiedere a quest’assemblea. Presieduta anche questa da un console o da un pretore, che badava all’assemblea dei consoli, dei pretori e dei censori. L’attività legislativa era limitata alle materie di diritto internazionale. I comizi tributi composti dalle trentacinque tribù erano composti da tutta la cittadinanza, presieduti da un console o da un pretore. Le tribù erano nate nella fase monarchica di Roma e suddividevano la popolazione per estrazione sociale e per gens. Essi eleggevano i questori e gli edili curuli e, inoltre, avevano commissionata un attività legislativa consultiva.

Infine il concilia plebis tributa era composta dalla plebe e alla presidenza c’erano i tribuni della plebe o gli edili plebei: il loro ruolo era l’elezione dei propri rappresentanti e un attività legislativa che però fino al 237 a.C non ebbe particolare importanza. L’attività legislativa di cui quasi tutte le assemblee erano insignite, era più un “contentino” che un vero e proprio obbligo politico: i componenti delle assemblee avevano il diritto di proporre leggi, ma non avevano potere esecutivo.

Il conflitto tra patrizi e plebei

Dal 510 al 287 a.C. oltre alle numerose guerre, che affronteremo nel prossimo capitolo, ci furono parecchi contrasti molto aspri fra patrizi e plebei.

I problemi della plebe di fronte al ricco ceto degli aristocratici patrizi erano evidenti, ma quello che fece scoppiare la polveriera furono le diverse carestie e crisi economiche, a seguito di vari problemi contingenti come la sconfitta, nel 474 a.C. a Cuma in Campania che dagli etruschi passò in mano a Ierone di Siracusa, causando gravi disagi a livello commerciale per Roma.

Le richieste della plebe non erano irraggiungibili: concernevano una mitigazione delle norme per la restituzione dei debiti, una più equa distribuzione dell’ager publicus, vale a dire i terreni di proprietà dello stato che venivano “prestati” al fine di essere coltivati.

Dal punto di vista politico i plebei rivendicavano una parificazione dei diritti politici tra i due ordini. Inoltre chiedevamo la stesura di una serie di leggi che potessero proteggere i singoli cittadini non abbienti dal sopruso dei magistrati, spesso troppo autoritari, perché cavillavano sulle leggi a favore della plebe e a favore dei magistrati stessi o dei patrizi.

Tutte queste rivendicazioni sono comprensibili a partire dal fatto che la plebe assume una maggiora coscienza di sé all’interno della città di Roma e dell’ancora piccolo Stato Romano.

Nel 494 a.C. la plebe, esasperata dalla crisi, ricorse ad una potente arma che si rivelerà essere a tratti vincente ed efficace: indisse una sorta di sciopero generale, con punto di raduna sull’Aventino, che lasciò la città priva della forza lavoro e, soprattutto, indifesa dalle aggressioni esterne. Era, infatti, la plebe quella che garantiva la sicurezza e anche, in un certo senso, il materiale di sostentamento della città. Importantissimo il discorso di Menenio Agrippa:

“Una volta le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso [ad attendere cibo], ruppero con lui gli accordi e cospirarono tra loro decidendo che le mani non portassero cibo alla bocca, né che, porto, la bocca lo accettasse, né che i denti lo confezionassero a dovere. Ma mentre intendevano domare lo stomaco, a indebolirsi furono anche loro stesse, e il corpo intero giunse a deperimento estremo. Di qui apparve che l’ufficio dello stomaco non è quello di un pigro, ma che, una volta accolti, distribuisce i cibi per tutte le membra, e quindi tornarono in amicizia con lui. Così senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute.”[1]

La plebe nel 471 a.C. si dotò per la prima volta dei primi organismi istituzionali effettivi: il primo fra tutti fu la concilia plebis tributa. Vennero scelti dei rappresentanti esecutori della volontà di questa assemblea: i tribuni della plebe. Essi avevano lo Ius auxilii, ovvero il diritto di andare in soccorso di un cittadino contro l’azione di un magistrato, da cui molto probabilmente, in seguito, nascerà il diritto di veto sopra ogni provvedimento, chiamato Ius intercessionis.

La plebe riuscì a far valere a livello “statale” questi nuovi organi da loro creati e cominciarono a lavorare nella stesura di un codice di leggi scritte.

Nel 451 a.C. venne nominata una commissione composta di dieci uomini, da qui il nome decemvirato, tutti patrizi che ebbero il ruolo di stilare delle leggi e un codice giuridico. In questi anni il potere passò totalmente nelle mani dei dieci uomini in modo che non avessero veti e pareri contrari nel frattempo: stilarono così le leggi delle XII tavole dove è rintracciabile una influenza del codice giuridico greco, giunto a Roma o dall’Italia meridionale e dalla Sicilia oppure da improbabili ambascerie citate da fonte non attendibili.

Alla plebee, a partire dal 444 a.C., fu riconosciuta (previa autorizzazione del senato) la possibilità di affiancare al consolato due tribuni della plebe che avevano pari poteri agli altri consoli con la differenza che non potevano trarre gli auspicia. I due consoli, in possesso del diritto agli auspicia ed esclusivamente patrizi, potevano essere dunque affiancati dai tribuni consolari.

Tuttavia anche se era stato promulgato un codice di leggi scritte, i problemi politici ed economici rimanevano. Per sciogliere questo nodo, era necessario una nuova riforma che modificasse l’ordinamento repubblicano.

