Introduzione
In questa riflessione, cercherò di ricostruire alcuni fenomeni legati sia all’intelligence (in particolare, academic espionage) sia all’innovazione tecnologica, mostrando come le Università ed i centri di ricerca siano e potranno essere sempre di più obiettivi caldi per chi intende appropriarsi del know how sviluppato in un certo paese. L’intelligence accademica non è un fenomeno nuovo, come non lo è certamente farsi la guerra per appropriarsi delle risorse e delle tecnologie altrui, tuttavia, ad un certo punto della storia umana, qualcosa sembra essere profondamente cambiato. Le risorse naturali si sono avvicendate, nel corso della storia, per importanza e criticità, seguendo non solo lo sviluppo economico ma anche quello geografico. Tuttavia, non è più possibile pensare che vi sia un Pizarro, un Magellano, un Colombo a scoprire nuove terre ricche di risorse già utilizzate o in grado di fornirne di nuove. Mentre i viaggi nello spazio sono ancora inefficaci per il recupero di risorse, l’essere umano si è calato nelle profondità oceaniche, nelle viscere della terra ferma e ha catturato l’energia del sole e del vento. Tuttavia, nessuna di queste risorse sembra aver posto fine alla lotta per l’abbondanza, la sazietà e la prevaricazione sugli altri. L’altra frontiera su cui ci siamo mossi è stata quella tecnologica, che ha permesso, soprattutto a partire dalla fine del XVIII secolo, uno sviluppo straordinariamente rapido. Ma a fianco di tutte le scoperte scientifiche, i progressi tecnologici e i benefici derivati, nessuna tecnologia al momento permette di raggiungere quell’utopico fine che è la rassicurante abbondanza per tutti e per sempre. In mancanza di questa, le armi continuano a flagellare il mondo con il loro sinistro rombo, mentre, più silenziosamente, soggetti insospettabili agiscono nei corridoi delle università, dei poli di ricerca, dei centri per l’innovazione, dotati, anche solamente, di un telefono cellulare. Ma per cosa bisognerebbe combattere? Se petrolio, gas, uranio e metalli vari, per esempio, sono sempre al centro dell’attenzione, non è affatto scontato che saranno altre le risorse per cui varrà la pena, tanto cinicamente quanto innata nello spirito umano, di andare a prendersele con la forza.
Nel primo paragrafo di questa riflessione mi concentro sulle maggiori evidenze storiche che hanno portato inevitabilmente a guerre e conflitti per le risorse energetiche e non solo (dalle antiche miniere di rame, alla gomma ad esempio), evidenziando come il ruolo principale in questa corsa all’abbondanza lo abbiano avuto quei paesi con una proiezione imperiale e con un combinato disposto di disponibilità di risorse e una propensione culturale sia allo sviluppo tecnologico sia alla scoperta che alla guerra. La Storia quindi ci fornisce numerosissimi esempi di come in situazioni di scarsità, le varie civiltà antiche si sono mobilitate sia per contrastarsi a vicenda sia per intensificare il proprio sviluppo tecnologico.
Nel secondo paragrafo presento alcune teorie sulla caduta degli imperi e delle civiltà che ricorrono ad alcuni principi fisici noti. Sistemi complessi, quali gli imperi antichi, possono essere accomunati a sistemi che diventano sempre più complessi ma anche inefficienti e maggiormente crescono in dimensioni e complessità, maggiori sono le probabilità e la rapidità del loro crollo. Superati alcuni punti nella capacità di recuperare risorse e di avanzamento tecnologico, tornare a livelli di efficienza sembra storicamente non possibile.
Per illustrare la vocazione umana alla crescita, ci sono comunque dei motivi che paiono antropologici e psicologici individuali. Dal “gene dell’ingozzamento” fino al “bias dell’ottimismo”, il genere umano ha da sempre trovato soluzioni per sopravvivere in un ambiente che, in definitiva, reputava non soddisfacente per abbondanza di risorse. La corsa all’accaparramento di risorse ha indotto importanti sviluppi tecnologici che però, sono rimasti comunque contenuti fino a quando non si è incominciato ad estrarre carbone. Da quel momento in poi, concausa forse anche la scoperta che il mondo era veramente finito (le grandi scoperte di terre emerse sono definitivamente cessate nel corso del XIX secolo), lo sviluppo tecnologico ha avuto impulsi senza precedenti. Questo progresso ha conciso però con due conseguenze forse non del tutto previste (almeno nelle sue effettive portate): una crescita della popolazione mondiale a misure di grandezza superiori rispetto al passato e la devastazione della biosfera, ovvero dell’ambiente in cui viviamo. La diretta conseguenza di ambo questi due fenomeni è la scarsità, forse drammaticamente irrecuperabile, di risorse sia energetiche che minerali e alimentari, nonché l’insorgere di inediti (almeno per gravità o estensione) problemi sociali su scala globale: non da ultime le pandemie.
Se è vero che la storia insegna, allora bisognerebbe cercare di recuperare le lezioni di molti imperi e civiltà della storia, crollate una dopo l’altra in brevissimo tempo. Perché sono falliti i più giganteschi progetti imperiali? Le motivazioni possono essere molte ma la fisica può fornire alcune chiavi di lettura interessanti per determinare l’accumularsi di inefficienze in sistemi complessi. Allo stesso modo, ci insegna qualcosa su come i vari imperi o civiltà hanno cercato di resistere alla loro caduta: inventando. La tecnologia è qui interpretata in particolare come stratagemma per risolvere limiti di disponibilità fisica di materie prime. Se ciò fosse vero, dovremmo aspettarci un ulteriore incremento nello sviluppo tecnologico. Queste nuove risorse sarebbero però probabilmente allocate in modo quasi imprevedibile, tenendo conto degli interessi di breve periodo e senza particolare lungimiranza. Ma ci dovremmo anche aspettare una più incalzante attività di spionaggio nelle università e nei centri di ricerca: su quali tecnologie in particolare, resta una domanda aperta. A parere dell’autore, non su quelle direttamente legate alla digitalizzazione, se non nella misura in cui abbiamo una immediata applicazione militare.
Per mostrare che tali attività di spionaggio sono già palesemente in essere, saranno presentati casi di cronaca recente che dimostrano non solo la salienza del tema ai giorni nostri ma anche l’estrema e quasi inestricabile complessità di determinare un fenomeno perfino più celato delle più tradizionali forme di spionaggio. Il tema centrale di questo tipo spionaggio, infatti, risiede nella vocazione della scienza ad unire e collegare persone di tutte le provenienze e che si arricchisce proprio grazie alla contaminazione e alla condivisione. A differenza del settore militare, da sempre ritenuto più chiuso, le università e i soggetti innovativi hanno sviluppato una tendenza all’apertura senza precedenti, fondando lo stesso metodo scientifico sulla peer-review ossia sulla validazione dei risultati da parte di anonimi “pari” sparsi nel resto del mondo. Tuttavia, proteggere il know-how scientifico ed accademico non è impossibile ed anzi, proprio la complessità di ogni scoperta e della sua applicazione pratica potrebbe essere la migliore difesa.
Successivamente, invece, saranno presentati alcuni lavori scientifici che sembrano dare un interessante indizio su quali risorse potrebbero diventare dirimenti nel prossimo futuro (se non già nel presente), mostrando quindi ancora una volta, quanto l’interesse per i lavori accademici altrui possa essere elevato per ciascun paese.
Se tutto questo sembra limitato alla teoria, vale la pena ricordarsi che fino ad appena due secoli fa, nessuno si sarebbe mai sognato di scatenare una guerra per un giacimento di petrolio.
La storia umana come guerra per le risorse
Niente di meglio di una discreta calura estiva stemperata da una leggera brezza serale per voltare l’ultima pagina dell’ultimo libro del Prof. Alessandro Giraudo, economista ed esperto di materie prime che spesso tiene stimolante compagnia ai viaggiatori sintonizzati su alcune stazioni radio.
Il libro di Giraudo, “Quando il ferro costava più dell’oro”[1] è una delle più interessanti letture che mi siano capitate fra le mani nelle ultime settimane. Cercherò di tracciarne alcune linee fondamentali di seguito.
Anzitutto, il libro è sostanzialmente una ampia e documentata disamina del rapporto fra essere umano e risorse (minerali, legno, animali e altri vegetali, fossili) e di come per l’accaparramento di queste si siano verificate praticamente tutte le guerre più degne di nota dal tempo degli Assiri (da circa 900 anni prima di Cristo) ad oggi. Nonostante questi sforzi violenti e spesso anche disperati ma ingegnosi, non c’è una sola epoca storica in cui l’essere umano sia vissuto senza sperimentare sulla propria viva pelle le piaghe di una crisi. In breve, quindi, sebbene lo sfruttamento dei frutti della terra (che fossero i minerali, le foreste o il petrolio) abbia permesso all’essere umano di svilupparsi, di costruire città, di articolare complessi normativi e di avanzare nelle conoscenze sul mondo che lo circonda, proprio quelle stesse risorse sembrano condannarlo ad una ricerca perpetua e forse vana della risorsa con la R maiuscola: cioè, quella in grado di risolvere una volta per tutte i nostri problemi. Il carattere fondamentale dell’accaparramento di queste risorse naturali è stato proprio l’aver condotto svariati conflitti armati, che, a loro volta, hanno impegnato le varie realtà umane collettive nell’escogitare modi e sistemi sempre più efficaci per vincere l’avversario: dallo spionaggio, al sabotaggio, alla poliorcetica, fino allo sviluppo di sistemi d’arma che potessero avere una funzione di deterrenza. Se la guerra è stata conseguenza della ricerca di risorse da sfruttare, essa è stata il motore per numerosi progressi nonché per la scoperta di altre risorse prima sconosciute (pensiamo a cosa potesse voler dire rinvenire piante, metalli, prodotti degli animali o animali stessi nelle terre inesplorate dell’Asia, dell’Africa e dell’America per gli Europei del medioevo e poi di tutta l’età moderna).
