Introduzione
Si ritiene che la Repubblica di Platone abbia dato la prima e più influente formulazione filosofica della divisione tra la ragione e le passioni: Platone si riferisce loro con i termini pathe o pathêmata.
Nella Repubblica le passioni sono ciò che contraddistingue la parte irrazionale dell’anima, il cui tratto distintivo è l’inferiorità e la necessità di mantenerla sotto il controllo della ragione. Platone precisa inoltre che ogni parte non razionale è denominata per la sua peculiare passione, la parte concupiscibile (epithumêtikon) per l’appetito (epithumia) e la parte vigorosa (thumoeides) per la collera (thumos).
Eppure, nella Repubblica, sorge una difficoltà che non concerne tanto la divisione tra parte concupiscibile e collerica dell’anima quanto il fatto che Platone assegna anche alla parte razionale dell’anima, che dovrebbe contrastare quella irrazionale, passioni come desideri, piaceri ed eros.
Non sarebbe dunque da rintracciare nella Repubblica una distinzione matura tra ragione e passioni. Tale distinzione è rintracciabile in contesti differenti dalla Repubblica, vale a dire nel Simposio, nel Fedro e nel Timeo, fermo restando che le teorie espresse nei dialoghi menzionati rappresentano un naturale sviluppo o elaborazione di quanto espresso nella Repubblica per quanto riguarda desideri, piaceri ed emozioni della parte irrazionale dell’anima.
[1] Eros
Per comprendere gli scritti di Platone dedicati al problema dell’Eros, è necessario collocarsi su un piano diverso da quello moderno. In primo luogo, secondo Platone, la fruizione del Bello non ha luogo mediante l’arte, ossia in quelle dimensioni che tutt’oggi rientrano nel campo dell’estetica.
Nella Repubblica, la pittura e le varie forme di poesia sono imitazioni di imitazioni, che si collocano a tre distanze dal vero e quindi non sono affatto utili per permettere di scoprire il Bello il quale consisterà nell’armonia, nell’ordine, nella giusta misura, ossia nella struttura dell’essere che rivelerà così il Bene. In secondo luogo, Platone connette la questione del Bello con l’Eros, in particolare con l’arte dell’amare in modo filosofico.
Uno dei caratteri più rivoluzionari dell’Eros platonico consiste nella sua figura di un demone e non di un dio. Perché Platone presenta Eros come un demone e non come un dio?
Poiché Eros è una forza intermedia tra divino e umano, forza che porta alla ricerca dell’immortale.
Un gran demone, o Socrate: infatti tutto ciò che è demonico è intermedio tra dio e mortale. […] Ha il potere di interpretare e di portare agli dèi le cose che vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli dèi: degli uomini le preghiere e i sacrifici, degli dèi, invece, i comandi e le ricompense dei sacrifici. E, stando in mezzo fra gli uni e gli altri, opera un completamento, in modo che il tutto sia ben collegato con se medesimo.[1]
Tale concetto di Eros, ossia quello di demone mediatore, è illustrato nel Simposio mediante una metafora che presenta per immagini i genitori, il momento, il modo e il luogo di nascita di tale demone.
Dunque, in quanto Eros è figlio di Penia e Poros, gli è toccato un destino di questo tipo. Prima di tutto è povero sempre ed è tutt’altro che bello e delicato, come ritengono i più. Invece, è duro e ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra senza coperte e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada e, perché ha la natura della madre, sempre accompagnato con povertà. Per ciò che riceve dal padre, invece, egli è insidiatore dei belli e dei buoni, è coraggioso, audace, impetuoso, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato di saggezza, pieno di risorse, ricercatore di sapienza per tutta la vita, straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista. E per sua natura non è né mortale né immortale, ma, in uno stesso giorno, talora fiorisce e vive, quando riesce nei suoi espedienti, talora, invece, muore, ma poi torna in vita, a causa della natura del padre. E ciò che si procura gli sfugge sempre di mano, sicché Eros non è mai né povero di ricorse né ricco.[2]
In primo luogo, Eros è forza dinamica, mediatrice degli opposti; è un impulso che senza posa spinge all’ulteriore. In secondo luogo, il concetto di Eros come intermedio lega e unifica gli estremi opposti, ossia il divenire e l’eterno, il mortale e l’immortale.