Un iniziativa riformista si ebbe nel 376 a.C. quando i due tribuni consolari Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, ricchi esponenti di famiglie plebee, decisero di presentare un ambizioso progetto e proposte di rilievo per il problema dei debiti, la distribuzione delle terre di proprietà statale e l’accesso dei plebei al consolato. Dopo qualche anno in cui i consoli patrizi riuscirono ad ostacolare i due tribuni consolari attraverso lo ius intercessionis di qualche altro tribuno, nel 367 a.C. complice anche l’aiuto del dittatore Marco Furio Camillo, chiamato dalla guerra contro Veio per risolvere anni di anarchia politica, le proposte di Licinio e Sestio diventarono legge, con il nome di Leges Liciniae Sextiae. Queste prevedevano l’abolizione degli interessi sui debiti già contratti, la massima estensione di ager publicus che poteva andare in mano a un privato era di cinquecento iugeri (circa centoventicinque ettari); sancivano infine l’abolizione del tribunato militare con funzione consolare e la completa reintegrazione delle figure dei due consoli a capo dello stato, dei quali uno doveva essere necessariamente plebeo. Dunque nel momento dell’approvazione di queste leggi ci furono una sempre più alta tendenza alla parità di diritti fra patrizi e plebei.

Altre leggi furono stilate ma l’ultima di importantissimo valore, ché diede fine al potere assoluto dei patrizi, fu la lex Hortensia che stabiliva la validità, per tutta la cittadinanza, dei plebisciti dell’assemblea della plebe. Correva l’anno 287 a.C.

La Lex Canuleia prevedeva la possibilità dei matrimoni misti fra patrizi e plebei.

A partire da questi anni il patriziato, inteso come classe sociale, si sostituì di fronte alla formazione di una nuova aristocrazia formata dalle famiglie plebee più ricche e influenti e dalle stirpi patrizie che meglio avevano saputo adattarsi alle nuove riforme. A questo nuovo ceto si dà il nome di nobilitas e gli appartenenti erano dette homines novi, come Caio Mario, uomo centrale nella storia Romana.

La conquista dell’Italia: guerre contro i popoli italici

Nel primo periodo di vita della Repubblica romana, oltre ai numerosi scontri fra patrizi e plebei, vi furono numerosi conflitti con le popolazioni confinanti: dapprima con i Latini, in seguito con i Volsci, Equi e Sabini.

Nel 496 a.C. ci fu la prima “storica” guerra contro la Lega Latina presso il lago Regillo a metà strada fra Tivoli e Roma. Lo scontro si conclusa a favore di Roma, sebbene con una vittoria incerta.

Nel 493 a.C. venne stipulato dal console Spurio Cassio il foedus Cassianum nel quale le due parti (latini e romani) si impegnavano a non attaccarsi fra di loro e ad aiutarsi in caso di necessità. Agli alleati, inoltre, Roma riconosceva lo ius connubii, lo ius commercii e lo ius migrationis: tutti e tre Ius, diritti, permettevano alla popolazione romana di potersi unire nel sacro vincolo del matrimonio, di poter commerciare con la popolazione italica e viceversa, inoltre i cittadini italici potevano migrare legalmente nella città di Roma.

Nel 486 a.C. Roma stipulò un accordo simile con gli Ernici, una popolazione che confinava con Equi e Volsci. Queste due alleanze furono fondamentali per fronteggiare la minaccia che arrivava dalle popolazioni non alleate. A più riprese, dal 490 al 430 a.C. i Romani erano ostacolati nell’espansione a nord, dalla ricca e fiorente città etrusca Veio. Inoltre, spesso, subivano delle sortite da parte delle popolazioni rivali e l’esito fu quasi sempre favorevole verso Roma: si trattava per lo più di scorribande di piccoli gruppi semi nomadi che, perlopiù in tempi di carestia, cercavano risorse nelle razzie dei piccoli villaggi della Lega Latina.

Il contrasto tra Roma e Veio durò per tutto il V secolo a. C. e si concluse solo all’iniziò del secolo seguente: con questa cittadina etrusca distante solo quindici chilometri dall’Urbe, i romani si contendevano il dominio del Tevere. Lo scontro si divise in tre parti, in cui gli eserciti parvero, per lo più, terminare ogni battaglia in una sorta di parità. L’ultimo conflitto si ebbe dal 405 al 396 a.C.: il teatro degli scontri fu presso le mura di Veio che vennero assediate per circa dieci anni dai Romani. Il generale-eroe, come narra Tito Livio, era Marco Furio Camillo che dopo aver assediato la città etrusca, la conquistò e, dopo questa vittoria, Roma stabilizzò i suoi confini presso l’attuale Lazio.

Il successo su Veio venne messo da parte all’arrivo da nord di una popolazione celtica: i Galli, che si erano insediati nel nord Italia, fondando la loro capitale nell’attuale Milano. I Galli assediarono la città di Chiusi che aveva ricevuto un inconsistente supporto dell’esercito romano arruolato in fretta: i Galli, così, saccheggiarono prima Chiusi, e successivamente Roma, rimasta priva di difese dopo la battaglia sul fiume Allia. Dopodiché ripartirono, probabilmente, alla ricerca di nuovi tesori.

Roma si riprese molto velocemente dall’invasione dei Galli e da quel momento in poi la sua potenza iniziò un processo di accrescimento che poche volte verrà fermato da qualche impavida popolazione barbara.