È come se sulla Terra si trovasse, celata in qualche anfratto, la mela proibita, cantava De André, e che nessuno sia ancora riuscito a estrarla. Però, in mancanza della mela proibita, il genere umano si è comunque dato molto da fare, lungo tutte le latitudini e solcando i secoli della storia, per trovare le migliori soluzioni possibili, spesso, tuttavia, divenendo servo involontario di quelle stesse risorse che sperava di sfruttare senza conseguenze. Così, per il controllo di miniere si dovevano occupare posizioni territoriali e combattere altre popolazioni, riformare l’esercito, imporre tasse e prelevare schiavi. Oppure, inimicarsi la Chiesa di Roma, come fece Enrico VIII (pp. 144-149) che requisì i monasteri cattolici per recuperare ricchezze e anche per fonderne tubi e campane realizzando così un’artiglieria all’avanguardia. O ancora, la Spagna che dovette penetrare nel continente africano per aggiudicarsi manodopera di schiavi da mandare nelle miniere (mortali) del Sud America ad estrarre argento, sfruttando altresì le proprie risorse di mercurio in patria. In un avvilupparsi indistinguibile di cause ed effetto, costretti a fare i conti con crisi climatiche e pestilenze, i nostri antenati hanno ideato sistemi centralizzati per finanziare le più ardite operazioni dei governanti, placare folle inferocite e, in fin dei conti, escogitare soluzioni che andassero verso la migliore ottimizzazione del sistema economico e politico. Le strade dei vari esseri umani sembrano riunirsi in alcuni momenti storici, in cui particolari idee politiche o religiose avevano una netta preponderanza, per poi cedere alle forze centrifughe e nelle diverse regioni del mondo si sono approfondite soluzioni divergenti per gestire l’economia, l’ordine pubblico, la guerra e il potere politico. I governi, nel corso dei secoli, hanno quindi sviluppato strategie sempre più efficaci per superare i concorrenti: strumenti per mantenere in patria il know how, per spiare in ogni modo l’avversario e ancor più l’alleato, per abbattere economicamente e finanziariamente i nemici (per esempio facendo circolare banconote false e inducendo una svalutazione del valore del denaro), per avvalersi di banche private e poi centrali al fine di finanziare se stessi o gli alleati.
Più di ogni altra parte del libro del Prof. Giraudo, è quella sul petrolio che colpisce maggiormente (pp. 247-251). Improvvisamente, una delle risorse considerate più strategiche: l’olio di balena perde di interesse in favore dell’oro nero. È un grande insegnamento, un monito che dal XIX secolo giunge potente e sempreverde fino a noi: le risorse strategiche cambiano velocemente e chi ha fortuna e intuito riesce a capirlo prima degli altri. Fortuna perché con le risorse bisogna nascerci, intuito perché bisogna aver sviluppato un ambiente umano, culturale, politico ed economico tale per cui non si perde il treno ma si riesce a salire per primi. Gli Stati Uniti, su questi due requisiti, sono i più invidiabili al mondo probabilmente. Ma la Cina non è certo molto da meno. Anche la Germania Guglielmina ha presentato caratteristiche simili ma la posizione geografica, circondata da altri paesi non meno sviluppati, una comunque limitata disponibilità di risorse e una difficile apertura al mare, ne hanno soffocato le imperialistiche speranze di dominazione. Gli Stati Uniti e in subordine la Cina, non hanno di questi problemi o almeno di questa rilevanza.
Quindi, il libro di Giraudo ci consegna una lettura storica di come la lotta per le risorse abbia animato la vita di moltissime e anche così diverse popolazioni. Ma una cosa resta ad accomunare tutte queste civiltà umane: che, presto o tardi, sono collassate. Perché?
Come cadono gli imperi
Il problema della scarsità di risorse su cui anche molti esperti mettono in guardia ormai da anni, potrebbe essere ricondotto al celebre paradosso di Fermi[2]. Il celebre fisico italiano spiegava il mancato incontro con civiltà aliene sostenendo che, se una civiltà si fosse così tanto sviluppata da poter entrare in contatto con noi umani, avrebbe in realtà finito per auto-distruggersi molto prima di riuscire ad incontrarci. Forse la causa più plausibile a cui si pensava allora era di natura bellica ma oggi, invece, potrebbe essere di natura ambientale. E questa, per dovere di cronaca, potrebbe essere la causa più probabile della scomparsa di altre eventuali civiltà extraterrestri, posto che i pianeti capaci di ospitare vita che diventi intelligente, dovrebbero avere dimensioni e anche risorse paragonabili a quelle terrestri.
Il collasso delle civiltà o degli imperi è un argomento spesso appassionante, che, come visto in precedenza, intreccia molte discipline di studio. Un approccio quantitativo[3] a questo fenomeno, che pare non avere fine, riconduce la fine di una civiltà al modello biofisico di Tainter[4], basato su un concetto ben noto in economia: “diminishing returns of complexity”. Ossia, nella produzione di beni questo principio statuisce che: incrementando di un’unità un fattore di produzione, lasciando invariati gli altri, ad un certo punto, restituirà quantità minori di output ad ogni aumento di input. In breve, l’efficienza ha un limite. Superato quel limite, continuare a produrre è antieconomico. Molte teorie sulla caduta degli imperi si sono avvicendate nel corso dei secoli, quando sottolineando la crucialità di una singola causa e quando, invece puntando l’attenzione sulla copresenza di molteplici concause. Indipendentemente da come queste civiltà siano crollate, la storia ci trasmette un’informazione di carattere generale molto interessante: i collassi sono spesso molto più rapidi rispetto ai processi di costruzione.
L’inefficienza di Tainter in effetti illustra bene che, quando una società è in espansione i costi di struttura sono relativamente bassi (burocrazia, esercito, implementazione delle leggi e così via) ma per continuare a crescere deve aumentare questi costi, ossia diventare più complessa. Per aumentare in complessità, servono ulteriori risorse e molto tempo ma ad un certo punto l’aumento di risorse non ripagherà i costi di struttura necessari ad ottenere e a mantenere quelle risorse. In altri termini si potrebbe parlare anche di: “energy return on energy invested” (EROEI)[5]. L’EROEI rappresenta l’efficienza di un sistema atto a produrre energia. Ossia: considerata l’energia di output, stando alla termodinamica, per cui l’energia né si crea né si distrugge; quanto questa è superiore rispetto ai costi energetici che ho dovuto sostenere per produrre (estrarre) la risorsa energetica, trasportarla, eventualmente trasformarla e usarla, e poi per smantellare il sistema di produzione a fine ciclo? L’EROEI applicato al crollo di una società potrebbe nuovamente sottolineare come sistemi che sono stati efficienti per un determinato periodo di tempo, finiscano per crollare su sé stessi quando non trovano più o risorse efficienti o sistemi efficienti di impiegarle. Il crollo è molto rapido se paragonato al tempo per costruire il sistema di produzione.
Sia la teoria di Tainter che l’EROEI si applicano per esempio molto bene al caso dell’Impero Romano: per costruirlo ci sono voluti secoli di: guerre, rivolte, colpi di stato, riforme e riorganizzazioni. Per crollare, almeno nella parte occidentale, ha impiegato relativamente pochi decenni. Ad un certo punto, sostenere la struttura imperiale era diventato insostenibile e la soluzione adottata fu quella di dividere il territorio e quindi l’amministrazione con tutta la sua burocrazia e l’esercito. Un altro caso di impero che non è riuscito a sostenersi perché incapace di continuare ad espandersi (ma è proprio qui la trappola) è stata la Repubblica di Venezia. Come soluzione momentanea, la riduzione di costi è sicuramente una strategia ampiamente adottata (Unione Sovietica, in parte Stati Uniti) ma rischia di precludere ulteriormente le possibilità di sviluppo. E quando un impero non cresce, firma la sua dissoluzione.
In conclusione, quando un impero (o una civiltà) si trasforma in un sistema inefficiente perché incapace di trovare risorse in maniera adeguata a sostenere il proprio sviluppo, la fine diviene cosa molto probabile. La domanda però è la seguente: quale bisogno c’è di continuare a crescere?
Il gene dell’ingozzamento
Se così tante civiltà si sono fatte la guerra e hanno modificato la propria identità per aggiudicarsi nuove risorse, cos’è che ha spinto i primi esseri umani a voler formare gli ancestrali gruppi di cacciatori-raccoglitori?
Se partire dagli Assiri poteva sembrare già affrontare l’argomento da lontano, dobbiamo fare qualche passo indietro di diverse migliaia di anni. Prima che qualunque essere umano, di cui noi siamo a conoscenza, abbia anche solamente pensato di voler costruire un impero, la nostra specie si dedicava a cacciare gli animali e a raccogliere ciò che trovava. Secondo lo storico e filosofo Yuval Noah Harari[6], è proprio dalle abitudini e dallo stile di vita dei nostri iniziali antenati che dobbiamo partire per cercare di comprendere come mai non ci siamo “limitati” a inventare strumenti utili a tutti e a condividerli, quanto piuttosto abbiamo impiegato (e continuiamo a fare) le nostre energie per accaparrarci più risorse rispetto (e spesso volentieri a danno) dei nostri vicini. Benché le opere di Harari abbiano il grande pregio di una trattazione dettagliatamente informata e in sé complessiva, è opportuno valutarne con attenzione la logica di causa-effetto in esse considerata. Infatti, se può essere indubbio che spesso attività o decisioni umane siano il risultato di una specifica volontà causatrice, è altrettanto dimostrabile che le correlazioni, soprattutto quando trattasi di essere umani, non sono analiticamente così immediate da rappresentare. Vale sempre la pena tenere a mente che la storia la fanno gli stati ma anche i singoli individui che, con buona pace di chi sviluppa alcuni modelli economici razionali, possono assumere decisioni anche in base a come ha divinato il sacerdote o come hanno passato la nottata precedente. Forse, è difficile allora leggere la storia umana come un percorso inevitabilmente teleologico, anche se è sicuramente possibile rintracciare alcune traiettorie di lungo o lunghissimo periodo che ci hanno condotto dai commerci di rame nella città di Babilonia fino agli scontri per avere il controllo di particolari rotte marittime o terrestri se non aeree[7].
Lo storico israeliano Harari ricorda ai lettori che le nostre menti sono sostanzialmente quelle dei cacciatori-raccoglitori, antenati che vagavano sul pianeta molto prima che arrivasse la rivoluzione agricola del neolitico e gli allevamenti di animali. I cacciatori-raccoglitori vivevano una vita aspra, estremamente rischiosa e incerta, anche se avevano sviluppato molte capacità fisiche per prevenire le minacce. La loro dieta, come le giornate, era varia ma anche pericolosa. Così, i nostri progenitori svilupparono una sorta di “gene dell’ingozzamento”[8]. Ossia la propensione ad accaparrarsi più risorse possibile quando capita l’occasione, al massimo in condivisione con il proprio ristretto gruppo di appartenenza. I cacciatori-raccoglitori non facevano scorte perché gli spostamenti erano lunghi, difficili, faticosi e frequenti. Però, proprio per evitare di dover soddisfare solo temporaneamente i propri appetiti, gli antenati hanno sviluppato insediamenti, tecnologie per rendere la terra coltivabile e per imbrigliare animali prima allo stato brado. Tutto questo fu possibile anche grazie alla capacità di creare un mondo immaginifico in grado di legare assieme molti più individui (e di contrapporli ad altrettanti altri) e di fornire loro uno scopo comune. Con questa capacità di dare un fine ultimo all’esistenza e di affermare dei principi morali, sostiene Harari, i gruppi di umani iniziarono a cooperare sempre più attivamente per sviluppare tecnologie per rendere più efficiente lo sfruttamento delle risorse a disposizione (come, ad esempio, la costruzione di cisterne per l’incameramento di vivande e acqua o anche utensili per lavorare meglio il legno, la pietra e poi i metalli), oppure per trovare un impiego a nuove risorse.
