Nota dell’autore: il presente contributo, sull’epitome latina di Ianuario Nepoziano, è il primo della rubrica Literrae ex oblivio (lett. “Letteratura dall’oblio”), finalizzata a rendere nota e merito di opere di letteratura latina di ogni tempo, dagli albori con Livio Andronico (III sec. a.C.) fino agli esemplari medio-latini, opere che la fortuna editoriale e l’impostazione scolastica hanno, tutt’altro che a buon diritto, dimenticato; opere affascinanti e meritevoli di studio critico filologico, linguistico e letterario.
Introduzione:
L’arte dell’epitomare, ossia del sunteggiare un’opera tendenzialmente di imponenti dimensioni, non è sicuramente prerogativa esclusiva del Tardo-Antico: la difficoltà nel gestire una mole tale di informazioni da risultare ingovernabile era un problema già sollevato, e in un certo senso affrontato con successo, già dal periodo dello splendore letterario augusteo (27 a.C. – 14 d.C.). Un suggerimento rilevante ci giunge, in questo senso, da Valerio Marziale (38/41 d.C. – 104 d.C.), che in uno dei suoi epigrammi (Apophoreta, 14, CXC)[1] rende noto di essere in possesso di un’epitome degli imponenti 142 libri dell’Ab Urbe condita di Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.) riassunti in un unico codice pergamenaceo (cfr. Conte 2019: 194). Le dimensioni dell’opera liviana,[2] e con esse la rilevanza storiografica della materia trattata, richiesero giocoforza una resa in epitome, difatti la tradizione manoscritta ha tramandato le Perìochae, ossia un «Livio ‘epitomizzato’ (probabilmente a scopo didattico)» (Ibidem).[3]
Ecco dunque che le epitomi vengono a proporsi come un supporto didattico utile all’apprendimento delle informazioni fondamentali contenute in un’opera di ingenti dimensioni. E sebbene si sia dimostrato che quest’arte non sia esclusivo appannaggio di autori tardo-antichi, è pur vero che in questo frangente storico si ha un sicuro interesse per la storiografia, eloquente è l’esempio dell’attività scrittoria di Ammiano Marcellino (n. 330-335) sul modello di Publio Cornelio Tacito, e un fiorire dell’arte dell’epitomare, da cui sopraggiungono prodotti letterari di assoluto valore, come il Breviarium ab Urbe condita[4] di Flavio Eutropio (m. dopo il 387), e come le epitomi all’opera di Valerio Massimo (I sec. d.C.),[5] i Factorum et dictorum memorabiliorum libri, ad opera di Giulio Paride e Ianuario Nepoziano (entrambi attivi nel IV-V sec.).
Il presente contributo propone un’analisi filologico-letteraria della sezione prefatoria dell’epitome di Ianuario Nepoziano, presentata secondo gli accorgimenti critico-editoriali sino ad oggi proposti dagli studiosi, da cui passare a una riflessione socio-letteraria sul gusto di ricezione e sull’orizzonte d’attesa del pubblico lettore nella Tarda-antichità.
Profilo biografico di Ianuario Nepoziano:
La vita di Ianuario Nepoziano è pressoché totalmente sconosciuta, e ciò dipende, oltre che dall’esiguità di menzioni nelle fonti, anche dalla difficoltà nello stabilire l’epoca di attività. Si è giunti a ritenere che sia vissuto tra il IV-V sec., che abbia avuto una formazione oratoria e che sia stato a sua volta formatore, e ciò lo si evince dal tono della lettera prefatoria a Vittore. Su una possibile datazione della sua attività, Amedeo Raschieri (2022: 4-5, nota 15) fornisce delle indicazioni preziose, menzionando, sulla scorta di Reinhart Herzog (1993: 225) una probabile conoscenza dell’epitome di Nepoziano da parte di Magno Felice Ennodio (473-521), vescovo di Pavia e autore di un panegirico per il re Teodorico, in cui compare una citazione che rimanda proprio a Nepoziano. Raschieri, sulla scorta di Rota (2002: 22-25), fissa la composizione attorno al 507, il che fornisce dunque un terminus ante quem per l’attività di Nepoziano.