Platone ritiene che la radice della conoscenza sia fornita dall’anamnesi, ossia da un ricordo delle Idee, che, prima di nascere nei corpi, l’anima aveva contemplato nell’Iperuranio. Proprio tale dottrina risulta maggiormente convincente, se posta in stretta connessione con l’Eros. La dottrina dell’anamnesi è stata presentata da Platone in duplice maniera: una mitica (credenze orfico-pitagoriche della metempsicosi) e una dialettica (presente nel Menone mediante esperimento maieutico). Noi conosciamo mediante l’esperienza sensibile cose uguali, quadrate o circolari, che però non sono mai perfettamente tali. Eppure noi abbiamo conoscenze dell’uguale perfetto, del quadrato perfetto e del circolo perfetto. Tali conoscenze non possono derivare dall’esperienza sensoriale, ma dal di dentro di noi. L’uomo, nel conoscere, trova dunque nell’anima certe verità e quindi le ricorda. Medesimo ragionamento vale non solamente per le verità matematiche, ma anche per il giusto, il santo, il bello e per tutto ciò che trascende l’ambito sensibile.
Nel Fedro Platone riprende la dottrina della reminiscenza collegandola con il procedimento della sinossi della dialettica e con l’erotica.
Bisogna, infatti, che l’uomo comprenda in funzione di quella che è chiamata Idea, procedendo da una molteplicità di sensazioni a un’unità colta con il pensiero. E questa è reminiscenza di quelle cose che un tempo la nostra anima ha visto, quando procedeva al seguito di un dio e guardava dall’alto le cose che diciamo che sono essere, alzando la testa verso quello che è veramente essere.[3]
L’anamnesi è sollecitata soprattutto da Eros che dà nuovamente le ali all’anima, facendola tornare all’Iperuranio. Eros ha tale funzione, poiché è strutturalmente legato alla Bellezza e proprio la Bellezza ha avuto una sorte privilegiata, vale a dire quella di essere una manifestazione dell’Intelligibile nel sensibile.
Ma, il ricordarsi di questi esseri, procedendo dalle cose di quaggiù, non è cosa facile per tutte le anime: non per quelle che videro con breve sguardo le realtà di lassù, non per quelle che, cadute, quaggiù, ebbero la cattiva sorte, e trascinate all’ingiustizia da cattive compagnie, caddero nell’oblio di quelle realtà sacre che videro allora. Restano poche anime nelle quali è presente il ricordo in maniera sufficiente. Queste, quando vedono qualcosa che sia un’immagine delle realtà di lassù, restano colpite e non rimangono più in sé. Però non sanno che cosa sia quello che provano, perché non lo percepiscono perfettamente. Ora, della giustizia, della temperanza e di tutte quante le altre cose che hanno valore per le anime, nessun fulgore è presente nelle immagini di quaggiù. Ma solo pochi, mediante gli organi oscuri, avvicinandosi alle copie, a mala pena vedono l’originario modello che è riprodotto in quelle copie. Invece, allora, la Bellezza si vedeva nel suo splendore, in un coro felice avevamo una beata visione e contemplazione, mentre noi eravamo al seguito di Zeus e altri erano al seguito di un altro degli dèi e ci iniziavamo a quell’iniziazione che è giusto dire la più beata, che celebravamo, essendo integri e non toccati dai mali che ci avrebbero aspettato nel tempo che doveva venire, contemplando nella iniziazione misterica visioni integre, semplici, immutabili e beate, in una pura luce, essendo anche noi puri e non tumulati in questo sepolcro che ora ci portiamo appresso che chiamiamo corpo, imprigionati in esso come l’ostrica. Tutto questo sia detto, dunque, in omaggio al ricordo in virtù del quale, per il desiderio che abbiamo delle cose di allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Per quanto riguarda la Bellezza, poi, come abbiamo detto, splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo. Infatti, la vista, per noi, è la più acuta delle sensazioni, che riceviamo mediante il corpo. Ma con essa non si vede la Saggezza, perché, giungendo alla vista susciterebbe terribili amori, se offrisse una qualche chiara immagine di sé, né si vedono tutte le altre realtà che sono degne d’amore. Ora, invece, solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile.[4]
Tale narrazione mitico-poetica rientra nel grande discorso di Socrate sull’amore presente nel Fedro, secondo cui Eros dà nuovamente le ali. Tornando alla connotazione di Eros quale intermedio, esso s’identifica con il filosofo. Difatti, gli dèi sono sapienti e non possono essere quindi filosofi, in quanto il filosofo è sempre in cerca di sapienza. Tuttavia, non esercitano la filosofia anche gli ignoranti, in quanto sono convinti di non averne alcun bisogno.