I punti fondamentali dell’evoluzione umana secondo Harari quindi sono stati:
- Cooperazione e conflitto per accaparrarsi risorse;
- Miglioramento delle tecniche di impiego delle risorse disponibili;
- Sviluppo di nuovi impieghi per le risorse disponibili già utilizzate e ampliamento del ventaglio degli impieghi;
- Sviluppo di nuove tecnologie per lo sfruttamento di risorse mai impiegate (che implica anche un consumo delle risorse già impiegate).
Per ottenere tutto questo e soddisfare la propria necessità di appagare gli appetiti forgiati in millenni di aspra astinenza, solo la creazione di enti superiori poteva fornire la legittimazione morale adeguata.
In un certo senso, l’accaparramento delle risorse è sia una questione fisica che mentale; alla stregua del denaro che ha rivoluzionato il modo di riunirsi in gruppi[9], anche la ricerca del legname, dei cereali, delle pellicce, dell’ambra e del rame è servita a costruire non solo fisicamente le civiltà ma anche a renderle mentalmente possibili. Come il denaro si basa essenzialmente su uno storicamente ancorato rapporto di fiducia globale, così anche le risorse fisiche tramite cui abbiamo dato impulso alle nostre società, hanno avuto successo quando sono diventate indispensabili non solo per un ristretto gruppo di esseri umani ma per molti altri. Pensiamo nuovamente ad una delle più importanti risorse naturali non direttamente legate alla sopravvivenza umana, quindi escludiamo l’acqua per esempio: il petrolio. Se inizialmente poteva riscuotere l’interesse solo delle potenze europee più avanzate e di quelle americane, nel corso di brevissimo tempo è divenuto strategicamente insostituibile per tutta la popolazione mondiale e ha plasmato nuovi modi di fare commercio, di intendere le relazioni internazionali, di valutare politiche pubbliche, di impegnarsi in conflitti armati e così via.
Quindi, proprio queste stesse risorse, così varie e diverse nella storia, hanno finito per plasmare l’essere umano come individuo, come società al suo interno e come società nei rapporti che tiene con le altre.
Ma se questo appetito per le risorse ha caratterizzato l’essere umano fin dalle sue origini, proprio la sua più maestosa e mentalmente complessa organizzazione ha amplificato oltre modo questa fame: l’impero. Gli imperi, grazie alla flessibilità dei loro confini (anche di influenza, non necessariamente di controllo diretto del territorio) e alla capacità di mantenere comunque abbastanza salde le proprie strutture organizzative nel tempo (per quegli imperi che sono sopravvissuti ai loro fondatori), sono i più inclini a fagocitare risorse o a svilupparne di nuove. Naturalmente, pensare che questo sia sempre vero ci indurrebbe in numerosi errori. Ci sono stati imperi della cui esistenza ci ricordiamo a mala pena, altri che territorialmente erano poco estesi in relazione ai loro vicini ma hanno comunque portato all’umanità grandiose scoperte. Infine, sarebbe opportuno chiarire cosa si intende per impero o per potenza egemonica e così via, ma in questa sede è forse più opportuno limitarsi ad affermare che, almeno per quanto concerne il pensiero di Harari, impero è quell’insieme di popolazioni umane anche culturalmente differenti che si sono ritrovate sottoposte ad un’unica autorità centrale investita di un potere decisionale che non riconosceva pari. Insomma, gli imperi sono tendenzialmente ecumenici, mentre tutti gli altri sono al massimo o province ribelli, o barbari ostili o popolazioni da accogliere e finalmente da civilizzare. Proprio per la loro proiezione mentale globale e per, in genere, la vastità di territorio e numero di persone che controllano, gli imperi sono stati i protagonisti nell’accaparramento di risorse. In realtà, anche qui, si potrebbe invece sostenere che il rapporto causa-effetto non è così chiaro: sono gli imperi a fare le risorse o sono le risorse che fanno gli imperi? La res publica romana non è diventata impero con la battaglia del Sentino[10], anche se senza lo spigliato acume militare del console Decio Mure forse non sarebbe mai arrivata a controllare i floridi porti della Siria decenni dopo e a ricavare da queste nuove province risorse fondamentali anche per tutte le altre province. Si potrebbe dire che, senza l’organizzazione imperiale di Roma, molte delle risorse presenti nei territori controllati non avrebbero avuto la stessa rilevanza e sarebbero magari state del tutto marginali per province geograficamente distanti. Quindi, l’importanza delle risorse è data anche dalla logistica, dalla capacità di farle circolare in sicurezza e rapidamente, dalla possibilità di sviluppare nuove tecnologie e dal saperle impiegare. Tutte cose che un piccolo villaggio non può fare.
Proprio il susseguirsi degli imperi ha permesso di accumulare grandi risorse nel corso della storia, di far circolare merci, denaro e conoscenza, di strutturare una visione di lungo periodo che travalicasse le generazioni e si ispirasse al raggiungimento, millenaristico, di un fine ultimo di grandezza, prosperità e pace. Proprio gli imperi sono stati promotori, a costi umani elevatissimi, dello sviluppo mondiale. Nel concreto, per esempio, pensiamo alla coltivazione estensiva di tè in india, introdotta e voluta dall’Impero britannico.
Nonostante i sogni di universalità, nessun impero nella storia è mai riuscito a resistere all’infinito nel tempo, né a creare un unico ordine mondiale. Tuttavia, forse proprio gli anglosassoni di cui sopra, sono quelli che ci sono andati più vicini di tutti e forse, non a caso, prima l’Impero inglese ha raggiunto il record di estensione territoriale e poi quello statunitense sotto molti altri aspetti ha eguagliato e superato la patria d’origine. Una visione di lungo periodo sorretta dalla concretezza dell’economia, dei commerci e delle risorse naturali a disposizione. E quando queste risorse non erano disponibili o quando se ne scoprivano di nuove, proprio gli imperi o le potenze con vocazione egemonica hanno usato la guerra per migliorare la propria tecnologia, quindi per ottimizzare lo sfruttamento di risorse già esistenti, per trovarne di nuove o per potersi accaparrare quelle degli altri. Che la guerra e in generale l’apparato militare produca qualche effetto positivo per l’economia non è affatto così scontato: Fabio degli Espositi, in un capitolo all’interno del libro “Le Guerre in un mondo globale”, a cura di Tommaso Detti[11], ricorda le parole dell’economista Adam Smith, padre del libero mercato, il quale accusava esplicitamente i militari di essere attori improduttivi dell’economia. E molti altri hanno sottolineato l’idea che la guerra portasse ad un inevitabile catastrofe economica anche per i vincitori. Eppure, ci è tristemente noto come la guerra nella sua devastante atrocità abbia degli effetti propulsivi impressionanti sul piano tecnologico. Tanto è che, sempre ricorda degli Espositi, Norman Angel a inizio Novecento[12], sosteneva che la guerra non fosse altro che una maschera atta a celare gli istinti predatori degli stati, ancor più vero se intesi come aggregazioni di esseri umani, e quindi legati ad atavici istinti di lotta, predominio, spoliazione dell’altro e quindi ottenimento di vantaggi tutti e del tutto a scapito del vinto. Sembra quindi inevitabile riprendere il concetto sul gene dell’ingozzamento già discusso nelle pagine precedenti e sull’istinto degli antenati cacciatori-raccoglitori di fagocitare tutto ciò che fosse possibile perché, in fin dei conti, del doman non v’è certezza.
Ma gli esseri umani non sono solo lupi famelici solitari. Lo dimostra, se non altro, l’esistenza stessa degli stati, degli imperi, delle dinamiche di cooperazione ben illustrate nel corso di decenni dalla teoria dei giochi. E uno dei campi in cui l’essere umano ha ritenuto fosse più proficuo collaborare è quello scientifico, della ricerca e dell’accademia. Se non altro perché gli affari industriali sono detenuti dai privati mentre la ricerca, che è anche grandi costi, grandi rischi e frequenti fallimenti, è principalmente una spesa pubblica, che si avvale non solo dei finanziamenti ma anche della buona volontà dei ricercatori e di tutto coloro i quali ritengono giusto mettere a disposizione del progresso le proprie capacità ed il proprio tempo. La caratteristica fondamentale della scienza contemporanea è la falsificabilità delle sue asserzioni, come già definita da Karl Popper: per ottenere tale falsificabilità, le idee devono essere fatte circolare e poter essere analizzate nonché riprodotte da altri totalmente estranei, sebbene riconosciuti come competenti.
Un mondo finito
Tralasciando la possibilità di un’eventuale catastrofe globale dovuta ai conflitti armati, la nostra specie vive una crisi generale e sistemica senza precedenti nella storia, come illustra la letteratura di cui riporterò dei riferimenti in seguito. Ma non si può escludere che da una crisi possano emergere anche delle opportunità ed in particolare che la fame degli stati li induca a sfruttare tale opportunità a proprio vantaggio.