Confrontando con acribia le fonti che lo menzionano, si possono avanzare determinate ipotesi: innanzitutto, l’iscrizione nr. 9020 del corpus dell’epigrafista tedesco Hermann Dessau, chiamato Inscriptiones Latinae Selectae. In questa iscrizione si menziona un certo Nepoziano, già riconosciuto epitomatore, il quale avrebbe avuto a Roma una cattedra di retorica.
Karl Halm, nella sua edizione dell’opera di Valerio Massimo, menziona in sede di Praefatio le epitomi di Giulio Paride e Ianuario Nepoziano, e su quest’ultimo non si sofferma con notizie biografiche alcune, ma con un commento tanto sbrigativo quanto eloquente, limitandosi a definirlo misellus.[6] Altrettanto inglorioso è il parere di Karl Friedrich Kempf, a sua volta editore di Valerio Massimo, il quale critica aspramente il sermo di Nepoziano definendolo fere barbarus, per indicare evidentemente una distanza incolmabile con la gloriosa retorica dell’antica Roma.
Anche il commento di Karl Friedrich Kempf, pur riservandosi di non addentrarsi nelle disquisizioni storico-critiche, fa menzione di alcune supposizioni sulla figura di Nepoziano, tra cui una possibile identificazione con il destinatario del carme XV della Commemoratio professorum Burdigalensium del poeta Ausonio Decimo Magno (310-394), dedicata per l’appunto a «Nepotiano grammatico eidem rethori»;[7] e di una possibile identificazione del destinatario della lettera prefatoria di Nepoziano, Vittore, con il retore Gaio Giulio Vittore, retore romano del IV sec. Kempf, con una buona dose di prudenza, afferma dopo questa breve disamina «nos quidem talibus suspicionibus abstinemus».[8] Le ipotesi, che pur rimangono vive e sensibili alla critica per il loro fascino, non trovano riscontro definitivo, e si affiancano a nuove e ulteriori ipotesi, tra cui una possibile identificazione di Vittore con lo storico del IV sec. Sesto Aurelio Vittore.
Poche notizie, infine, giungono dal celebre cardinale e filologo Angelo Mai, editore delle due esperienze d’epitome. Su Nepoziano, asserisce Mai di ritenerlo più giovane di Giulio Paride,[9] e un grande estimatore e conoscitore di materia religiosa e cultuale.[10] Considerato che Giulio Paride fu attivo nel IV sec., il terminus post quem fissato dall’asserzione di Angelo Mai non permette in realtà di precisare ulteriormente le ipotesi di datazione. Si conclude pertanto, ricalcando peraltro conclusioni già ampiamente tracciate, che l’attività di Nepoziano sia da fissare tra il IV sec. e gli inizi del VI sec.
Nota filologica sul ms. Vaticano Latino 1321:
L’epitome di Nepoziano è conservata nel manoscritto Vaticano Latino 1321, codice cartaceo, di lingua latina, della metà del XIV sec. (cfr. Raschieri 2022: 4, nota 15), 279 carte totali, vergato in littera che appare molto prossima alla beneventana, soprattutto per la forma delle aste delle occlusive dentali sonore /d/; contiene rubricazioni in incipit ed explicit, e capilettera miniati. I marginalia sono relativamente poco numerosi, e di mani plurime e seriori: trattasi, ad ogni modo, di annotazioni marginali che, per buona parte, rivelano un lavoro intenso sul testo e una volontà di ordine e precisione. A dimostrazione di ciò, diversi marginalia sono corredati da illustrazioni, seppur di dimensioni limitate. Tra le varie annotazioni marginali, si segnalano, di particolare interesse:
-A c. 2v, sul lato destro, poco sotto la metà, si trova un’annotazione marginale, sottolineata in rosso e di mano diversa da quella che ha vergato il testo principale. L’annotazione è racchiusa nel disegno poco elaborato di un volto, più precisamente è posizionato, evidentemente con finalità simbolica, sopra la fronte.