Nessuno degli dèi fa filosofia, né desidera diventare sapiente, dal momento che lo è già. E chiunque altro sia sapiente, non filosofa. Ma neppure gli ignoranti fanno filosofia, né desiderano diventare sapienti. Infatti, l’ignoranza ha proprio questo di penoso: chi non è né bello né buono né saggio, ritiene invece di esserlo in modo convincente. E, in effetti, colui che non ritiene di essere bisognoso, non desidera ciò di cui non ritiene di aver bisogno. […] Ormai è chiaro anche a un bambino che sono quelli che stanno in mezzo fra gli uni e gli altri, e uno di questi è appunto Eros. Infatti, la sapienza è una delle cose più belle ed Eros è amore per il bello. Perciò è necessario che Eros sia filosofo e, in quanto è filosofo, che sia intermedio fra il sapiente e l’ignorante.[5]
Lo stesso concetto è espresso da Platone nel Fedro, dove Eros è presentato come l’altra faccia della vera filosofia.
Questa passione, o bel ragazzo al quale si rivolge il mio discorso, gli uomini chiamano Eros, mentre gli dèi la chiamano in un modo che, non appena lo avrai udito, verosimilmente, a causa della tua giovinezza, ti metterai a ridere.[… ] I mortali lo chiamano Eros alato / gli immortali lo chiamano invece Pteros, perché fa / crescere le ali.[6]
La figura di Eros porta alla visione e alla fruizione del Bello assoluto; inoltre, tale via erotica corrisponde alla stessa via della dialettica mediante i procedimenti sinottici. Il primo gradino di questa scala consiste nell’amore per la bellezza che è nei corpi, non il piacere legato al sesso quanto la ricerca di quell’emozione che produce la visione della bellezza. Mediante l’amore della bellezza che è nei corpi dei giovani belli bisogna far nascere in loro la virtù. Tuttavia, l’uomo è la sua anima: pertanto, la vera bellezza non è quella del suo corpo, ma quella della sua anima. Mediante questo rapporto con la bellezza dell’anima, nascono, nella dimensione dell’Eros, quei discorsi capaci di far crescere i giovani nella virtù. Il terzo gradino è quello della bellezza delle attività e delle leggi umane. Proprio su questo gradino, si collocano quelle creazioni belle che Licurgo lasciò a Sparta e Solone ad Atene. E questa bellezza consiste nell’armonia e nella giusta misura che produce la virtù, in particolare la giustizia e la temperanza che rendono gli Stati ben ordinati. Il quarto grado consiste nella scienza e nella bellezza che è loro propria. Il quinto e supremo grado coincide con la visione del Bello, ossia con quel momento in cui il Bello si manifesta in se stesso.
Che cosa, dunque, noi dovremmo pensare, se a uno capitasse di vedere il Bello in sé assoluto, puro, non mescolato, non affatto contaminato da carni umane e da colori e da altre piccolezze mortali, ma potesse contemplare come forma unica lo stesso Bello divino? O forse tu ritieni che sarebbe una vita che vale poco quella di un uomo che guardasse là e che contemplasse quel Bello con ciò con cui si deve contemplare e rimanesse unito a esso? Non pensi piuttosto che, qui, guardando la bellezza solamente con ciò con cui è visibile, costui partorirà non già pure immagini di virtù, dal momento che non si accosta a una pura immagine di bello, ma partorirà virtù vere, dal momento che si accosta al Bello vero? E non credi che, generando e coltivando virtù vera, sarà caro agli dèi, e sarà, se mai lo fu un altro uomo, egli pure immortale?[7]
La salita mediante la scala di Eros al Bello assoluto coincide con la salita della dialettica, che parte dalle cose sensibili per giungere alle Forme e, passando proprio attraverso le scienze matematiche, giunge alla visione del Bene.