Escluso l’Armageddon, la minaccia che avrebbe conseguenze analoghe è quella del disastro ambientale globale. le condizioni ambientali in cui l’essere umano vivrà in futuro saranno molto peggiori di quanto prospettato fino ad adesso[13]. Il genere umano sta direttamente causando una rapida perdita di biodiversità, inficiando sulle capacità del pianeta Terra di sostenere sistemi di vita complessi[14],[15],[16]. Le prospettive più fosche sul futuro – in talune ricerche addirittura atre – si legano direttamente all’attività umana, che nel 2020 ha prodotto una quantità di massa complessiva sul Pianeta superiore alla biomassa vivente[17], alterandone quindi gli equilibri di molti ecosistemi. In buona sostanza vi è un’unica causa diretta a questo fenomeno inevitabilmente distruttivo: l’aumento senza precedenti della popolazione umana. La moltiplicazione di essere umani nel mondo a partire dagli ultimi tre-quattro decenni del secolo scorso ha implicato una serie di gravi crisi dovute alla distribuzione di cibo, alla disponibilità di risorse energetiche e alla perdita di biodiversità[18]. Ma una conseguenza ancora più evidente dell’aumento di popolazione che determina l’arretramento degli habitat naturali, è l’esplodere di epidemie e pandemie[19]. E quale è una conseguenza non inattesa quando si verificano al contempo: diseguaglianze nella distribuzione di risorse, incapacità nel mantenere promesse di benessere (attenzione: non che questo sia già necessariamente accaduto) e scoppio di epidemie? L’arrivo di una stagione di profonda instabilità politica. A livello interno degli stati può condurre a rivolte, colpi di stato o rivoluzioni. Sul versante esterno: a conflitti armati. È talmente evidente sul piano storico, che ogni stupore sarebbe incomprensibile. Per gli stati significa, soprattutto, intensificare la corsa alle risorse, sempre più scarse e quindi sempre più ambite[20]. L’aumento di popolazione, quindi, è la variabile determinante per comprendere il mondo d’oggi sotto molti aspetti. Anche gli imperi antichi dovevano affrontare talvolta analoghi problemi e infatti, presto o tardi, sono crollati tutti. Si noti, inoltre, che in letteratura vi è chi traccia una diretta relazione fra l’aumento della popolazione ed il manifestarsi di conflitti sociali interni[21], che possono diventare esterni dal momento in cui la distribuzione di cibo, dipendente dalla disponibilità di fonti fossili, è messa a rischio da strutture di potere e controllo internazionale predatorie[22]. Il che, in realtà, è abbastanza comprensibile: perché mai un potente paese straniero dovrebbe rinunciare al proprio controllo su delle risorse energetiche a favore di un paese più povero che rischia di “saltare in aria” da un momento all’altro? In buona sostanza questa domanda ci pare ragionevole perché consideriamo i benefici di breve (o medio) periodo preferibili a quelli di lungo. Cioè: “meglio un uovo oggi che una gallina domani”. Questo ragionamento è così innato ormai nel nostro modo di approcciare il mondo e le sfide, perché, per buona parte della sua storia, come abbiamo già raccontato nelle pagine precedenti, l’essere umano si è ingegnato in infiniti modi per far coesistere due tendenze inconciliabili: quella allo sviluppo e progresso e quella allo sfruttamento delle risorse[23]. Ciò che potrebbe spingere la nostra specie a confidare nel futuro e a sopire quell’istinto di farsi la guerra per le risorse che andranno sempre più a scarseggiare, è un possibile “bias dell’ottimismo”, che indurrebbe a sottovalutare l’arrivo di una catastrofe fino a quando effettivamente non si manifesta. Il problema è che, se sei messo in guardia dall’arrivo di una catastrofe, anche se tu la ignori, qualcun altro potrebbe prenderla molto sul serio[24][25]. In un’altra riflessione avevo provato ad esprimere lo stesso concetto: puoi non occuparti della storia ma questa si occuperà di te.
Ipotizziamo che vi siano due paesi (A e B) in competizione e un terzo paese (C), molto più debole ma ricco di una risorsa naturale fondamentale tanto per A quanto per B. Ciascuno dei tre paesi agisce avendo chiaramente in testa che ogni azione determina dei benefici nel breve periodo ma degli svantaggi nel lungo e viceversa. La differenza è che quelli di lungo periodo avranno ricadute negative per tutti e saranno irrimediabili mentre rinunciare ad un vantaggio di breve, avrà risultati negativi per il solo paese. La volontà di A e di B è quella di primeggiare. C, invece, intende rendersi indispensabile il più possibile e non ha particolari predilezioni per A o per B che possano condizionarlo. A complicare le cose, è proprio la risorsa in possesso di C ad aumentare le probabilità e la portata della catastrofe.
A si rende conto che la catastrofe può arrivare ma tutto sommato non vuole rinunciare a certi vantaggi di breve periodo e ha già buoni rapporti con C. Assume delle contromisure essenzialmente interne e marginali perché si aspetta che in un modo o nell’altro la situazione si risolverà. Il paese B non può rinunciare a vantaggi di breve periodo perché la sua popolazione è in crescita e il suo ordine politico può essere assediato da A e da fazioni interne. Allo stesso tempo, però, è assolutamente certo che la catastrofe ci sarà e sarà di portata assolutamente devastante. B è in una situazione complicata ma ha una carta fondamentale da giocarsi: essendo un paese con una popolazione e una produttività potenziale in crescita, può investire su C e fare la seguente scommessa: quando A avrà perso alcuni dei suoi vantaggi di breve periodo, senza aver prevenuto l’arrivo della catastrofe, le risorse rimaste in possesso di C saranno mie perché, non rinunciando nel breve periodo, ho aumentato la mia disponibilità a finanziare C. A è migliore di B da un certo punto di vista, perché ha deciso di provare a fare qualcosa ma la sua mancanza di convinzione non produce risultati. B è cinico e consapevole ma se la catastrofe non ci dovesse essere si troverebbe con una popolazione ancora più numerosa e non per forza con più risorse di A. Rischierebbe il collasso interno e l’inasprimento dei rapporti con A. C non ha alcun vantaggio a prendere misure interne per limitare la propria ricchezza perché, rispetto agli altri ha molto meno da perdere. Quindi, qualora le risorse di C fossero sufficienti solo per A o solo per B o comunque fossero percepite in questo modo, le uniche vie sarebbero:
- Comprare l’assoluta lealtà di C;
- Arrivare ad un conflitto armato fra A e B per il controllo di C, oppure direttamente fra A e B.
Prima di arrivare ad un conflitto, è comunque possibile che A e B provino a sviluppare tecnologie internamente per utilizzare in maniera più efficiente le risorse, rischiando sia di incorrere nel Paradosso di Jevons,[26] sia di sprecare inutilmente preziose risorse.
Comunque, le scelte compiute sarebbero al massimo un fugace palliativo ma non eviterebbero in alcun modo il verificarsi di eventi catastrofici. Anzi, a queste condizioni non ci sarebbe proprio modo.
In poche parole, se gene dell’ingozzamento e bias dell’ottimismo si assommano, la fine comune è certa.
È un esempio molto semplificato di cosa può voler dire avere poche risorse a disposizione e non sapere se veramente saranno sufficienti per mantenere un livello di sviluppo che possa condurre ad uno stato di sicurezza. Cercherò di calare più nel pratico nell’esempio precedente: la pandemia di Covid-19 ha mostrato come l’avanzamento tecnologico raggiunto dalla nostra specie non è stato immediatamente efficace contro questo pericolo mortale. E soprattutto, ha evidenziato tutte le difficoltà a prevenire e prevedere eventi di tale portata. Però, proprio la risposta comunque rapida alla minaccia del virus è stata in gran parte dovuta al coalizzarsi degli apparati scientifici e di ricerca in tutto il mondo, rintracciando, fra le altre, la genesi di molte epidemie (come ebola per esempio) nell’interferenza dell’essere umano con il resto dell’ecosistema naturale. Questa interferenza si è manifestatala, in particolare, con il crescente ed intensificato ruolo dell’agricoltura, l’espansione – anche incontrollata – dell’urbanizzazione e l’inquinamento. Questi sono stati fattori determinanti per la distruzione delle foreste e degli ambienti naturali[27]. Una delle evidenze che sono emerse proprio nella frenetica quanto grandiosa ricerca durante la pandemia è che molte di queste risorse naturali su cui l’essere umano, nel corso della sua civilizzazione, ha provocato danni, sono, invece straordinariamente ricche di proprietà benefiche per la salute umana[28]. Questo ha dato impulso a ricercare anche nuove tecnologie che potessero efficientarne l’utilizzo[29],[30],[31].
Stando così le cose, la sfida principale a cui tutta la nostra specie è chiamata a trovare una soluzione, è la capacità di sopravvivere al suo stesso sviluppo. L’essere umano si è abituato a vivere in sistemi biologici artificiali, ossia sostanzialmente condizionati dall’attività umana ma che sono anche caratterizzati da una inevitabile insostenibilità nel lungo periodo.
“Artificial biological systems and processes differ from natural biological systems and processes in one commonly neglected but crucial aspect: the artificial ones lack sustainability and persistence”[32].
Se gli animali di grossa taglia consumano circa l’1% delle risorse disponibili, non essendo in gran parte in grado di trasformarle, l’essere umano ha decretato la propria fortuna come specie assolutamente dominante, proprio grazie allo sviluppo di utensili e tecnologie con cui poter sfruttare percentuali crescenti di risorse. Ma il grande salto di qualità, che ha definitivamente scavato un solco profondissimo fra genere umano e ambiente circostante, è molto recente. Infatti, sono solo pochi secoli che la nostra specie ha scoperto un utilizzo efficiente dei combustibili fossili e li ha posti alla base di ogni sua attività. Proprio grazie alla capacità di sfruttare questo tipo di risorse, in brevissimo tempo, la specie umana ha potuto svilupparsi, mentre consumava parte della biosfera e degli ecosistemi[33]. La degradazione di ecosistemi è stata ed è così generalizzata che alcuni scienziati sottolineano la quasi impossibilità di potervi porre rimedio. Una distruzione, che, come nell’esempio dei tre paesi (A, B e C), condurrà potenzialmente a crescenti e più aspri conflitti per risorse preziose e vitali come l’acqua potabile o le foreste[34],[35]. Che ci sia una guerra per le foreste è difficile a dirsi, in quanto non sono risorse concentrate in una regione ma che ci si possa spiare per conoscere lo stato di avanzamento della conoscenza di un paese riguardo le proprietà degli alberi o come rendere potabile acqua stagnante, è invece assai più plausibile. Infatti, come già anticipato, il fenomeno che più verosimilmente si manifesta quando si è prossimi alla frontiera della disponibilità di risorse, è la frenetica rincorsa alla migliore tecnologia possibile.
Dopo aver visto come la storia umana sia stata caratterizzata da una perenne lotta per le risorse e le tecnologie, aver discusso alcune teorie sulla caduta delle civiltà antiche in analogia a sistemi fisici inefficienti e aver cercato di comprendere i motivi antropologici, se non biologici, che spingono l’essere umano a lottare per la supremazia, questo paragrafo ci ha posto di fronte ad una gravissima considerazione: la corsa umana alle risorse ha finito per provocare immensi danni all’ecosistema e portato la nostra specie a vivere in un ambiente ormai quasi del tutto contaminato dall’essere umano stesso. Un sistema globale caratterizzato da una inedita e profondissima possibile inefficienza. A rischio non ci sarebbero quindi le singole civiltà, stati o imperi, ma la specie stessa nel suo insieme: l’impero planetario dell’Uomo. Tuttavia, proprio sia il gene dell’ingozzamento che il bias dell’ottimismo rendono difficile ipotizzare una vera cooperazione internazionale, quanto piuttosto invece sembrerebbero indicare un’intensificazione di conflitti e di attività di spionaggio. Soprattutto quest’ultimo potrebbe prendere di mira le università, i centri di ricerca e i poli dove si sviluppano nuove tecnologie o nuove risorse.