-A c. 3v, sul lato sinistro, circa a metà della carta, si trova il disegno di una manicula nell’atto di impugnare quello che pare essere la penna atta al processo di scrittura. Si ritiene di poter ipotizzare che la figura avesse la medesima valenza che avevano, ad esempio, le maniculae usate da Boccaccio nel proprio lavoro esegetico, poste al fine di segnalare, nel contesto di operazioni esegetiche, i passaggi in questione o le postile di un testo particolarmente denso.[11]. Un’altra manicula, tra le varie, si trova a c. 4r, nella parte sinistra. Colpisce inoltre la presenza, a c. 23v, parte destra, di una manicula con indice allungato, espediente ampiamente usato dal Boccaccio. Una manicula particolarmente elaborata in termini artistici si ha a c. 31v.
Esaminando le annotazioni marginali risalta il modus operandi del copista che annota marginalmente, in particolare la scelta di racchiudere, in maniera tendenziale, il testo entro righe o figure, talvolta anche piuttosto elaborate in termini di lineature curve, intrecciate, o dai motivi simil-floreali.
L’epitome di Nepoziano si trova alle carte 147r-154r; piuttosto rare sono, in questa sezione, le annotazioni marginali. Il codice è testimone, tra gli otto testi conservati, anche delle Actiones del Concilio di Calcedonia (451), alle carte 1r-133r e 137r-139v, e del Dictatus Papae ad opera di papa Gregorio VII, alle carte 276v-277r. A c. 1r si trova lo stemma dei cardinali Angelo e Domenico Capranica (XV sec.).
La prefazione di Ianuario Nepoziano alla sua epitome:
Trascrizione:[12]
[147va] Ianuarius Nepotianus Victori suo salutem. Impensius qua(m) ceteri adolesce(n)tes litteris studes, quo tantum[13] proficis ut exigas scripta veteru(m) coerceri, mi Victor. Quod iudiciu(m) etia(m) in senibus raru(m) est, quia recte dice(n)di scientia in paucis. Igitur de Valerio Maximo mecu(m) sentis op(er)a eius utilia esse si sint brevia. Digna eni(m) cognit(i)one co(m)ponat, sed colligenda p(ro)ducat, dum se ostentat sententiis, locis iactat, fundat excessibus et eo fortasse sit paucioribus notus, q(uo)d legentiu(m) auiditati mora ip(s)a fastidio est. Recidam[14] itaque, ut uis, eius redundantia et pleraque tra(n)sgrediar, no(n)nulla p(rae)termissa conectam. Se hoc meu(m) neruu(m) antiquor(um) habebat, nec fucu(m) novor(em). Et cu(m) integra fere in occulto sint, preter nos duo profecto nemo epithomata cognoscat, hoc tutius abutor otio tibique pareo. [147vb] Heus, censor, piueteres cave hic aliud quam[15] brevitate(m)[16] requiras, quam solam[17] poposcisti. Cura, mi Victor, ut valeas.
Traduzione:
≪Ianuario Nepoziano al suo Vittore salute! Ti dedichi agli studi, o mio Vittore, con più impegno di tutti gli altri giovinetti, e tanto vi profitti, da pretendere di aver sottocchio un condensato delle opere degli antichi. Un’opinione del genere è rara anche nelle persone anziane, perché solo a pochi avviene di conoscere le norme della corretta espressione. Or dunque, tu convieni con me, per quel che riguarda Valerio Massimo, che la sua opera si rivela utile, se sunteggiata: egli scrive di cose degne di esser conosciute, ma amplia quelle che andrebbero ristrette, facendo sfoggio di sentenze e di figure e producendosi in digressioni, ed è noto a pochi, forse perché l’indugio in sé infastidisce l’avido lettore. Pertanto ne reciderò, come desideri, le ridondanze, su gran parte passerò oltre e aggiungerò qualche parte da lui omessa. Questo mio lavoro, tuttavia, avrà il ruvido nerbo degli antichi e non il falso belletto dei moderni. Ed essendo l’originale pressoché sconosciuto e nessuno conoscendo, tranne noi due, le epitomi, con tanto maggior sicurezza profitto del mio tempo libero e obbedisco al tuo desiderio. E tu, o censore, †[18] qui non cercare altro che la concisione, che sola hai da me preteso. E stammi bene, o mio Vittore ≫.[19]
«Utilia esse si sint brevia» – una riflessione socio-letteraria:
La sezione prefatoria di Nepoziano alla sua epitome induce a una riflessione di carattere socio-letterario: destinando l’epitome in fase di produzione agli studi del suo allievo Vittore, che egli elogia per l’acribia superiore a quella di qualunque altro studente, Nepoziano di fatto si propone di produrre un’opera estranea all’intento del diletto di un lettore, ma che risponda ai canoni della manualistica, e che abbia la propria utilità nell’uso come fonte di studio e conoscenza. È dunque lecito domandarsi se il passaggio «utilia esse si sint brevia» faccia riferimento a una concezione limitata alla scolastica, dunque una tendenza d’uso nell’ambito dell’insegnamento e dello studio, o se di contro si possa estendere alla media del lettore del IV-VI sec., arco diacronico a cui si ascrive l’epitome.