La figura di Eros porta alla visione e alla fruizione del Bello assoluto; inoltre, tale via erotica corrisponde alla stessa via della dialettica mediante i procedimenti sinottici. Il primo gradino di questa scala consiste nell’amore per la bellezza che è nei corpi, non il piacere legato al sesso quanto la ricerca di quell’emozione che produce la visione della bellezza. Mediante l’amore della bellezza che è nei corpi dei giovani belli bisogna far nascere in loro la virtù. Tuttavia, l’uomo è la sua anima: pertanto, la vera bellezza non è quella del suo corpo, ma quella della sua anima. Mediante questo rapporto con la bellezza dell’anima, nascono, nella dimensione dell’Eros, quei discorsi capaci di far crescere i giovani nella virtù. Il terzo gradino è quello della bellezza delle attività e delle leggi umane. Proprio su questo gradino, si collocano quelle creazioni belle che Licurgo lasciò a Sparta e Solone ad Atene. E questa bellezza consiste nell’armonia e nella giusta misura che produce la virtù, in particolare la giustizia e la temperanza che rendono gli Stati ben ordinati. Il quarto grado consiste nella scienza e nella bellezza che è loro propria. Il quinto e supremo grado coincide con la visione del Bello, ossia con quel momento in cui il Bello si manifesta in se stesso.
Che cosa, dunque, noi dovremmo pensare, se a uno capitasse di vedere il Bello in sé assoluto, puro, non mescolato, non affatto contaminato da carni umane e da colori e da altre piccolezze mortali, ma potesse contemplare come forma unica lo stesso Bello divino? O forse tu ritieni che sarebbe una vita che vale poco quella di un uomo che guardasse là e che contemplasse quel Bello con ciò con cui si deve contemplare e rimanesse unito a esso? Non pensi piuttosto che, qui, guardando la bellezza solamente con ciò con cui è visibile, costui partorirà non già pure immagini di virtù, dal momento che non si accosta a una pura immagine di bello, ma partorirà virtù vere, dal momento che si accosta al Bello vero? E non credi che, generando e coltivando virtù vera, sarà caro agli dèi, e sarà, se mai lo fu un altro uomo, egli pure immortale?[8]
La salita mediante la scala di Eros al Bello assoluto coincide con la salita della dialettica, che parte dalle cose sensibili per giungere alle Forme e, passando proprio attraverso le scienze matematiche, giunge alla visione del Bene.
[2] La tripartizione dell’anima nella Repubblica e la questione della giustizia
Per indicare la natura dell’anima tripartita, Platone, nella Repubblica, la esprime per metafora, in maniera emblematica, per risolvere un problema etico di fondo. Al termine del Libro IX, dopo aver concluso le sue analisi sul tema della giustizia, il filosofo ateniese ribadisce il concetto di vizio come malattia dell’anima e il concetto di virtù come salute dell’anima: il bene consiste nel mettere la parte animalesca al servizio della ragione che è la parte che rispecchia il vero uomo, mentre il male consiste nel diventare schiavi della parte concupiscibile dell’anima. Per illustrare tale concetto, Platone costruisce in forma di immagini un modello di anima. Di quest’ultima ci sono tre forme: quella concupiscibile, quella irascibile e quella razionale. La prima è rappresentata come mostro dalle molte teste di bestie domestiche e feroci; quella irascibile è rappresentata nella forma di un leone; la terza nella forma di un uomo. Se si unificano le tre immagini, l’anima apparirà nella forma di un solo uomo che però, in realtà, include in sé anche quella della belva dalle molte teste e quella del leone. Il compito dell’uomo vero non può che essere quello di domare la belva e il leone e renderle concordi con sé e fra di loro in funzione della ragione.
«Plasmiamo con le parole un’immagine dell’anima, affinché chi diceva questo si renda conto delle sue affermazioni».
«Quale immagine?», domandò.