Academic espionage: un nodo gordiano
Negli ultimi anni, la preoccupazione di essere spiati nelle università o nei centri di ricerca pare sensibilmente cresciuta. Vale la pena ricordare, anche solo in via incidentale, che oltre ai centri di ricerca pubblici e alle università, tutti i soggetti innovativi possono essere facili target di spionaggio (non necessariamente quello condotto dalle intelligence degli stati) economico e scientifico.
L’academic espionage è un fenomeno abbastanza recente[36] se paragonato al resto delle forme di spionaggio come quella militare o commerciale. Il motivo è abbastanza semplice: fino a che non si sono sviluppate e approfondite forme di tutela della proprietà intellettuale e fino a quando non si è promossa l’apertura del sistema universitario era difficile sostenere cosa fosse spionaggio (se non c’è proprietà, non ci può essere appropriazione indebita) e anche quantificarne l’entità poteva risolversi in mera speculazione. Infatti, solo con la Guerra Fredda e una circolazione più massiva di menti, la minaccia è andata concretizzandosi (comunque nel corso degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso). L’evoluzione, almeno negli Stati Uniti, della normativa sullo spionaggio accademico ha seguito e spesso è derivata da quella sul commercio. Dal momento in cui un paese intraprende attività di spionaggio non tradizionali come quelle di infiltrare studenti nei campus e nei laboratori universitari, è abbastanza pacifico che intenda accaparrarsi segreti e idee che possono avere un diretto sviluppo industriale e che abbiano, quindi, un valore economico significativo. Per inciso: potrebbe non essere affatto necessario spiare cosa viene studiato nelle università se si promuove l’acquisto di start up innovative o spin off anche in early stage, sufficientemente corredate da business plan. Anzitutto, vi sarebbe un grande vantaggio: avere già la dimostrazione che un’idea non è soltanto una ricerca da laboratorio ma può avere uno sviluppo di mercato, se non altro perché almeno i fondatori ci hanno già scommesso. Ha un potenziale svantaggio: se il paese di origine della start up o spin off ha un buon sistema di tutela e valorizzazione del proprio know how, renderebbe difficile delocalizzare questo genere di attività. Con amaro sorriso, sembra che non ci siano molti motivi per i vari paesi ostili all’occidente di temere questa seconda evenienza.
Proprio il connubio nonché la coesistenza nello stesso spazio fisico, come i campus, di start up innovative, spin off universitari e centri di ricerca e università, può essere il principale target di queste attività di spionaggio. La cronaca ci riporta diversi casi ultimamente che hanno messo in luce soprattutto la tensione crescente fra Cina e Stati Uniti, nonché fra la Russia e altri Paesi occidentali.
Inoltre, l’attenzione dei paesi occidentali si è proprio focalizzata su Cina, Russia (senza dimenticare Iran e Corea del Nord) in concomitanza di alcuni eventi storici di portata ben più ampia, che hanno riacceso le diffidenze reciproche:
- L’annessione della penisola di Crimea allo stato della Federazione Russa (marzo 2014);
- La sconfitta militare dell’ISIS in Siria (fine marzo 2019);
- L’elezione al terzo mandato per Xi Jiping in Cina (ottobre 2022);
- La pandemia di Covid 19.
Alcuni casi di cronaca
La trama dei casi che di seguito sono brevemente riportati è abbastanza comune a tutti: si tratta di personale impiegato o studenti di origine cinese che per anni hanno svolto senza ostacoli il proprio lavoro o ricerche negli atenei occidentali, fin quando non è arrivata una stretta generalizzata e praticamente contestuale in America del nord ed Europa. Dovendo fare una selezione, ho optato per alcuni degli accadimenti forse più noti e che servissero anche a mettere in luce l’estrema difficoltà da parte degli investigatori nel determinare effettivamente se si trattasse di spionaggio oppure no. Ad esempio, in Texas, nel 2020, un professore di origini cinesi è stato accusato di aver passato ad Huawei[37] alcuni segreti industriali di una start up della Silicon Valley mentre il governo degli Stati Uniti e soprattutto l’FBI denunciavano, già da alcuni anni, molti casi di utilizzo da parte del governo cinese di cittadini presenti in territorio straniero e soprattutto coinvolti in attività di Ricerca o di Sviluppo per ottenere informazioni sensibili. Il confine fra ciò che è segreto industriale o imprenditoriale e ciò che è rilevante per un Paese può essere molto sottile quando si parla di nuove tecnologie o di nuovi materiali. Secondo le agenzie di intelligence, proprio queste attività di spionaggio condotte da docenti, studenti, lavoratori e altri cittadini cinesi in suolo statunitense, causano una perdita economica di oltre mezzo miliardo di dollari l’anno al governo di Washington.
Simile per certi versi al caso avvenuto in Texas, è quello di Ruopeng Liu, promessa dell’high tech cinese che ha potuto studiare alla Duke’s University in un progetto non celatamente sostenuto dalle forze armate statunitensi e ha quindi fatto fortuna in Cina producendo un materiale che rende invisibile ai segnali delle microonde. Un caso chiuso senza sufficienti prove per dimostrare che vi sia stato un furto di proprietà intellettuale ma che sicuramente lascia numerosi sospetti, considerato anche il rapporto personale e di stima che il giovane imprenditore cinese era riuscito a costruire con il capo ricerca, il Prof. David Smith. Sempre a titolo di cronaca e per inquadrare la complessità del fenomeno, restando negli Stati Uniti, altro caso particolare se non altro perché denso di una certa potenzialità narrativa è quella di Edward Peng, agente segreto cinese operante come tour operator per gli studenti cinesi a San Francisco, laureato in ingegneria e poi scoperto grazie ad un altro agente “doppiogiochista”.
Una lunga, dettagliata e scorrevole storia raccontata dal The New Yorker descrive ampiamente la vicenda del Professor Tao, docente dell’Università del Kansas, affiliato anche ad un’università cinese (cosa che, come ben sa chi ha dimestichezza con le pubblicazioni scientifiche, viene sempre dichiarata dall’autore) da tempo e in maniera palese. Il docente si è trovato ad essere il primo obiettivo dell’operazione di counter-intelligence mirata sulla “minaccia cinese” voluta dall’Amministrazione Trump. Una vicenda rocambolesca, che include vendette personali, mancanza di prove, totale lacuna della conoscenza di come funziona il mondo accademico da parte delle autorità di investigazione statunitensi, permeata da una fortissima ideologia, addirittura senza rendersi conto che alcuni documenti che avrebbero dimostrato un’intenzione del professore di ritornare in Cina (un contratto mai firmato con l’università) non erano altro che una “lista del molibdeno”[38] in chiave contemporanea. La stessa difficoltà che può incontrare il mondo politico ad interfacciarsi con quello accademico può ritrovarsi anche qualora siano gli investigatori di polizia a trovarsi nella stessa situazione. Collaborazioni part-time con molte università in giro per il mondo, connessioni e scambi di opinioni, idee, calcoli e statistiche con colleghi di un altro ateneo, eventualmente anche i non leciti tentativi di scoprire l’identità dei peer-reviewer sono pratiche che chiunque del settore confermerebbe essere comuni (eccetto l’ultima, si spera) e svolte anche ingenuamente.
Si ricava ancora dalla lettura del The New Yorker che le agenzie governative che si occupano di finanziare la ricerca sono soggetti ancora più facili da colpire rispetto alle università. Quindi, compiendo un semplice sforzo logico, verrebbe da dire che: più sono i soggetti coinvolti in questo genere di attività e più questi soggetti sono liberi da vincoli nei confronti del proprio paese, più facile potrebbe essere per un altro stato compiere attività ostili o di infiltrazione. Insomma, per certi versi è più rischioso che ci siano stuoli di attori intermedi con professionalità di consulenza sulla raccolta di fondi e sulla presentazione di bandi piuttosto che scambi di articoli o di ricerche fra scienziati che lavorano per università di paesi differenti.
Il caso, comunque, più risonante di tutti è stato quello del Prof. Charles Lieber, a capo del Dipartimento di chimica e biologia di Harvard. L’influente accademico è stato accusato di aver preso indebitamente emolumenti economici da istituzioni cinesi, al fine di passare loro preziose ricerche e conoscenze sviluppate in patria. Tanto da essere divenuto anche uno “strategic scientist” all’Università di Wuhan. Il caso è particolarmente interessante non solo per l’alto livello e la reputazione del Direttore del dipartimento di Harvard, ma anche perché si trattava di un cittadino americano, il quale per anni aveva intrattenuto rapporti con la Cina.
La difficoltà di monitorare, controllare e impedire certi comportamenti è quanto mai evidente. Come anche quella di poter definire con precisione quali informazioni, ricerche, progetti ricoprono un ruolo strategico. Su questo punto si sono espressi i rettori di varie università statunitensi, fra cui anche Yale, chiedendo proprio delle indicazioni chiare e certe su come comportarsi.
Ancora prima di occuparsi degli studenti e dei ricercatori, negli Stati Uniti l’attenzione era stata rivolta verso gli Istituti Confuciani presenti in gran numero all’interno dei campus universitari (come anche in Italia) e formalmente adibiti alla diffusione della cultura e della lingua cinese (fra l’altro dal nome privi di ancoraggio all’ideologia comunista quanto invece alla precedente storia imperiale). Da qui, la preoccupazione che servano a fornire un’immagine pubblica meno critica della Cina e ad influenzare l’opinione dei cittadini occidentale in favore di una distensione delle relazioni. Un timore tanto elevato da indurre il Pentagono a bloccare dal 2024 ogni finanziamento destinato ad Università che ospitano uno di questi centri:
“The Confucius Institute has satellite locations on scores of U.S. university campuses, but the new guidelines say that from 2024 forward, no American college or university with a Confucius Institute presence can receive Pentagon research money without a detailed waiver.”