Quanto è certo è che non si posseggono informazioni dettagliate circa la composizione della biblioteca personale privata di un comune cittadino all’epoca. Si può arguire che, come suggerito dal già citato epigramma di Marziale, la predilezione di opere epitomate avesse come ragione d’essere una mera praticità. Ciò era vero, tuttavia, in particolar modo per l’epoca precedente lo sviluppo del codex, quando le opere erano racchiuse in rotoli di pergamena. È opportuno notare che la forma-libro del codice permise di concentrare opere di ampie dimensioni occupando uno spazio limitato, dunque l’idea di una predilezione delle epitomi sulla base di fattori puramente materiali non sembra convincere. Neppur si può ritenere di imputare la questione a fattori economici: la pergamena aveva certamente un costo non indifferente, e ciò rende ragione delle strategie di risparmio di spazio in fase di copiatura (come l’ampio uso, a rischio di divenir talvolta quasi criptico, del titulus), ma è pur vero che questo non impedì la stesura di opere di dimensioni ingenti. In particolar modo, opere di importanza cardinale in ambito storiografico, letterario, scientifico e teologico non si videro ostacolate nella produzione da fattori di questo genere.
Vale dunque la pena di ipotizzare che la strategia comunicativa alla base della scelta di Nepoziano di dedicarsi all’arte di epitomare, rispondesse a una necessità pratica, comunemente avvertita dall’orizzonte di attesa dei lettori. Un’opera come quella di Valerio Massimo, evidentemente estranea alla strategia della brevitas, e dunque farcita di dettagli minuziosi, descrizioni prolisse e lunghe sezioni discorsive, si presta perfettamente come oggetto dell’arte d’epitomare.
In generale, è da ritenere comune ad ogni epoca la strategia comunicativa di abbreviare all’essenziale opere di grande interesse e utilità ma ugualmente di ingenti dimensioni. Sarebbe improprio imputare questa scelta “editoriale” di Ianuario Nepoziano a una forse inconsapevole diminuzione della capacità di governare opere informative di grandi dimensioni, come è per Valerio Massimo: la mancanza di dati sufficienti sulle private biblioteche dell’epoca non permettono di asserire con certezza che la predilezione per le epitomi fosse un fenomeno profondamente radicato, e soprattutto non è possibile stabilire con certezza che questa tendenza, qualora esistente, abbia avuto un terminus post quem di partenza. Ugualmente, l’attività letteraria, in particolare quella storiografia, non testimonia una radicale inversione di rotta in direzione della forma breve: si prenda come esempio l’attività storiografica di Ammiano Marcellino, attivo nel IV sec. e autore dei Rerum Gestarum Libri,[20] opera dall’imponente impianto di trent’uno libri. L’attività di Ammiano Marcellino non è certo un fiore nel deserto, ma è utile a rendere noto come l’esperienza di Nepoziano sia sicuramente identificativa di una precisa strategia di comunicazione, ossia veicolare una forma quanto più appropriata all’apprendimento per il suo studente, ma ugualmente come questa sia sintomo di una scelta limitata all’ambito didattico. Si può ipotizzare, ed è lecito il ragionamento, che questa fosse una strategia didattica non univocamente messa in atto da Nepoziano, ma non sembrano sussistere basi abbastanza solide per ritenere che la tendenza all’epitomare avesse un carattere simil-universale.