«Una simile agli antichi mostri della mitologia», risposi: «la Chimera, Scilla, Cerbero e vari altri esseri che, a quanto si narra, erano costituiti da molte forme riunite in un unico corpo».
«In effetti si racconta questo», disse.
«Plasma dunque un mostro composito, con tutto intorno molte teste di animali domestici e selvaggi, capace di mutare aspetto e generare tutte queste forme da se stesso».
«Quest’opera richiede un artista straordinario!», esclamò.
«Tuttavia, dato che la parola è più malleabile della cera e delle altre materie di questo tipo, plasmiamolo!».
«Poi modella la forma di un leone e di un uomo; la prima però sia molto più grande di queste due, e quella del leone venga per seconda».
«Questo è più facile», disse: «eccotele plasmate».
«Ora attaccale tutte e tre assieme, in modo che siano connesse l’una all’altra». «Sono connesse», rispose.
«Ricoprile dall’esterno di una sola immagine, quella umana: così a chi non può vedere l’interno, ma scorge solo l’involucro esterno, appariranno come un unico essere, un uomo appunto».
«Eccoti modellato l’involucro», disse.
«Ora, se uno afferma che a quest’uomo conviene essere ingiusto e non gli serve agire secondo giustizia, rispondiamogli che ciò equivale a dire che gli conviene pascere e rendere forte il mostro multiforme assieme al leone e al suo seguito, e per contro far morire di fame e indebolire l’uomo al punto che si lasci trascinare dovunque lo conduca l’una o l’altra delle due fiere, senza abituare queste nature alla convivenza e all’amicizia reciproca, ma lasciando che si mordano, si combattano e si divorino a vicenda».
«Chi lodasse l’ingiustizia», disse, «sosterrebbe proprio questo».
«Chi invece sostenesse l’utilità della giustizia, non affermerebbe che bisogna agire e parlare in modo che l’uomo interiore abbia la massima padronanza dell’essere umano, sorvegli la bestia dalle molte teste, così come un contadino coltiva con amore le piante domestiche e impedisce che crescano quelle selvatiche, e garantendosi l’alleanza con la natura del leone abbia cura di allevare tutte le nature insieme e di renderle amiche l’una dell’altra e di se stesso?» «Chi loda la giustizia afferma senz’altro questo».”[8]
Proprio nell’ottica di quanto si è detto sin qui, Platone, in riferimento alla virtù della giustizia, sostiene che è la virtù suprema che sintetizza tutte le altre. Uno Stato giusto è quello in cui ciascuna classe e ciascun individuo svolge in modo adeguato il proprio compito, e solo quello, senza porre mano ai compiti altrui. Analogamente, un uomo giusto è quello che fa in modo che ciascuna parte della propria anima svolga le funzioni che le competono in armonia con le altre, con giusto equilibrio e giusta misura, e quindi cercando di realizzare in modo adeguato l’unità nella molteplicità.
«Per la verità la giustizia, a quanto sembra, era un qualcosa del genere; essa però non riguarda il comportamento esteriore dell’individuo, bensì quello interiore, che coinvolge veramente l’individuo stesso e la sua personalità. Grazie ad essa l’uomo giusto non permette a nessuno dei princìpi insiti nella sua anima di svolgere le funzioni degli altri confondendo i rispettivi ruoli, ma dà realmente una buona disposizione al proprio spirito, diventa governante, ordinatore e amico di se stesso e accorda le sue tre facoltà interiori proprio come le tre distinte note dell’armonia, la più acuta, la più grave e la mediana, comprese le eventuali note intermedie; e dopo aver legato insieme tutti questi elementi, diventa da molteplice assolutamente uno, fornito di temperanza e armonia. Questo sarà, d’ora in poi, il suo modo di agire, si tratti dell’acquisto di ricchezze, della cura del corpo, della vita politica o degli accordi privati, poiché in tutto ciò egli ritiene e chiama giusto e onorevole il comportamento che mantiene l’equilibrio interiore e contribuisce a realizzarlo, e sapienza la scienza che presiede a questo comportamento, mentre ritiene e chiama ingiusto il comportamento che rovina tale equilibrio, e ignoranza l’opinione che suggerisce un comportamento simile».[9]
Dunque, la virtù dell’uomo consiste nell’attuazione del Bene nell’anima e nella vita, che si realizza facendo ordine nel disordine e quindi unità nella molteplicità.