Non bisogna quindi pensare che questo tipo di minacce sia stato preso sul serio solo negli Stati Uniti. Anche la storia del Prof. Tao incrociava altri due Paesi, oltre a Stati Uniti e Cina. Uno di questi due era l’Australia. Proprio Canberra ha deciso recentemente di avviare alcune procedure a tutela del proprio asset scientifico, tecnologico ed accademico. L’Australia ha raccomandato anche una certa premura nelle conversazioni internazionali dei propri ricercatori per quanto riguarda commenti e giudizi sull’andamento degli investimenti pubblici a riguardo. Anche il Regno Unito ha di molte volte aumentato il proprio sforzo per far fronte alla minaccia di studenti cinesi operanti come spie del governo di Pechino per appropriarsi delle nuove scoperte in suolo britannico inerenti, principalmente, all’Intelligenza Artificiale e ad altre applicazioni militari. Le preoccupazioni britanniche derivano anche dal fatto che una parte significativa delle rette degli studenti cinesi per l’istruzione post-universitaria è sostenuta dal governo di Pechino stesso. Il tema è divenuto tanto saliente in Gran Bretagna, che è intervenuto pubblicamente anche il Direttore Generale dell’MI5[39] Ken McCallum recentemente. Risulta abbastanza immediato concludere che, se da una parte per la Cina ogni suo cittadino è tenuto a collaborare con il governo della madre patria anche quando all’estero e che, se addirittura paga i suoi studi, può anche ragionevolmente richiedere che vengano passate informazioni sensibili o segrete se in suo possesso.
Anche il Giappone nel 2020 è intervenuto per proteggere, non senza critiche al suo interno, il know how insegnato nelle università. Poco dopo, anche la Finlandia si è trovata a mettere sotto osservazione un suo programma di double degree con un’università cinese. Nel 2022, invece, l’Università di Helsinki ha chiuso il suo contratto con l’Istituto Confuciano presente, accusato di svolgere azioni di soft power in favore di Pechino, nonché vere e proprie attività di spionaggio. Era stata già preceduta da Belgio, Svezia, Danimarca e Norvegia. Limitatamente a questa misura, in controtendenza, parrebbe invece muoversi l’Italia. Nel corso del 2022, in Norvegia vi è stato un caso di spionaggio accademico riguardante l’Iran. Anche il Canada, altro paese incidentalmente legato alla vicenda del Prof. Tao, ha avviato, dai tempi della pandemia da Covid 19, alcune soluzioni per proteggere le proprie università ed in particolare le ricerche riguardanti l’Intelligenza Artificiale, su cui i servizi di intelligence di Ottawa avevano enfatizzato l’interesse sia russo che cinese. Proprio sulle riaperture post pandemia, mette in guardia un altro articolo, che chiarisce come con la ripresa dei corsi i college e le università statunitensi avrebbero dovuto prestare particolare attenzione proprio alla presenza degli studenti cinesi.
Mentre, un altro caso avvenuto in Svizzera, dove la tensione fra il non offendere Washington e non inimicarsi Pechino è salita negli ultimi tempi, permette di datare l’inizio di queste serie di crescenti preoccupazioni a circa il 2014-2015. Soluzioni non sistematiche sono state assunte anche da università in Germania, Olanda e Danimarca. In Olanda, l’attenzione a questo tema ha avuto particolare risonanza, evidenziando anche i rischi di uno spionaggio cyber diretto verso i dispositivi elettronici utilizzati da ricercatori e studenti. La Germania ha messo in guardia le aziende più innovative sui pericoli di spionaggio che potrebbero essere messi in atto da agenti cinesi. Uno dei casi più celebri risale al 2015 quando un dipendente di origine cinese stava, secondo l’intelligence di Berlino, cercando di copiare la tecnologia dell’azienda per cui lavorava al fine di farne un brevetto in Cina. Un celebre caso di spionaggio avvenuto intorno ad un’università, si è avuto anche in Italia nel 2019, riguardante l’investigazione sulle presunte vicinanze fra Donald Trump e il governo di Mosca.
Se fino ad ora, i casi riportati riguardano paesi non alleati, varrebbe sempre la pena tenere a mente che anche fra alleati di lunga data ci sono casi di spionaggio.
Le poche certezze di questo spionaggio
L’informazione principale che si ricava dal paragrafo precedente è che ad essere oggetto di attenzione sono le facoltà STEM[40]. Secondo il QS World University Rankings by Subject 2023: Engineering & Technology[41] fra le prime venti università al mondo per qualità delle facoltà STEM: ben nove sono statunitensi, tre del Regno Unito, due sono svizzere, due di Singapore, una cinese, una giapponese, una olandese e al diciottesimo posto il Politecnico di Milano. Stando, invece, al ranking stabilito da Research.com, si confermano nove su venti (e nelle prime posizioni) le università degli Stati Uniti, al quarto posto una danese, ben cinque cinesi, una del Regno Unito, una olandese, due di Singapore e infine un’università svizzera. Questa volta, il Politecnico di Milano si trova al trentacinquesimo posto.
Appare evidente come anche solo prestando attenzione alle prime venti università, compaiono quasi tutti i paesi che abbiamo citato fino ad ora, con una nettissima preponderanza degli Stati Uniti.
Un altro dato che può essere utile per questo ragionamento è invece l’ammontare in termini assoluti di spesa pubblica in ricerca per i paesi già menzionati[42]. Al primo posto si trovano ancora gli Stati Uniti, che, tuttavia, in relazione al PIL spendono meno della Cina, posizionata appena sotto e seguiti dal Giappone, che in percentuale è ancora più alto. Il Regno Unito è invece all’ottava posizione ma per trovare un altro dei paesi citati bisogna scendere al dodicesimo, ricoperto dall’Italia. L’Olanda al diciassettesimo, mentre sia Svizzera che Singapore oltre il ventesimo. La Danimarca al ventinovesimo. Quindi, in tutti questi Paesi è evidente che l’attenzione verso la ricerca, lo sviluppo tecnologico e la scienza sia assolutamente preponderante e questi pochi numeri chiariscono il perché di tanti sforzi di spionaggio proprio in questi paesi.
Dai casi illustrati in precedenza, si può anche ricavare quanto sia difficile e complesso per dei paesi così abituati a investire sulla ricerca, promuovere delle politiche di chiusura. Quello che viene particolarmente alla luce, anche dalle poche parole spese sull’esito di alcune inchieste è proprio il difficile bilanciamento fra tutela della sicurezza nazionale, piena comprensione dei meccanismi di funzionamento del mondo accademico, reazioni non sempre proporzionate alla minaccia e infine, il rischio di far fuggire talenti invece che di attrarli, come messo in evidenza dal The New York Times. Il conflitto fra la libera circolazione delle conoscenze tecniche e scientifiche per il progresso umano nella sua globalità e gli interessi di aziende e stati, proprio negli Stati Uniti, aveva già trovato due interpreti di grande rilievo e comunque con idee differenti: se Benjamin Franklin sicuramente poteva dirsi precursore di una scienza aperta intesa in senso contemporaneo, Alexander Hamilton aveva ricercato, tramite un compenso monetario, chiunque portasse al di là dell’oceano i segreti industriali britannici per il settore tessile. Da un lato la vocazione all’apertura e alla condivisione, dall’altro la lettura del mondo come teatro di scontro più che di pace.
Quindi, se le università e gli altri attori collegati (spin off, start up, laboratori) sono diventati così centrali è perché il sistema è andato aprendosi nel corso dei decenni e gli investimenti sono aumentati. Tuttavia, bisogna tenere in considerazione il fatto che sono anche la strada obbligata per provare ad accaparrarsi certe tecnologie, dal momento che il settore privato che investe in Ricerca e Sviluppo ha già da tempo messo in atto sistemi di protezione all’avanguardia.
“As the private sector becomes more difficult for Chinese intelligence to operate in with impunity, college campuses have become more attractive as another avenue for obtaining critical data.”[43]
Proprio per la differenza che esiste fra un’azienda e un’università, le contromisure a tutela di quest’ultime possono veramente essere efficaci?
Secondo alcuni, in certi casi, la scienza è diventata così internazionale o alcuni Paesi hanno e stanno fornendo fra le migliori menti in specifici campi che quello dell’essere spiati può diventare un rischio sopportabile. Infatti, alla stregua di un’attività imprenditoriale, anche uno stato dovrebbe sempre valutare costi-benefici, potenzialità e rischi futuri di ogni decisione che assume. Se da un lato, allontanare studenti e ricercatori cinesi dai settori STEM può ridurre il rischio di essere spiati, quanto è probabile che la Cina risponda aumentando le capacità di impiego di quelle stesse menti in patria? Oppure che altri paesi si promuovano per sostituire gli Stati Uniti in questo genere di accoglienza? E, in definitiva, quanto know how attuale e potenziale perderebbero gli Stati Uniti? Per non parlare di un possibile effetto snowball che potrebbe indurre un allontanamento non solo dei cinesi ma anche di altre nazionalità. Allo stesso tempo, non è chiaramente accettabile che con i propri fondi federali si stia foraggiando in realtà l’avanzamento tecnologico dell’esercito di Pechino, minaccia possibile agli interessi diretti di Washington. Inoltre, se da misure di controspionaggio si passa a “più politiche” cacce alle streghe, il rischio è quello di un aumento dell’intolleranza verso taluni cittadini con tratti somatici differenti. Un allarme proprio di questo genere è stato lanciato sulla rivista Nature da alcune università statunitensi.
E ancora, cosa si dovrebbe sperare di recuperare da un’università? Appropriarsi di un segreto industriale può generare un grande vantaggio competitivo perché si tratta di qualcosa che ha già un valore di mercato, che è stato testato più e più volte e su cui sono stati probabilmente basati molti business plan. Infatti, una considerazione da tenere in debito conto è l’applicabilità di una teoria scientifica o di un’idea. Non tutte e, anzi ben poche, ricerche possono effettivamente trovare spazio a livello industriale e se non lo trovano a livello industriale è difficile che possano avere un impatto sulla sicurezza o sulla crescita di un paese. Il presupposto per avere un interesse industriale anzitutto è la fattibilità oltre la scala di laboratorio: mai scontata! In secondo luogo, è la convenienza rispetto allo stato dell’arte, cioè: quanto questa idea applicabile oltre la scala di laboratorio migliora o è più efficiente rispetto a quelle già in uso. Va da sé che anche questo requisito è quanto mai difficile da raggiungere. E infine, sempre per mantenersi su di un lato molto teorico, vi sono la replicabilità e la scalabilità. Ossia:
- questa idea di tecnologia è pronta per essere usata non solo in laboratorio;
- è più conveniente rispetto a quello che già viene usato o migliora sostanzialmente lo stato attuale;
- può essere replicato per un numero di volte sufficiente (ad esempio: una nuova tecnologia di raffinazione del petrolio che può essere introdotta in tutti i siti del Nord America) e, all’occorrenza, può essere portata ad avere una capienza opportunamente elevata senza modifiche sostanziali o senza comprometterne il funzionamento.
Nella storia dell’umanità, anche pensandoci a lungo, sono relativamente poche, se comparate a tutte le ricerche svolte o le idee proposte, quelle che hanno dimostrato di avere tutti questi requisiti, senza considerare, comunque quello forse più rilevante: l’interesse di mercato.