L’espansione territoriale di Roma ebbe inizio con la sottomissione dei popoli dell’Italia centrale: Bruzi, Lucani e, in particolare, i Sanniti, con i quali ebbe da fronteggiarsi per tre volte prima di riuscire a sottometterli. I Sanniti videro anno dopo anno il loro territorio disgregarsi con l’insediamento via via di colonie romane come ad esempio Venosa. La pace venne siglata nel 290 a.C.

Negli anni successivi, Roma sottomise altre popolazioni più piccole come ad esempio quella dei Petruzzi. Importantissima fu la fondazione della colonia di Rimini nell’ager che un tempo apparteneva ai Galli senoni: questa colonia apriva le porte ai romani verso la pianura padana.

Nel III secolo a.C. Roma venne a contatto con le popolazioni della Magna Grecia che si trovavano in un periodo di forte decadenza a causa delle continue scorribande delle popolazioni italiche e dunque chiedevano protezione alla città di Roma. L’unica città che, invece, rimaneva florida e prosperosa e che temeva la forza dei romani, era Taranto. Un primo accordo fra queste due città venne stipulato nel IV secolo: Roma prometteva di non superare con la propria flotta il capo Licinio, lasciando il traffico nel mare adriatico in mano ai tarantini. Nel 282 a.C., tuttavia, una città greca che sorgeva sulle rive calabresi del golfo, Turi, minacciata dai lucani, chiese aiuto a Roma che inviò soldati nel villaggio e navi nel golfo. Taranto si sentì oltraggiata nell’accordo contratto qualche decennio prima e distrusse la flotta romana e annientò successivamente il contingente di Turi; l’aristocrazia tarantina chiamò Pirro, re dell’Epiro, un fido alleato, che, difensore dei “greci d’occidente”, aveva le sue mire espansionistiche verso la Trinacria, l’attuale Sicilia.

Nel 280 a.C. Pirro sbarca a Taranto a capo di 22.000 uomini, 3.000 cavalieri e 20 elefanti. I romani furono sconfitti nei primi due scontri ad Eraclea e ad Ascoli Satriano. Nel frattempo Pirro, sistemati “i conti” con Roma, si diresse verso la Sicilia per difendere le città greche dai cartaginesi, all’epoca dominatori nell’isola e alleati di Roma.

Al suo rientro in Italia, Pirro venne affrontato e costretto alla resa dai romani a Maleventum nel 275 a.C. e, preso atto della forza di Roma, il re dell’Epiro rinunciò alle conquiste e rientrò nel proprio regno lasciando un contingente a Taranto che, comunque, presto venne iscritta fra i socii di Roma.

Per riuscire a dominare un territorio, ormai, molto vasto che andava dall’Arno fino alla Calabria, Roma si impegnò nell’impedire ogni tentativo d’accordo fra le popolazioni sottomesse. Le città sottomesse furono divise in prefetture, municipi, città federate e colonie.

La conquista del Mediterraneo: le guerre puniche

 Prima guerra punica (264 – 241 a.C.)

La vittoria su Pirro e la resa di Taranto impose l’ingresso di Roma tra le potenze del Mediterraneo. Infatti, nel 264 a.C Roma controllava ormai tutta l’Italia peninsulare, fino allo stretto di Messina. In quest’area di fondamentale importanza economica e strategica gli interessi di Roma impattarono per la prima volta contro quelli di Cartagine.

La causa del primo vero conflitto fu offerta dai Mamertini, mercenari di origine italica, che congedati dal re di Siracusa, Agatocle, occuparono con la forza Messina vivendo di saccheggi e razzie.

I siracusani non gradirono quest’azione mamertina, e, così, guidati dal generale Ierone, inflissero una grave sconfitta ai mamertini, avanzando verso Messina. I Mamertini chiesero un aiuto ad una flotta cartaginese di passaggio nelle acque di Messina che non rifiutò l’aiuto ai mercenari: i Cartaginesi non vedevano di buon occhio, infatti, la conquista di Messina da parte dei siracusani. Così i cartaginesi scacciati i siracusani si impadronirono della città sullo stretto.

I Mamertini stanchi della tutela dei cartaginesi, nella quale intravedevano più una fortezza per la costruzione di un avamposto punico, chiesero aiuto a Roma la quale non senza stenti accettò di dargli un aiuto. Era chiaro che così facendo Roma si sarebbe procurata le inimicizie di Cartagine e Siracusa, imponendo una condizione di pericolosa alleanza tra due delle tre principali potenze del mediterraneo centrale.

Cartagine era una florida città, fondata dai Fenici di Tiro nell’odierna Tunisia ed era al centro di un vasto impero che si estendeva dalle coste dell’Africa settentrionale fino a quelle della Spagna meridionale, dalla Sardegna fino alla Sicilia. Grazie ai suoi mezzi finanziari, aveva a disposizione grossi eserciti mercenari e flotte potenti.

I romani riuscirono a respingere da Messina sia i cartaginesi che i siracusani e stilata un’alleanza con il re Ierone, si spinsero verso la grande base cartaginese di Agrigento che divenne un importante baluardo romano.

Nel 260 a.C. ci fu un’importante battaglia navale presso Milazzo: non dimentichiamoci, infatti, che Cartagine era ancora padrona dei mari e Roma voleva diminuirle la forza, se non del tutto abbattergliela. Così il console Caio Duilio, grazie anche all’uso di potenti navi (quinqueremi costruite grazie all’ausilio dei socii navales) dotate dei cosiddetti “corvi”, degli speroni, sconfisse la flotta cartaginese.