Bibliografia:
Ausonio, Opuscula = Decimo Magno Ausonio, Opuscula, Berolini, apud Weidmannos, 1883.
Bordone 2010 = Fabrizio Bordone, La lingua e lo stile del Breviarium di Eutropio, 2010, in Annali Online di Lettere – Ferrara, vol. 2, 2010, pp. 143-162.
Chiesa 2019 = Paolo Chiesa, La trasmissione dei tesi latini. Storia e metodo critico, Roma, Carocci, 2019.
Conte 2019 = Gian Biagio Conte, Profilo storico della letteratura latina. Dalle origini alla tarda età imperiale, Firenze, Le Monnier Università, 2019.
Dessau 1892 = Hermann Dessau, Inscriptiones latinae selectae, Berolini, apud Weidmannos, 1892.
Gasti, Bordone 2014 = Eutropio, Storia di Roma, introduzione di Fabio Gasti, traduzione e note di Fabrizio Bordone, Santarcangelo di Romagna, Rusconi Editore, 2014.
Gitti 1929 = Alberto Gitti, Ammiano Marcellino, per Treccani – Enciclopedia Italiana, 1929, consultabile online all’url «https://www.treccani.it/enciclopedia/ammiano-marcellino_(Enciclopedia-Italiana)/».
Halm 1865 = Karl Halm, Valeri Maximi Factorum et dictorum memorabilium libri novem. Iulii Paridis et Ianuarii Nepotiani epitomis adiectis, Lipsia, Teubner, 1865.
Herzog 1993 = Reinhart Herzog, Nouvelle histoire de la littérature latine. Tomo V. Restauration et renouveau. La littérature latine de 284 à 374, Turhaut, Brepols Publishers, 1993.
Kempf, Karl Friedrich Kempf, Valeri Maximi Factorum et dictorum memorabilium libri novem. Cum incerti auctoris fragmento, Berolini, impensis Georgii Reimeri, pp. 67-71
Mai 1831 = Angelo Mai, Januarii Nepotiani epitoma librorum Valeri Maximi, E.H.C. Schulze, 1831.
Momigliano 1937 = Arnaldo Momigliano, Valerio Massimo, per Treccani – Enciclopedia Italiana, 1937, consultabile online all’url «https://www.treccani.it/enciclopedia/valerio-massimo_(Enciclopedia-Italiana)/».
Norcio 2006 = Marziale, Epigrammi, a cura di Giuseppe Norcio, Torino, UTET, 2006.
Raschieri 2016 = Amedeo A. Raschieri, Brevitas e narratio tra Cicerone e Quintiliano, in Daniele Borgogni, Paolo Caprettini, Carla Vaglio Marengo (a cura di), Forma breve, Torino, Accademia University Press, 2016, pp. 141-151.
Raschieri 2020 = Amedeo A. Raschieri, Epitomare nella scuola di retorica: Giulio Paride e Ianuario Nepoziano, in I. Boehm, D. Vallat (éd.), Epitome. Abréger les textes antiques, Lione, MOM Éditiones, 2020, pp. 153-167.
Ricchieri 2022 = Tommaso Ricchieri, Le Periochae liviane (e le altre): per la definizione di un ‘genere’, 2022, in Erga-Logoi, 10/2, 2022, pp. 213-248, DOI: https://dx.doi.org/10.7358/erga-2022-001-tric.
Rota 2002 = Magno Felice Ennodio, Simona Rota (curatela di), Panegirico del clementissimo re Teodorico (opusc. 1), Roma, 2002.
[1] «Titus Livius in membranis. Pellibus exiguis artatur Livius ingens, / quem mea non totum bybliotheca capit» (trad. «Tito Livio in pergamena. In questo piccolo volume di pergamena è racchiuso l’immenso Livio, che la mia biblioteca non può contenere per intero.». Edizione e traduzione dell’epigramma ad opera di Giuseppe Norcio (2006: 906-907).