Ma è così facile appropriarsi delle tecnologie e delle ricerche altrui? La domanda sorgerebbe spontanea e la risposta seguirebbe con altrettanta naturalezza ma in realtà le cose sono più complicate. In un articolo di analisi sulle reali capacità della Cina di eguagliare gli Stati Uniti in quanto ad avanzamento tecnologico militare[44], gli autori pongono l’accento in particolare sulla crescente complessità delle tecnologie militari, che sono il risultato di un lavoro decennale, multidisciplinare e soggetto a un percorso accidentato di errori e conferme. Appropriarsi di un’intera tecnologia sofisticata, come quella di alcuni aerei da guerra, è quindi una sfida enorme che passerebbe non soltanto dall’avere un progetto ma anche dal poter riuscire a svolgere reverse engineering e comunque ad avere a disposizione una serie di altre condizioni (come la possibilità di recuperare tutti i componenti), niente affatto scontate. Questa complessità si è alzata nel tempo, generando enormi barriere per i paesi che si fossero voluti accaparrare le tecnologie altrui. Anche senza scendere nei dettagli, replicare un cannone del XIX secolo non è la stessa cosa di un drone con sopra sistemi di intelligenza artificiale. Quindi, per gli autori, sebbene il tentativo di copiare e di appropriarsi delle tecnologie altrui, per non parlare di quelle emergenti, sia sempre reale, la sua efficacia è molto ridimensionata rispetto a qualche decennio fa.
Certamente non esistono solo tecnologie militari e si potrebbe trovare conveniente, bilanciandolo coi rischi di essere scoperti, appropriarsi di una sola parte di questo sistema. Tuttavia, anche in questo caso, non è scontato che un software sia così facile da sottrarre e che si sappia poi come impiegarlo efficacemente. Lo stesso discorso vale per i nuovi materiali, le tecnologie di estrazione e così via. Quindi o esistono tecnologie così complesse e immediatamente applicabili a livello militare o per un giro d’affari elevatissimo la cui protezione deriva direttamente dall’immane complessità che è servita per svilupparle, oppure ogni avanzamento tecnologico può essere suscettibile di essere sottratto. Difficile avere sufficienti argomenti per dare una risposta definitiva però non sfugge totalmente che certe volte possa, eventualmente, anche trattarsi di una decisione politica quella di lanciare un allarme su rischi non meglio definiti e quantificati. Questo non diminuisce le probabilità che eventi di spionaggio accademico e non solo avvengano e mirino ad appropriarsi di innovazioni e sviluppi tecnologici potenzialmente strategici. Ritornando, poi, sul punto delle contromisure: non sembra così facilmente applicabile né l’esclusione totale di personale straniero dagli enti di ricerca (gli studenti di nazionalità cinese sono il 16% di tutti i laureati STEM negli Stati Uniti) né l’impedimento a ricercatori, docenti o start up di recarsi in Cina o altrove per inseguire migliori condizioni economiche, se presenti, o semplicemente proprie inclinazioni personali. In realtà, delle misure a riguardo esistono e sono legate all’ottenimento di determinati fondi pubblici statali ma di certo non sono in grado di coprire tutti i possibili casi.
Quindi, quello di prevenire lo spionaggio accademico sembra essere uno di quei casi in cui le contromisure rischiano di far peggio invece che diminuire i danni. Allo stesso tempo, è opinione dei vari governi doverne assumere e, come abbiamo visto, anche con celerità. D’altra parte, anche chi vuole spiare si può trovare in difficoltà: cosa merita davvero di correre il rischio, quante risorse si possono impiegare per qualcosa che potrebbe non avere valore? Secondo l’intelligence britannica, la Cina avrebbe trovato una soluzione a questo problema, ricorrendo a “rendere spie” anche involontarie molti dei suoi cittadini all’estero. Alla fine, un nodo gordiano o lo si scoglie con un colpo di spada o lo si lascia inestricabilmente intrecciato.
Le nuove risorse?
La crescita di popolazione produce come risultato quasi inevitabile un crescente ammontare di produzione alimentare e quindi di scarti, sottoprodotti e rifiuti. Non solo le foreste, ma anche frutta e verdura, responsabili dell’evoluzione umana in quanto hanno prevenuto per millenni la mortalità causata da molte malattie, contengono molti composti chimici direttamente impiegabili a livello industriale[45]. Sebbene siano già state messe in atto molteplici iniziative, le tecnologie abilitanti che permettono la valorizzazione di questi composti (per citarne alcuni: flavonoidi, carotenoidi, pectina, zuccheri e olii) non sono completamente e ancora pienamente sviluppate. Questi composti, una volta estratti ed eventualmente processati, possono essere utilizzati nel settore agroalimentare, cosmetico, farmaceutico e in molti altri[46],[47],[48]. Negli ultimi anni[49], l’economia circolare ha acquisito crescente importanza, anche nell’ottica di recuperare nuove risorse dalle matrici vegetali: segnatamente frutta e verdura, ma anche altre parti delle piante. Fra I vantaggi che si possono ottenere da questi prodotti e dalle loro lavorazioni vi sono, per esempio, polimeri multifunzionali e adattabili sia a scopi umani che nell’industria chimica e farmaceutica[50]. Il settore alimentare presenta molte ed allettanti opportunità, anche dall’enorme quantità di scarti che produce, ma il grande problema risiede nell’avere le tecnologie adatte ad estrarre questi composti, e ancora prima a stoccare le materie e quindi a distribuire gli output. L’interesse crescente legato a come impiegare queste matrici vegetali, per esempio: cipolle, arance, limoni, manghi e così via, è legato direttamente all’aumento della popolazione mondiale e alla necessità di trovare efficienti e sufficienti risorse per tutti. La tendenza verso l’economia circolare risponde sia all’inevitabilità di trovare nuove risorse, sia all’esigenza di ridurre gli effetti dovuti all’impiego dei combustibili fossili, molto impattanti sui processi di produzione alimentare.
“Reducing pollution by extracting bioactive components from discarded fruits and vegetables parts/waste, to replace manufactured antioxidants is critical for environmental protection and sustainable management of this waste.[51]”
Possiamo immaginare che, se il paese B del nostro esempio precedente, avesse delle tecnologie in grado di recuperare la preziosa risorsa di C ricorrendo ai propri crescenti scarti alimentari (ricordiamoci che B è il paese con la popolazione in crescita), potrebbe avere la chance di ritardare il suo conflitto con A senza comunque rinunciare ad investire in C. A, tuttavia, è potenzialmente il paese con le migliori tecnologie e potrebbe usare il proprio know-how per sviluppare questo tipo di tecnologia per primo e financo esportarlo in C. A e B sarebbero tentati di spiarsi a vicenda per capire su quali tecnologie stiano lavorando.
Alcune considerazioni sul prossimo futuro
In questa riflessione, sono partito da un libro in particolare: quello del Prof. Giraudo su come le guerre per le materie prime e le varie risorse abbiano condizionato la storia dell’essere umano fin dai suoi albori. Nonostante questi sforzi bellici, nessuna grande civiltà è riuscita a sopravvivere alla sua complessità. Secondo alcune teorie, infatti, il crollo degli imperi è da imputare sostanzialmente al grado di inefficienza che raggiungono ad un certo punto della loro storia, divenendo incapaci di recuperare risorse in quantità e modalità sostenibili. Tuttavia, prima di giungere ad un livello di inefficienza tale che il crollo sia inevitabile, l’essere umano si è spinto a ricercare nuove tecnologie che potessero salvare la situazione. Ma perché questa corsa alle risorse e perché nonostante la memoria di così tante civiltà crollate, l’essere umano mostra avere un carattere famelico verso nuove risorse? Ci sono forse motivazioni antropologiche e genetiche che hanno spinto i cacciatori-raccoglitori a formare dei gruppi più stabili per aggiudicarsi maggiori risorse e imporsi sugli altri. Altre motivazioni psicologiche sembrano indurre l’essere umano a immaginare una crescita senza limiti e soprattutto a sottovalutare le conseguenze della sua crescita. Proprio questa tendenza alla crescita ha però causato un consumo crescente e globalizzato delle risorse di ogni genere. Questa spoliazione di materie prime e risorse ha condotto ad un disastro ambientale dalle prospettive mai state così fosche. L’eco-sistema ambientale così colpito dall’attività umana sembra essersi trasformato in un sistema globalmente inefficiente, in cui i rischi di collasso diventano comuni a tutti i paesi. Prima di giungere al collasso, la storia ci mostra però come l’essere umano abbia sempre cercato una via d’uscita tramite l’innovazione tecnologica. Scienza e innovazione tecnologica sono diventati sempre più temi salienti nel corso del XIX secolo, partendo già dalla rivoluzione industriale. Proprio il secolo scorso ha comunque decretato la vera fortuna della scienza e delle università, che hanno costruito la loro reputazione e la loro autorevolezza anche grazie alla creazione di network internazionali fra menti e competenze.
Proprio il grave stato di penuria di risorse e la concentrazione di tecnologie nuove idee nelle università, accompagnato da una generale facilità di accesso grazie proprio alla loro apertura internazionale, possono indurre a pensare che la competizione fra gli stati si sposti nella direzione di un reciproco monitoraggio (e spionaggio) accademico. Capire questo fenomeno (academic espionage), quantificarlo e addirittura prevenirlo presenta comunque sfide di non poco conto, col rischio principale che ogni misura di chiusura delle università verso l’estero si trasformi in un’arma a doppio taglio.
Infine, considerando proprio la questione della crescita della popolazione come una delle situazioni più rilevanti che causano danno all’eco-sistema (intensificando quell’inefficienza di cui già discusso), si può comunque cercare di capire quali saranno le risorse su cui l’attenzione dei paesi potrebbe concentrarsi e quindi anche su quali università, ricerche o persone, le varie intelligence potrebbero rivolgersi.
L’aumento della popolazione implica in primissima battuta un aumento della produzione alimentare, il che significa anche un incremento di sottoprodotti e sprechi. Proprio queste matrici vegetali però hanno proprietà che, se valorizzate possono portare benefici in moltissimi settori. I problemi sono almeno tre:
- avere le materie prime, disponibili e concentrate
- avere tecnologie adatte;
- saper impiegare le proprietà di queste materie una volta lavorate con le tecnologie adatte.
Sugli ultimi due punti intervengono proprio le università e gli altri soggetti della ricerca e dell’innovazione.