[3] Le passioni nel Timeo
Nel Timeo, dialogo della vecchiaia, Platone prende in considerazione quella corporeità che nella Repubblica era stata esclusa o comunque collocata sullo sfondo; la connessione città-anima, sviluppata nel dialogo sopra menzionato, permette al filosofo ateniese di ripensare il rapporto anima-corpo la cui relazione può essere ora spiegata attraverso la metafora politica.
Sulla base della tripartizione della Repubblica, il Timeo prospetta una ben precisa collocazione somatica delle facoltà in cui l’io umano risulta scisso, producendo così un modello di integrazione di tutto il complesso psicofisico: se l’anima é ora somatizzata, il corpo non rappresenta più una materia ostile, risultando così psicologizzato. Il corpo è d’ora in avanti concepito come una struttura dinamica e conflittuale, la cui educazione è indispensabile per raggiungere determinati equilibri all’interno dell’anima.
Nel Timeo, Platone afferma che solamente la parte razionale dell’anima è immortale, perché è stata affidata agli dèi direttamente dal Demiurgo:
“E delle realtà divine egli stesso fu Artefice; invece il compito di produrre le realtà mortali fu da lui affidato a quegli esseri ch aveva prodotti.”[10]
Il compito degli dèi è di rivestire la parte immortale dell’anima con un corpo mortale; tuttavia, all’interno del corpo, si ritrova una seconda specie di anima, ossia quella mortale, sede di passioni.
“E costoro, imitandolo, dopo aver ricevuto il principio immortale dell’anima, formarono intorno a essa il corpo mortale, e le diedero tutto questo corpo come un veicolo, e costituirono, inoltre, dentro al corpo un’altra specie di anima, quella mortale, che ha in sé terribili e inevitabili passioni: in primo luogo il piacere, esca di male grandissima, e inoltre i dolori, che mettono in fuga i beni, e inoltre l’audacia e il timore, che sono consiglieri senza senno, e la collera, che è difficile da placare, e la speranza che si lascia facilmente sedurre. Mescolando queste cose con la sensazione che è priva di ragione e con l’amore che rischia tutto, composero, secondo necessità, la stirpe mortale.”[11]
Tuttavia, gli dèi creati si rendono ben presto conto che la parte razionale dell’anima può essere contaminata da quella in cui hanno sede le passioni. Per tale ragione, operano immediatamente la seguente soluzione: al fine di mantenere l’ordine nel complesso psicosomatico, pongono il cuore nel posto di guardia dell’organismo in modo da obbedire ai comandi provenienti dal cervello, cioè dalla ragione. Il cuore è un vero e proprio strumento repressivo e grazie a questa distribuzione somatica, questo principio reattivo e competitivo può aiutare la ragione a reprimere le passioni, qualora non dovessero ubbidire al principio razionale.
Per queste ragioni, avendo timore di contaminare il divino più dello stretto necessario, separatamente da quello collocarono il mortale in un’altra dimora del corpo, costituendo un istmo e una delimitazione fra la testa e il petto, ponendo in mezzo a essi il collo, affinché avesse luogo la separazione. Dunque, nel petto e in quello che si chiama torace, collocarono la specie mortale dell’anima. E poiché una parte di essa aveva una natura migliore e, invece, l’altra parte aveva una natura peggiore, barricarono la cavità del torace, come si fa separando l’abitazione delle donne da quella degli uomini, ponendovi nel mezzo il diaframma. Pertanto, la parte dell’anima, che partecipa del coraggio e dell’ira, essendo bramosa di vittoria, la stanziarono più vicina alla testa fra il diaframma e il collo, in maniera che, potendo dare ascolto alla ragione, con forza reprimesse insieme con essa la razza delle passioni, qualora essa non acconsentisse a ubbidire in nessun modo alla ragione e al comando dell’Acropoli.[13]
Quanto all’anima concupiscibile, costituita da desideri insaziabili e legata alla corporeità, essa è collocata tra il diaframma e il confine dell’ombelico. Grazie a tale dislocazione, questa parte dell’anima recherà minimo turbamento, permettendo così alla parte migliore dell’anima di deliberare con tranquillità intorno a ciò che giova a tutto il corpo nel suo insieme e nelle sue singole parti.