A questo punto Roma pensò di affondare definitivamente il potere cartaginese attaccandolo proprio nelle terre africane. Nel 256 a.C. sbarcò con quattro legioni il console Marco Attilio Regolo, che, se in un primo tempo riuscì a mettere in difficoltà l’esercito cartaginese sul proprio suolo, successivamente nel 255 a.C. venne duramente battuto da un esercito cartaginese, comandato dal mercenario spartano Santippo. Anche la flotta (composta da oltre 330 navi di cui 235 da guerra) fu distrutta negli anni successivi in seguito ai naufragi nelle battaglie di Capo Pachino e Trapani.

Roma era in una grave crisi finanziaria e la ricostruzione di una flotta e di un esercito appariva molto complicata, ma aumentate le tasse e chiesti maggiori sforzi e aiuti ai socii navales, Roma riuscì a ricompattare un esercito formato da duecento navi che si batterono in uno scontro finale e decisivo presso le Isole Egadi nel 241 a.C.

Roma ne uscì vittoriosa seppur con gravissime perdite. In compenso, la Sicilia diventerà dominio dell’urbe, territorio ricco e potente, che sarà fondamentale negli anni a venire: infatti, l’Isola era un “granaio”, vale a dire una che lì si concentrava una grande produzione di grano, e, divenuta una provincia, fu costretta a pagare un tributo annuale che andava a rimpinguare le tasse dello Stato Romano.

Pochi anni dopo nel 237 a.C. dopo la Sicilia, si aggiunsero nuove province: la Sardegna, la Corsica e la Gallia Cisalpina.

Le province erano affidate ai pretori, di cui analizzeremo più avanti le mansioni.

Tra le due guerre (241 – 218 a.C.)

Prima di parlare della seconda guerra punica, dobbiamo analizzare il periodo di intermezzo che passa da una guerra all’altra. Il periodo che va dalla fine di una guerra all’altra, infatti, vide un consolidamento delle posizione delle due potenze, Roma e Cartagine: Cartgine durante i primi anni dopo la sconfitta della prima guerra Punica, trascorse diversi momenti drammatici. Spossata dal pesante tracollo finanziario, dovuto anche al pagamento degli indennizzi di guerra a Roma, non poteva più permettersi di pagare il suo esercito di mercenari che, più volte si ribellò ai generali cartaginesi. Solo Amilcare Barca riuscì a fermare queste ribellioni.

Pochi anni dopo l’impresa sui cartaginesi, Roma intervenne nel Mare Adriatico impegnandosi nel contrastare i pirati illirici che minacciavano il commercio nei porti italici. Dopo diverse guerre (chiamate guerre illiriche) e diversi scontri, Roma si assicurò il controllo del Mare Adriatico, fermandosi, però, al confine con la Macedonia.

Maggiori sforzi richiese la conquista dell’Italia Settentrionale e dell’ager gallicus appartenente ai Galli Senoni. Questi ottennero qualche successo, ma Roma aveva capito che il controllo della Pianura Padana era fondamentale per poter dominare le popolazioni che venivano dal nord. La breve ma violenta campagna militare terminò quando Roma conquistò Mediolanum agli Insubri e fondò due importanti città: Piacenza e Cremona e, inoltre, costruì diverse strade molto importanti, come la via Emilia, che partiva da Rimini per terminare a Piacenza; la via Flaminia che da Rimini portava a Roma; e la via Postumia che da Genova portava ad Aquileia.

Nel frattempo i generali cartaginesi, Amilcare Barca e Asdrubale, conquistarono la parte della Spagna che va dalle colonne d’Ercole (stretto di Gibilterra) fino al fiume Ebro. I Romani non si opposero di fronte alla conquista della penisola iberica, pensando che avrebbero distolto i Punici dalla riconquista della Sicilia. Tuttavia, Roma stipulò un accordo con Asdrubale il quale si impegnava a non superare con le proprie truppe il fiume Ebro. La situazione degenerò quando Annibale, figlio di Amilcare, assediò Sagunto una città alleata di Roma. Roma valutò quest’attacco come una violazione dei patti stipulati: la seconda guerra punica scoppiò qualche anno dopo.

La seconda guerra punica (218 – 201 a.C.)

La sconfitta del 241 a.C. e, soprattutto, l’umiliazione di vedersi sfilare la Sardegna avevano creato a Cartagine un forte risentimento e sentimento di vendetta nei confronti di Roma. Questo risentimento trovava espressione nella famiglia dei Barca.

Annibale, succeduto giovanissimo al padre, trovandosi privo di mezzi navali concepì l’audace piano di penetrare in Italia attraverso le Alpi con un piccolo ma agguerrito esercito. Un piano bellico ingegnoso e progettato alla distruzione di Roma e del suo prestigio. L’intervento, tuttavia, si fondava su un pericoloso gioco d’azzardo: far insorgere i popoli italici oppressi. La strategia di Annibale era straordinariamente moderna, la cui audacia ricorda quella di altri grandi generali che fondarono le proprie conquiste sulle possibilità offerte tra i dissensi tra le popolazioni dominate e il dominatore.