Per punti:
- l’essere umano tende a volersi espandere per motivi genetici ed individuali. Quando può, lo fa a scapito di altri ma non rinuncia del tutto a collaborare con propri simili per ottenere maggiori vantaggi;
- imperi e civiltà si sono forgiate nella storia cercando di accumulare risorse e inventando nuovi modi per valorizzarle e sostenere la loro espansione. Ci sono dei limiti fisici oltre cui l’espansione di un sistema artificiale sembra impossibile;
- la rivoluzione industriale e i combustibili fossili hanno dato un inedito impulso al progresso umano, condizionando però negativamente la biosfera e rendendo molto fosche le prospettive di sopravvivenza dell’intera specie nel futuro. L’inefficienza è passata da essere un attributo di singoli sistemi umani a poter essere generalizzata al sistema del pianeta stesso;
- prima di arrivare ad un collasso, comunque l’essere umano tende a voler trovare una via d’uscita tramite l’innovazione tecnologica. Non essendo portati a cooperare, i paesi potrebbero preferire spiarsi a vicenda nelle università e appropriarsi del know-how degli altri;
- per il motivo di cui sopra, l’academic espionage parrebbe essere un fenomeno destinato ad intensificarsi nel prossimo futuro ma anche a concentrarsi su ricerche, idee e tecnologie incentrare su alcuni esempi ben specifici di risorse. Fra queste, forse, anche quelle derivate dalla sovrapproduzione alimentare o dalle sue inefficienze di filiera.
Con un sorriso, potremmo concludere così: la mela proibita, in fin dei conti, è forse una mela vera e propria.
Note
[1] A. Giraudo, Quando il ferro costava più dell’oro. Storie per capire l’economia mondiale. Add Editore, Torino, 2023.
[2] Bologna M. & Aquino G., Deforestation and world population sustainability: a quantitative analysis, Scientific Reports (2020) 10:7631 https://doi.org/10.1038/s41598-020-63657-6.
[3] Falsini S. e Perissi I.,Toward a General Theory of Societal Collapse: A Biophysical Examination of Tainter’s Model of the Diminishing Returns of Complexity Ugo Bardi1 · Received: 12 November 2018 / Accepted: 14 December 2018 © Springer Nature Switzerland AG 2019
[4] The collapse of complex societies, Cambridge University Press, Cambridge, 1988
[5] Perissi, I.; Lavacchi, A.; Bardi, U. The Role of Energy Return on Energy Invested (EROEI) in Complex Adaptive Systems. Energies 2021, 14, 8411. https://doi.org/ 10.3390/en14248411.
[6] Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità. Nuova ediz., trad. Giuseppe Bernardi, I grandi Tascabili, Bombiani 2017.
[7] Forbes, per citarne una, ha pubblicato un articolo in cui viene suggerito ai marketers di ispirarsi ad alcune strategie dell’imperatore babilonese Nabucodonosor per battere la concorrenza: Mattew Capala, What Marketers Can Learn From The Ancient Babylonians, Fobes.it 22 mar 2019.
[8] Sono numerosi gli articoli accademici pubblicati che evidenziano come la tendenza a preferire cibi molto calorici oppure a fare scorte di calorie sia direttamente legata alla genetica dell’individuo. Ad, esempio: Meng, T., Kubow, S. & Nielsen, D.E. Common variants in the CD36 gene are associated with dietary fat intake, high-fat food consumption and serum triglycerides in a cohort of Quebec adults. Int J Obes 45, 1193–1202 (2021). https://doi.org/10.1038/s41366-021-00766-w. Tuttavia, altri studi si focalizzano su aspetti più sociali o individuali come l’ambiente (French SA, Story M, Jeffery RW. Environmental influences on eating and physical activity. Annu Rev Public Health. 2001;22:309–35), le tradizionali alimentari, la psicologia dell’individuo.
[9] Harari, Sapiens, pp. 217-236.
[10] 295 AC, combattuta sulle rive del fiume Sentino nelle attuali Marche ha decretato la supremazia di Roma su Sanniti ed Etruschi, e benché fondamentale per la sicurezza dell’Urbe non è stato quel tassello decisivo per diventare la prima potenza anche economica. Invece, la conquista della ricchissima Cartagine, dei porti e delle miniere iberiche, del Nord-Africa e del Medio Oriente ha permesso a Roma di imporsi per molti secoli come potenza incontrastata su almeno una parte rilevante di tre continenti e poi di ascendere a mito eterno di grandezza e invincibilità per i millenni a venire.
[11] Le guerre in un mondo globale, a cura di Tommaso Detti. SISSCO – Società Italiana per lo Studio della Storia contemporanea. Collana: I libri di Viella, 236. Pubblicazione: Gennaio 2017.
[12] Riferimento a The Great Illusion, 1909
[13] Bradshaw CJA, Ehrlich PR, Beattie A, Ceballos G, Crist E, Diamond J, Dirzo R, Ehrlich AH, Harte J, Harte ME, Pyke G, Raven PH, Ripple WJ, Saltré F, Turnbull C, Wackernagel M and Blumstein DT (2021) Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future. Front. Conserv. Sci. 1:615419. doi: 10.3389/fcosc.2020.615419.
[14] Ceballos, G., Ehrlich, P. R., and Dirzo, R. (2017). Biological annihilation via the ongoing sixth mass extinction signaled by vertebrate population losses and declines. Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. 114, E6089–E6096. doi: 10.1073/pnas.1704949114
[15] WWF (2020). Living Planet Report 2020. Gland: WWF.
[16] IPBES (2019). Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services. Paris: IPBES Secretariat
[17] Elhacham, E., Ben-Uri, L., Grozovski, J., Bar-On, Y. M., and Milo, R. (2020). Global human-made mass exceeds all living biomass. Nature 588, 442–444. doi: 10.1038/s41586-020-3010-5
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[21] Acemoglu, D., Fergusson, L., and Johnson, S. (2017). “Population and civil war,” in National Bureau of Economic Research Working Paper Series Working Paper No. 23322 (Cambridge, MA), 1–49. doi: 10.3386/w23322
[22] Ehrlich, P. R., and Harte, J. (2015b). To feed the world in 2050 will require a global revolution. Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. 112, 14743–14744. doi: 10.1073/pnas.1519841112
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[27] Guégan, J.F., Ayouba, A., Cappelle, J., De Thoisy, B.: Forests and emerging infectious diseases: unleashing the beast within. Environ. Res. Lett. 15, 83007 (2020).
[28] Yang, R., Liu, H., Bai, C., Wang, Y., Zhang, X., Guo, R., Wu, S., Wang, J., Leung, E., Chang, H., Li, P., Liu, T., Wang, Y.: Chemical composition and pharmacological mechanism of Qingfei Paidu Decoction and Ma Xing Shi Gan Decoction against Coronavirus Disease 2019 (COVID-19): in silico and experimental study. Pharmacol. Res. 157, 104820 (2020). https:// doi.org/10.1016/j.phrs.2020.104820.
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[30] Carpenter, J., Badve, M., Rajoriya, S., George, S., Saharan, V.K., Pandit, A.B.: Hydrodynamic cavitation: an emerging technology for the intensification of various chemical and physical processes in a chemical process industry. Rev. Chem. Eng. 33, 433–468 (2017). https://doi.org/10.1515/revce-2016-0032
[31] Yusaf, T., Al-Juboori, R.A.: Alternative methods of microorganism disruption for agricultural applications. Appl. Energy. 114, 909–923 (2014). https://doi. org/10.1016/j.apenergy.2013.08.085.
[32] Makarieva Anastassia M., Natural Ecosystems and Earth’s Habitability: Attempting a Cross-Disciplinary Synthesis pag. 144
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[36] Erin N. Grubbs, Academic Espionage: Striking the Balance Between Open and Collaborative Universities and Protecting National Security, 20 N.C. J.L. & TECH. 235 (2019). Available at: https://scholarship.law.unc.edu/ncjolt/vol20/iss5/7
[37] La multinazionale cinese dell’elettronica, spesso oggetto di accuse di connivenza con il Governo di Pechino.
[38] Espressione qui usata per chiarire che, come fece il Governo italiano con quello nazista poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, anche il Prof. può aver effettivamente avanzato delle richieste all’università cinese motivandole come necessarie ma, celando, in realtà l’intento di renderne impossibile l’esaudimento. Quindi, tirarsi fuori elegantemente da una situazione quanto meno scivolosa.
[39] Servizio di intelligence interno.
[40] Acronimo dall’inglese per indicare: science, technology, engineering and mathematics.
[41] Il ranking e il numero di università osservate sono stati scelti all’unico fine di avere una rappresentazione di massima della situazione, senza discuterne i dettagli e il metodo.
[42] OECD, dati al 2022: https://data.oecd.org/rd/gross-domestic-spending-on-r-d.htm.
[43] https://www.thecipherbrief.com/column_article/china-focuses-espionage-on-u-s-colleges-and-universities.
[44] Gilli A. e Gilli M., International Security, Vol. 43, No. 3 (Winter 2018/19), pp. 141–189, https://doi.org/10.1162/ISEC_a_00337
[45] Shivali S. Gaharwar, Vijay N. Mohakar and Anupama K.,, Fruit and Vegetable Waste Utilization and Sustainability. DOI: https://doi.org/10.1016/B978-0-323-91743-8.00002-2 CHAPTER 13
[46] Ben-Othman, S., Jo˜udu, I., & Bhat, R. (2020). Bioactives from agri-food wastes: Present insights and future challenges. Molecules (Basel, Switzerland), 25(3).
[47] Mastrorilli, M., Garofalo., Torres, A. F., Xu, X., Nikiforidis, C. V., Bitter, J. H., & Trindade, L. M. (2019). Exploring the treasure of plant molecules with integrated biorefineries. Frontiers in Plant Science, 10, 478. Available from https://doi.org/10.3389/fpls.2019.00478
[48] Putnik, P., Bursac Kova ´ cevi ˇ c, D., Re ´ zek Jambrak, A., Barba, F. J., Cravotto, G., Binello, A., Lorenzo, J. M., & Shpigelman, A. (2017). Innovative ˇ “green” and novel strategies for the extraction of bioactive added value compounds from citrus wastes — A review. Molecules, 22(5), 680. Available from https://doi.org/10.3390/molecules22050680
[49] Awad M. Hassan, Microfoundations of the waste-to-resource problem in circular economy transitions: Antenarratives of phosphorus in Dutch agribusiness (2008–2014)
[50] Messinese E., Pitirollo O., Grimaldi M., Mlanese D., Sciancalepore C., Cavazza A., By‑Products as Sustainable Source of Bioactive Compounds for Potential Application in the Field of Food and New Materials for Packaging Development.
[51] Shivali S. Gaharwar, Vijay N. Mohakar and Anupama Kumar, pag. 265.
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