“La parte dell’anima che appetisce cibi e bevande e quanto la natura stessa del corpo ha bisogno, la collocarono nella posizione di mezzo tra il diaframma e il confine dell’ombelico, costruendo in tutto questo luogo come una mangiatoia per il nutrimento del corpo. E la legarono qui come una bestia selvaggia, che, però, era necessario nutrire, essendo con noi congiunta, se pure la stirpe mortale doveva esistere. Dunque, affinché, pascendosi sempre alla mangiatoia e dimorando il più possibile lontana dalla facoltà che delibera, apportasse turbamento nel minor grado possibile e permettesse che quella che è la parte migliore dell’anima deliberasse con tranquillità intorno a ciò che giova a tutto il corpo nel suo insieme e nelle singole parti, per queste ragioni le assegnarono la collocazione in quel luogo.”[14]
La parte concupiscibile della nostra anima sperimenta spesso passioni come la fame, la lussuria e la paura. In quanto creature dotate di una parte razionale, abbiamo una capacità speciale: possiamo approvare o disapprovare queste passioni, accettarle o cercare di contrastarle. Se l’anima appetitiva desidera qualcosa, la parte razionale può contrastarla con la minaccia di conseguenze dolorose; se l’anima concupiscibile teme qualcosa, la parte razionale può incoraggiarla con discorsi che fanno riferimento a dei premi.
“E i figli degli dèi sapevano che essa non avrebbe mai inteso la ragione, e che se anche avesse preso parte di qualche sensazione, non sarebbe mai rientrato nella sua natura l’esigenza di ricercarne le cause, ma che, anzi, sarebbe stata sedotta di notte e di giorno da simulacri e fantasmi: allora il dio, per ovviare a questo inconveniente, realizzò la figura del fegato, e la collocò nella sede di quella parte dell’anima, e fece quest’organo spesso, liscio, lucido, dolce, e dotato di amarezza, in modo che la potenza dei pensieri che proviene dalla mente si riflette in esso come in uno specchio che, ricevendo le figure, faccia vedere le immagini. E l’intelletto atterrisce il fegato quando, servendosi della parte di amarezza che in quello è connaturata e assaltandolo duramente e minacciosamente, mescola quell’amarezza subito per tutto il fegato e mostra i colori della bile, e costringendolo lo rende tutto rugoso e ruvido, e ora piegando e contraendo il lobo, i serbatoi, e le porte, ora chiudendoli e contraendoli, produce dolori e nausee. Quando invece un’ispirazione di dolcezza proveniente dalla mente rappresenta immagini contrarie, e concede una tregua alla parte amara, in modo che non muova e non venga in contatto con la natura a sé opposta, usando la dolcezza innata in lui e rendendo tutte le sue parti diritte, lisce e libere, allora rende mite e serena la parte dell’anima che ha la sede presso il fegato, e nella notte le dà la tranquillità, in modo che durante il sonno coltivi la divinazione, dal momento che non prende parte né della ragione, né dell’intelligenza.”[15]
Vi è, tuttavia, una difficoltà di comunicazione. La parte razionale ha cognizioni razionali (pensieri); tuttavia, la parte appetitiva dell’anima non ha consapevolezza dei concetti. Pertanto, gli dèi hanno ideato una soluzione: hanno progettato il nostro corpo in modo tale che i pensieri della parte razionale riflettano sulla superficie lucida del fegato immagini. Queste immagini, a differenza dei pensieri, possono influenzare direttamente la parte concupiscibile, poiché producono delle passioni: spavento, avversione e calma. In primo luogo, la paura è la contrazione dolorosa del fegato, mentre la calma è la fase di rilassamento di tale organo. In secondo luogo, queste passioni sono risposte alle immagini. Difatti, la costituzione del fegato, liscio e denso, è simile a quella degli occhi, il che permette di concludere che le immagini, riprodotte sulla superficie lucida del fegato, sono molto simili a quelli che giocano un ruolo nella vista. In terzo luogo, bisogna considerare il contenuto di queste immagini-passioni del fegato. Si è visto che tali immagini sono riflessi di pensieri che la parte razionale comunica a quella concupiscibile: in particolare, sono pensieri su ciò che è preferibile fare o evitare. Poiché i concetti possono contenere esortazioni, minacce, avvertimenti o rassicurazioni, si evince che le immagini, essendo riflessi di pensieri, possono avere un contenuto neutro, minaccioso o rassicurante.