[2] Sulla tradizione manoscritta dell’opera di Tito Livio, di cui sono giunti i libri I-X e XXI-XLV, oltre che pochi altri frammenti, si segnala l’interessante contributo di Paolo Chiesa 2019: 79-84.
[3] Cfr. Ricchieri 2022.
[4] Cfr. Gasti, Bordone 2014; cfr. anche Bordone 2010.
[5] Su Valerio Massimo si segnala l’eccellente scheda redatta da Arnaldo Momigliano per Treccani (1937).
[6] «Ne quid autem in cura nostra desideraretur, alteram quoque epitomam, quae Ianuarii Nepotiani nomen fert, ad calcem libri adiunximus. Est misellus ille quidem scripti […]» (Halm 1865: III).
[7] Ausonio, Opuscula, p. 65.
[8] Kempf 1854: 69.
[9] «Ianuarium Nepotianum Iulio Paride iuniorem existimo» (Mai 1831: 3).
[10] «Religionem eximie se coluisse demonstrat Nepotianus» (Ibidem).
[11] Sulla questione delle maniculae di Boccaccio ha scritto Gaia Fiorinelli in un saggio esaustivo, esaminando il modus operandi dell’autore sul ms. Ambrosiano A 204 inf. (Biblioteca Ambrosiana di Milano), contenente il commento tomistico all’Ethica Nicomachea di Aristotele; cfr. Gaia Fiorinelli, A proposito di alcune postille boccacciane nell’Ambrosiano A 204 inf., in Heliotropia, 16-17, 2019-20, pp. 107-168.
[12] La trascrizione è a cura di Simone Di Massa dal ms. Vaticano Latino 1321 (c. 147v); il testo presentato è frutto del raffronto con quello riportato in Raschieri 2022: 4 con adozione delle scelte di interpunzione e delle correzioni, disaminate nelle note successive. Una versione digitalizzata del manoscritto è consultabile online presso l’archivio DigiVatLib, della Biblioteca Vaticana, al seguente Url: <https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.1321>.
[13] Il ms. riporta la forma tantus; si accetta la correzione in tantum.
[14] Il ms. riporta la forma Recidas, ma si ritiene di accettare la correzione in Recidam in quanto la forma del verbo RĔCIDO all’indicativo futuro di I persona singolare è concorde con l’intento espresso da Nepoziano nell’insieme della lettera, ossia di attuare determinate modifiche strutturali nell’atto di epitomare l’opera di Valerio Massimo, operazione che effettivamente si compie, ed è ben evidente nel testo inviato a Vittore. Non sarebbe altrettanto coerente un indicativo futuro di II persona singolare, che dovrebbe peraltro essere “recides” (la forma “recidas” è II per. sing. del congiuntivo presente, forma del tutto anomala nel contesto), la quale farebbe ricadere sulle spalle di Vittore il compito di “recidere le ridondanze”, contrariamente a quanto poi accade effettivamente.
[15] Il ms. riporta la forma quas; si ritiene di accettare la correzione in quam poiché la forma in accusativo singolare è concorde con aliud, assieme a cui forma il costrutto «altro che». Una forma in accusativo plurale non avrebbe concordanza alcuna.
[16] Il ms. riporta la forma brevitantem; si accetta la correzione in brevitatem.
[17] Il ms. riporta la forma quas solas; si ritiene di accettare la correzione in quam solam in quanto la forma in accusativo singolare concorda con brevitatem (cfr. nota 2).
[18] Si è ritenuto di mantenere la crux desperationis secondo la scelta adottata da Raschieri. Sulle possibili correzioni di piueteres proposte dagli editori cfr. Raschieri 2020: 4, nota 13.
[19] Si adotta la traduzione di R. Faranda con le modifiche apportate da Raschieri (2020: 4).
[20] Si adotta il titolo riportato dal ms. Vaticano Latino 1873, il quale ad explicit di ognuno dei libri attestati reca la dicitura Ammiani Marcellini Rerum Gestarum explicit […] feliciter, e impiegato anche, più tardi, dal grammatico Prisciano di Cesarea (cfr. Gitti 1929).
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