Lasciata la Spagna al fratello Asdrubale, Annibale partì con un esercito di Numidi (attuali Algeria-Tunisia centrale), Iberi (ispanici) e Libici con un contingente di quaranta elefanti. Valicati i Pirenei e la valle del Rodano, arrivò il momento di valicare le Alpi, correndo gravi pericoli e giocandosi la prima parte della scommessa: valicare le Alpi con degli elefanti e un esercito di uomini africani era una mossa audace ma anche aleatoria, celebre è la descrizione di Tito Livio del passaggio di Annibale. Ma, alla fine, il rischio corso ripagò i punici: all’improvviso i romani si ritrovarono nella Gallia Cisalpina questo enorme esercito di Annibale e il primo confronto si ebbe sul fiume Ticino, dove l’esercito di Publio Scipione perse clamorosamente. Lo stesso anno presso il lago Trasimeno l’esercito di Caio Flaminio venne annientato. A Roma cominciava a serpeggiare una certa aria di sconforto e l’idea che l’esercito di Annibale fosse invincibile, soprattutto nelle battaglie campali, nelle quali la potenza militare Romana aveva sempre giocato le sue carte vincenti (si pensi alla prima guerra Punica, vinta su scontri epocali): era questo il pensiero dell’ex console, nominato dittatore, Quinto Fabio Massimo in seguito detto Cunctator, il temporeggiatore, proprio perché volle aspettare le mosse di Annibale, prima di giocarsi qualunque tipo di controgioco. Massimo decise che era necessario bloccare i rifornimenti di Annibale dalla Spagna. E, così, nel 211 a.C. Gneo Cornelio Scipione bloccò con il suo esercito gli approvvigionamenti spagnoli di Annibale.

Finito il periodo di dittatura di Fabio Massimo, il comando fu affidato ai consoli Lucio Paolo Emilio e a Terenzio Varrone che, non trovando subito un accordo su come affrontare i cartaginesi, decisero di attaccare l’esercito di Annibale presso Canne, dove gli eserciti dei due consoli congiunti persero miseramente, accerchiati dall’esercito cartaginese, inferiore di numero ma evidentemente meglio organizzato. La battaglia di Canne entrò nella storia militare: la tattica dell’accerchiamento, da sempre conosciuta, divenne canonizzata dall’abilità strategica di Annibale.

La guerra pareva ormai perduta per Roma: in effetti, molte comunità italiche si erano distaccate dalla capitale, il figlio di Ierone di Siracusa, Ieronimo, si era alleato con Annibale e così pure Filippo V di Macedonia con cui Roma aveva rapporti ostili. La strategia di alto livello di Annibale, coadiuvata da una capacità tattica notevole, iniziava a dare i suoi frutti.

Tuttavia la politica attendista a livello globale e fatta di agguati a livello militare, fece sì che Roma poté ricuperare, seppure lentamente, tutti gli “staterelli” del centro Italia. Roma, dunque, non giaceva inoperosa di fronte all’apparente sconfitta e Annibale, forse timoroso di attaccare la città che non perdeva una guerra da tempi immemorabili, Stato che aveva battuto più volte i punici, preferì attendere piuttosto che varcare le soglie del dubbio e incedere trionfale verso la capitale: in questi casi, infatti, non bisogna perdere tempo giacché, come osservò un generale dell’ottocento e non senza le sue buone ragioni, un esercito in campagna militare ha un “attrito” due volte superiore sul morale e sulla stanchezza fisica, rispetto ai soldati avversari ché giocano in casa e, dunque, col favore della conoscenza del territorio e delle genti, ché lottano per salvar la vita e la casa e non per la gloria. Nel 211 a.C. Capua venne riconquistata e così pure Taranto e Siracusa, entrambe cadute in mano cartaginesi. Con cinquanta quinquiremi nel Mar Adriatico Roma si assicurò una buona protezione contro la flotta di Filippo V.

La svolta cruciale nella guerra si ebbe nella lontana Spagna, quando Publio Cornelio Scipione, unitosi al germano Cneo, impedì ad Annibale di ricevere aiuti da questa regione: così Roma riconquistò la Spagna e tagliava l’eventuale ritirata di Annibale e i principali mezzi di sostentamento del suo esercito. Dopodiché, a seguito della grande vittoria, il comando fu affidato a Publio Cornelio Scipione con l’incarico di un’azione decisiva. Con l’aiuto delle città alleate, Scipione l’Africano allestì una flotta in Sicilia e nel 204 a.C. sbarcò in Africa presso Utica dove, con l’aiuto del re numida Massinissa, inflisse all’esercito cartaginese perdite tali da rendere necessario il ritorno di Annibale dall’Italia. Lo scontro decisivo si ebbe nei pressi di Zama.

Il trattato di pace siglato nel 201 a.C. prevedeva la consegna di tutta la flotta cartaginese, tranne dieci navi, e il pagamento di una fortissima indennità. In più Cartagine avrebbe dovuto riconoscere il regno di Massinissa (Tunisia-Algeria centrale) e rinunciare ad ogni possesso nel Mediterraneo.

La terza guerra punica (149 – 146 a.C.)

Dopo la seconda grande ripresa dei cartaginesi, all’interno di Roma la classe politica andava sostenendo il progetto della distruzione totale della città di Cartagine (Ceterum censeo Carthaginem esse delendam le parole celebri di Catone, parole che, con la loro drastica brutalità, esprimono molto dell’animo pratico e militarista della Roma di ogni tempo).

Il pretesto dell’azione decisiva, pretesto reso necessario dal burocratismo proprio della civiltà Romana, fu offerto dall’attacco portato di Cartagine contro Massinissa, re dei Numidi. Questo andò contro i trattati di pace stilati dopo la Seconda Guerra Punica e Roma ne approfittò per dichiarare guerra nel 149 a.C.

Cartagine si arrese immediatamente ma le condizioni di pace dettate dai Romani furono molto più dure delle precedenti: i Romani avrebbero, comunque, distrutto la città, lasciando vivi gli abitanti.