Che natura hanno le passioni sino ad ora illustrate? Secondo Platone, che nel Timeo pare abbracci un punto di vista cognitivista, le passioni sono credenze. Prendiamo come paradigma i desideri dell’anima concupiscibile, vale a dire quelli che non si presentano attraverso la mediazione della ragione, ma in risposta a uno stimolo esterno: fame, odore, lussuria e simili. Dati i seguenti stimoli, la parte appetitiva avverte una determinata passione anche senza la guida della parte razionale; pertanto, deve avere una cognizione di tipo valutativo, come, ad esempio, una cognizione secondo cui il cibo è gustoso e il corpo bello.
Naturalmente, tali passioni sono credenze speciali: vivide immagini dei pensieri. Inoltre, tali immagini hanno in ogni modo natura primitiva, poiché Platone nega che la parte appetitiva dell’anima possa cogliere nozioni o pensieri.[16]
In conclusione, si può affermare che il discorso platonico svolto nel Timeo produce un’accentuata integrazione psicofisica che permette di rileggere il problema dei rapporti tra anima e corpo secondo un’impostazione ben lontana dalla fuga mistico-ascetica. Il corpo diviene ora strumento finalizzato allo svolgimento delle funzioni dell’anima e può essere suddiviso, proprio come l’anima, in una serie di parti capaci di collaborazione, ma anche di conflitto. È addirittura possibile una terapia incrociata degli elementi patogeni dell’anima e del corpo: difatti, radice ultima del male psichico, delle passioni, non è il corpo, ma è l’anima che si trova nel corpo. Tuttavia, se il corpo ha una natura troppo eccitabile, può recare grossi danni all’anima: quando umori acri e dannosi, dopo aver vagato nel corpo senza aver trovato una via di fuga, si mescolano con il movimento dell’anima, producono malattie per l’anima stessa. La stretta interazione tra malattia somatica e affezione psichica consente di affermare che le passioni sono malattie dell’anima, causate simultaneamente da una cattiva costituzione del corpo.
Bibliografia
Fonti primarie:
PLATONE, Fedro, Bompiani (collana «Il pensiero occidentale»), Milano 2008. PLATONE, Repubblica, Bompiani (collana «Il pensiero occidentale»), Milano 2008. PLATONE, Simposio, Bompiani (collana «Il pensiero occidentale»), Milano 2008. PLATONE, Timeo, Bompiani (collana «Il pensiero occidentale»), Milano 2008.
Fonti secondarie:
AMIR L., Plato’s theory of Love: Rationality as Passion, Practical Philosophy 2001. MOSS J., Pictures and Passions in Plato, CUP 2011.
REALE G., Autotestimonianze e rimandi di Platone alle “dottrine non scritte”, Bompiani (collana «Il pensiero occidentale»), Milano 2008.
REALE G., Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, BUR (collana «Saggi»), Milano 1998.
[1] PLATONE, Timeo, 69 d.
[3] PLATONE, Timeo, 69 d – 70 a
[4] PLATONE, Timeo, 70 d – 71a.
[5] PLATONE, Timeo, 71 a-d.
[6] J. MOSS, Pictures and Passions in Plato, CUP 2011, pp. 15-21.
[7] PLATONE, Repubblica, IX, 588 a – 589 b.
[8] PLATONE, Repubblica, IV, 443 c-e.
[9] PLATONE, Simposio, 202 d-e.
[10] PLATONE, Simposio, 203 c-e.
[11] PLATONE, Fedro, 249 b-c.
[13] PLATONE, Simposio, 204 a-b.
[14] PLATONE, Fedro, 252 b.
[15] PLATONE, Simposio, 211 e – 212 a.
[16] PLATONE, Simposio, 202 d-e.
[17] PLATONE, Simposio, 211 e – 212 a.
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