Nel 146 a.C. il territorio dei cartaginesi divenne ufficialmente Provincia d’Africa e la grandezza dell’Impero Romano non era mai stata così grande in precedenza.

La crisi della Repubblica e le guerre civili: dai Gracchi alla battaglia di Azio

I cambiamenti economici e politici, soprattutto, alla fine della lunga epoca di conquiste, che vide l’espandersi dell’Impero Romano in Oriente, Occidente e nel Mediterraneo, originarono una crisi che incrinò in profondità i pilastri su cui si basava la società, specie dal punto di vista dei costumi sociali. Inoltre, le continue campagne belliche oltremare avevano tenuto i Romani e gli alleati lontani dalle loro case e dalle loro terre: per questo l’agricoltura in quegli anni ebbe una notevole crisi di produzione con un processo di netta decrescita.

La tradizione storiografica (di visione aristocratica) da cui attingiamo le nostre fonti, con una spiccata polemica contro il tribunato della plebe, ha identificato nell’età dei Gracchi la degenerazione dello Stato romano.

Una certa crisi morale è da rivendicare nella profonda diffusione della cultura ellenica (la conquista dell’oriente impose un processo di acculturamento di Roma che vinse sul campo di battaglia ma fu vinta sul piano culturale e filosofico) che determinò la crisi dii valori del mos romano. Cominciarono, inoltre, a diffondersi il piacere per lo svago e per le ricchezze, inopportune secondo l’aurea mediocritas per cui Roma si era contraddistinta dalla civiltà greca e sempre rivendicò la sua distinzione dagli ellenici per questo giacché l’Idenità romana si fondava sul riconoscimento dei valori, in fondo, legati al cittadino-contadino, sobrio fondatore di città, soldato e membro delle istituzioni politiche e partecipe delle assemblee pubbliche: l’Uomo Romano è un essere pratico, il cui pensiero è sempre costantemente rivolto all’azione per la grandezza di Roma e delle sue istituzioni sociali. Le forme di divertimento sanguinarie, come i giochi con le belve feroci, iniziarono in questo periodo. Disse Catone il vecchio: “Più il nostro stato si ingrandisce, più temo che queste ricchezze si impadroniscano di noi, piuttosto che noi di loro.” E si può dire che, dal suo punto di vista, Catone avesse ragione.

Dal punto di vista economico invece, a parte la profonda crisi agricola già citata, uno dei problemi fondamentali fu determinato dall’accumulo delle ricchezze durante le conquiste delle nuove province,che furono divise solo fra gli aristocratici, i generali e le proprie legioni. Si divisero, inoltre, buona parte dell’ager publicus conquistato, pervenendo alla formazione di veri e propri latifondi, che, secondo molti, costituirono la base della ricchezza di pochi e della povertà di molti, rendendo impossibile una coltivazione intensiva della terra e lo sprono al miglioramento delle tecniche agricole che, sebbene avanzate per l’epoca, non ebbero poi un ulteriore sviluppo.

I piccoli proprietari terrieri, esclusi da questa spartizione, furono sfruttati e costretti a lavorare nei latifondi in cambio di minimi salari.

Il moltiplicarsi delle tenute a personale schiavile e il dilatarsi delle zone destinate al pascolo, crearono il presupposto per il ripetuto esplodere di rivolte servili.

L’economia che fino a qualche secolo prima era stata basata sullo sfruttamento agricolo e pastorale delle proprie terre, passò ad essere un’economia basata sulla ricezione dei tributi e sugli indennizzi delle popolazioni sottomesse e delle province.

Tutto questo cambiamento di scenari venne accompagnato anche da una profonda crisi politica. Non c’erano più gli equilibri giusti per mantenere contente le varie fazioni politiche: infatti dalla nobilitas, scaturirono due posizioni, quella degli optimates e quella dei populares. Gli optimates si definivano boni ovvero gente dabbene che manteneva i sani principi del mos maiorum: erano la parte dell’aristocrazia conservatrice. I populares, invece, si consideravano i difensori dei diritti del popolo e proponevano una politica riformatrice.

I Gracchi: da Tiberio a Caio (133 – 121 a.C.)

La situazione di crisi della repubblica rese necessaria una riforma che affrontasse i gravi problemi, emersi dopo anni di guerre, in particolare quelli legati al latifondismo. Il primo a tentare di avanzare l’idea di una riforma agraria fu Tiberio Gracco, che attraversando l’Etruria pare che rifletté su come quelle terre un giorno erano state terre coltivate da liberi contadini, mentre al suo tempo, invece, erano degli immensi latifondi in mano a pochi uomini schiavisti.

Nel 133 a.C. Tiberio fu nominato tribuno della plebe e il suo progetto, che riprendeva in parte i punti toccati dalle Leggi Liciniae Sextiae, propose ai comizi tributi che ogni proprietario terriero non potesse possedere più di 500 iugeri di agro (circa 125 ettari, comunque, una grande cifra!) con l’aumento di 250 iugeri per ogni figlio, fino a un massimo di 1000. I possedimenti che superavano questa estensione dovevano essere restituiti allo Stato e distribuiti in piccoli appezzamenti ai cittadini più poveri da un triumviro adepto. Poteva così essere ricostituito il ceto dei piccoli proprietari terrieri. Com’è immaginabile i grandi proprietari terrieri si sentirono attaccati direttamente nei loro interessi e privati delle terre che consideravano proprie e l’oligarchia dominante ritenne, quindi, di doversi opporre. Ci furono numerosi tumulti in seguito all’approvazione della legge, tramite i comizi tributi: in uno di questa Tiberio fu assassinato.

Dopo qualche anno di intermezzo in cui i tribuni dovettero occuparsi del malcontento degli alleati italici, nel 123 a.C. fu eletto tribuno della plebe Caio Gracco, fratello di Tiberio, e componente della commissione agraria. Ritoccò la legge agraria e la perfezionò. Inoltre una legge frumentaria, mirante a calmierare il mercato, assicurò ad ogni cittadino residente a Roma una quota di grano mensile a prezzo agevolato. Il grano, per lo più siciliano e sardo, veniva immagazzinato in grandi granai chiamati horrea sempronia.

Caio non si limitò a perfezionare la legge agraria: con una legge giudiziaria, infatti, volle riservare ai cavalieri, gli equites, il controllo dei tribunali permanenti, i cosiddetti quaestiones perpetuae, a cui erano affidati i processi di concussione e che perseguivano le estorsioni dei magistrati nelle province. Ai cavalieri fu inoltre affidato il compito della riscossione dei tributi e delle tasse nelle province asiatiche.

Partito per la costruzione di una nuova colonia in Africa, la nuova Cartagine, Caio dovette assentarsi necessariamente dalla città; in questi anni l’oligarchia diede il potere a un nuovo tribuno, Marco Livio Druso. Egli modificò nettamente la politica proposta da Caio con la fondazione di ben dodici colonie. Al ritorno di Caio nel 122 a.C. resosi conto che la situazione politica era ben cambiata, non rieletto al tribunato e, a seguito a numerosi tumulti, si fece uccidere da un suo schiavo fedele. Qui finì l’era dei Gracchi, che lasciò una profonda ferita e lacerazione all’interno della Repubblica. Con la morte di Caio si rafforzò il prestigio del senato, le classi popolari videro allontanarsi le loro ambizioni di emancipazione e la riforma agraria non venne del tutto smantellata, ma modificata ampiamente da renderla quasi nulla.

Gli anni successivi ai Gracchi

Gli anni successivi alla morte dei Gracchi videro un assestamento della nobilitas in senato. Inoltre, videro un importante riordino a livello provinciale e commerciale dello stato, con la fondazione di parecchie colonie come Aquae Sextiae (Aix en Provance), Narbo Martius e un consolidato possesso delle isole verso la Spagna, Corsica e Sardegna e dal 123 a.C. anche le Baleari facevano parte del dominio romano: a Maiorca furono fondate Palma e Pollenzia. Nel contempo ci furono ripetute campagne militari contro le tribù illiriche della Dalmazia.

Nel 112 a.C. il senato romano si vide costretto a dichiarare guerra a Giugurta, re della Numidia: questo re aveva infatti assassinare i commercianti romani e italici che risiedevano nel suo regno, che era d’altronde una provincia romana. Un’altra minaccia era rappresentata dai Cimbri e dai Teutoni ai confini settentrionali dell’Italia. Per affrontare la guerra giugurtina i popolari riuscirono a far eleggere console Caio Mario, privo di parenti illustri ma ideale di uomo politico; per affrontare i problemi di politica estera e per ovviare al problema della difficoltà nell’arruolamento di legionari, aprì l’arruolamento volontario ai capite censi, cioè nei confronti di quelli che erano iscritti al registro censitario solo per la propria persona, ovvero i nullatenenti. Con il suo nuovo esercito Mario ritornò in Africa, ma gli occorsero comunque tre anni prima di mettere fine al conflitto, vittoriosamente, contro Giugurta: in realtà, si trattò di una vittoria arrivata tramite patti diplomatici, tradimenti e, grazie, soprattutto all’opera di Lucio Cornelio Silla, che riuscì a catturare Giugurta dopo aver convinto il Re Bocco, reggente di uno stato a sud della provincia Romana d’Africa, il quale, prima alleato di Giugurta, lo tradisce consegnando Giugurta stesso a Silla e a Mario, dopo aver ben ponderato che la potenza romana fosse da temere maggiormente che il Numida. La Numidia orientale fu così assegnata a un nipote di Massinissa, fedele a Roma.

Mario si trovò a dover risolvere, come già detto, anche l’invasione di due popolazioni: i Cimbri che, probabilmente, provenivano dall’odierna Danimarca e i Teutoni, insediati nella zona dell’Holstein. Numerosi furono i tentativi di attacco dei romani, ma fallirono miseramente: prima a Noreia, poi ad Arausio nel 105 a.C.. Mentre a Roma andava delineandosi un generale senso di disappunto verso l’incapacità dei generali di origine nobiliare, Mario provvide a riorganizzare l’esercito, per cui ogni legione risultò essere articolata non più in piccoli gruppi composti da trenta persone, ma in dieci coorti composte da circa seicento uomini: un cambiamento di grande dimensione  e portata! Mario fu coadiuvato da due suoi luogotenenti, Lucio Cornelio Silla e Quinto Sertorio. Così quando i Germani ricomparvero nel 103 a.C. i Romani furono in grado di contrastarli con due grandi vittorie prima ad Aquae Sextiae e successivamente ai Campi Raudii presso Vercellae (probabilmente l’attuale Vercelli o una omonima località nel veneto).

La guerra sociale

Il decennio successivo si aprì tra forti tensioni politiche e sociale, processi e rese dei conti tra le parti che si erano contrapposte durante le guerre giugurtine e germaniche ed i ripetuti consolati di Caio Mario. In questa atmosfera fu eletto fra i tribuni della plebe Marco Livio Druso nel 91 a.C.. Egli cercò di riprendere le politiche riformiste dei Gracchi a favore dei ceti meno abbienti e dei cavalieri: promulgò una legge agraria volta alla distribuzione, a un prezzo politico, di grano. Distribuì nuovi appezzamenti di terra e costruì nuove colonie. In altro campo restituì il tribunale di concussione ai senatori, proponendo però l’ammissione dei cavalieri (Equites) in senato, aumentato da trecento a seicento membri. Infine propose la concessione della cittadinanza romana agli alleati italici. Ancora una volta come al tempo dei Gracchi l’opposizione fu forte tanto che Druso venne assassinato: ma ormai i contatti per la cittadinanza agli italici erano molto forti e seppur la proposta non era diventata legge, gli italici pretendevano il diritto della cittadinanza.

Per guerra sociale si intende la guerra contro i socii italici, ovvero le popolazione alleate di Roma, che rivendicavano e richiedevano la cittadinanza romana, per ottenere una serie di privilegi come, ad esempio, le distribuzioni agrarie e frumentarie di cui godevano solo i cittadini romani; un altro importante tassello della rabbia degli italici fu che loro non avevano nessuna parte nelle decisioni politiche, economiche e militari che pur vedevano coinvolti i loro interessi. Gli alleati si resero conto che il senato romano non avrebbe mai accettato le loro richieste e così al capo della rivolta si erano posti le popolazioni dei Marsi e dei Sanniti, che insieme con Apuli, Peligni e Lucani formarono un copioso esercito, impreziosito da un forte motivo per combattere. L’assassinio di Druso fu per gli alleati italici il segnale che non vi era altra possibilità se non quella di uno scontro armato. L’insurrezione partì da Ascoli nel 90 a.C. quando un pretore e un gruppo di cittadini romani vennero assassinati. La guerra fu molto lunga e sanguinosa: d’altronde i romani si trovarono a combattere con un esercito addestrato alla loro stessa maniera. Per la prima volta lo scontro fu tra eserciti Romani. L’incerto andamento delle operazioni militari fece coltivare a Roma un sentimento di ripensamento nei confronti degli italici, tanto che molti maturavano l’idea di dare la cittadinanza agli italici. Così nel 90 a.C. su proposta del console Lucio Giulio Cesare venne legiferata la lex Iulia de civitate che concedeva la cittadinanza agli alleati rimasti fedeli e alle comunità che avessero deposto le armi. l’anno successivo venne emanata la lex Pompeia che attribuiva il diritto latino alle comunità alleate a nord del Po. La rivolta fu, così, circoscritta, anche se ci fu ancora qualche flebile insurrezione.

Così con la concessione della cittadinanza a tutta l’Italia si inaugurava un nuovo processo di unificazione politica dell’Italia con ripercussioni molto importanti a livello cittadino. Gli interessi di molti cominciarono, dunque, a convergere verso la città. Così Roma diventò un grande centro cosmopolita nel quale si radunavano genti di ogni paese in cerca di pace e fortuna e creando, così, la più grande metropoli dell’Occidente fino ad anni recentissimi e imponendo condizioni di fermento pressoché ininterrotte.

Così con la concessione della cittadinanza a tutta l’Italia si inaugurava un nuovo processo di unificazione politica dell’Italia con ripercussioni molto importanti a livello cittadino. Gli interessi di molti cominciarono dunque a convergere verso la città! Così Roma andò ad avviarsi verso un grande centro cosmopolita.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

  • Geraci G., Marcone A., Storia romana, Le Monnier, Firenze, 2004.
  • Franḉois J. Scheid J., Roma e il suo Impero,  Editori Laterza, Roma-Bari, 1992.
  • Clemente G., Gabba E., Storia di Roma. La repubblica imperiale, Mondadori, Milano, 2010.
  • Mazzarino S., L’impero romano, Mondadori, Milano, 2010.

Pubblicazioni in riviste:

  • Segnalo recenti articoli di approfondimento su Storica National Geographic e su Civiltà Dossier.

Pubblicazioni e siti online:

 


[1] Traduzione estrapolata dal sito http://deaminerva.blogspot.com/2008/12/menenio-agrippa-e-la-sua-storia.html


Wolfgang Francesco Pili

Sono nato a Cagliari nell’aprile del 1991. Ho da sempre avuto nelle mie passioni, la vita all'aria aperta, al mare o in montagna. Non disdegno fare bei trekking e belle pagaiate in kayak. Nel 2010 mi diplomo in un liceo classico di Cagliari, per poi laurearmi in Lettere Moderne con indirizzo storico sardo all'Università degli studi di Cagliari con un'avvincente tesi sulle colonie penali in Sardegna. Nel bimestre Ottobre-Dicembre 2014 ho svolto un Master in TourismQuality Management presso la Uninform di Milano, che mi ha aperto le porte del lavoro nel mondo del turismo e dell'accoglienza. Ho lavorato in hotel di città, come Genova e Cagliari, e in villaggi turistici di montagna e di mare. Oggi la mia vita è decisamente cambiata: sono un piccolo imprenditore che cerca di portare lavoro in questo paese. Sono proprietario, fondatore e titolare della pizzeria l'Ancora di Carloforte. Spero di poter sviluppare un brand, con filiali in tutto il mondo, in stile Subway. Sono stato scout, giocatore di rugby, teatrante e sono sopratutto collaboratore e social media manager di questo blog dal 2009... non poca roba! Buona lettura

Be First to Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *