Lettura di Inferno VIII in occasione del Dantedì 2023.
Introduzione:
In occasione del Dantedì[1] 2023, rivolto alla diffusione della meraviglia dantesca in ogni sua forma, è mia premura presentare un lavoro di analisi del celebre canto VIII dell’Inferno secondo una prospettiva più ampiamente sociologica, volta a dimostrare la peculiarità, di interesse storico, della mentalità dantesca che traspare. Si procederà dapprima ad una sinossi filologica di presentazione del lavoro dantesco per poi passare all’analisi interessata del celebre episodio di dialogo tra Dante e Filippo Argenti. Lo studio in questione è volto a creare dei ponti di collegamento con altri episodi tratti dalle tre cantiche, al fine di dimostrare come la mentalità dantesca, di impronta essenzialmente cristiana, differisse dai valori che, nella contemporaneità, sono attribuibili a tale etichetta. Fine ultimo del presente lavoro è presentare le sublimi peculiarità di Inferno VIII e, seguitamente, dimostrare come vi sia una netta ed insormontabile demarcazione tra l’ideologia politico-religiosa di un uomo del ‘300, puramente un uomo del suo tempo[2], e una qualsivoglia linea di pensiero, altrettanto politico-religiosa, della contemporaneità.
Inferno, canto VIII – una sinossi filologica e tematica
Ricostruire una sinossi filologica nello spazio di un articolo del presente calibro è impresa ben più che ardua, forse addirittura irrazionale. La tradizione di attestazione della Commedia (poi Divina a seguito del commento Boccaccesco) è caratterizzata da una sorprendente complessità a fronte delle innumerevoli attestazioni[3], tanto nella tradizione manoscritta quanto nella tradizione dei testi a stampa. Si tenterà pertanto di seguito di presentare una sinossi filologica delle prime attestazioni manoscritte, prendendo in esame due celebre manoscritti per un’analisi di taglio paleografico-filologico.
Non è noto se vi sia un manoscritto autografo, la storiografia rende noto al lavoro filologico che l’opera venne resa parzialmente pubblica già dal 1314 nel veronese, con la diffusione delle prime due cantiche. Per la pubblicazione del Paradiso sarà invece necessario attendere dopo la morte del poeta, la diffusione avverrà grazie al lavoro dei figli Pietro e Jacopo. La filologia della Commedia è estremamente complessa se si considerano alcuni caratteri peculiari riguardo la storia della stesura, delle problematiche che Boccaccio solleva nel suo Trattatello in laude di Dante (cfr. Boccaccio 1477), presentando tuttavia delle soluzioni che lasciano largo campo a dubbi di natura filologica. Prima problematica sollevata è quella dell’identificazione di un terminus che vada a segnalare l’avvio della stesura della Commedia. Nel Trattatello boccaccesco si narra dell’avvenuta stesura dei primi sette canti prima dell’esilio del Sommo Poeta, avvenuto nel 1300. Da ciò diparte l’avvincente leggenda, che tal si definisce per il carattere di relativa fumosità[4] e le interminabili discussioni filologiche che vi han fatto seguito, del quadernetto, contenete questi primi sette canti, che da Firenze sarebbe tornato in possesso di Dante quando ospite di Moroello Malaspina grazie alla mediazione del poeta Dino Frescobaldi. Seconda problematica, con risoluzione tuttavia relativamente pervenuta, è invece riguardante gli ultimi tredici canti del Paradiso: secondo quanto riportato da Boccaccio nella sopracitata opera, i tredici canti sarebbero andati perduti per poi essere ricomposti dal figlio di Dante Jacopo dopo un’apparizione in sogno del padre. La risoluzione di tal mistero la propone Francesco Macrì-Leone con un’edizione critica dell’opera boccaccesca (cfr. Macrì-Leone 1888) asserendo che Boccaccio avesse accolto il sogno come fonte e “al solito adornato e abbellito colla sua fantasia”[5].
La ricerca filologica ha permesso di svelare quali siano i più antichi manoscritti che attestino la Commedia, ed ancor più sorprendentemente ha svelato l’attestazione di alcuni versi di Inf. III, tra cui la celebre terzina «e ‘l duca lui: “Caron, non ti crucciare: / Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”», ad opera del notaio ser Tieri degli Useppi di San Gimignano su un registro bolognese di atti criminali datato 1317, ad oggi conservato all’Archivio di Stato di Bologna. Venendo invece alla tradizione manoscritta di attestazione completa, in esame di seguito sono i due esemplari di datazione più antica: primo tra questi è il ms. Landiano 190 (anche detto codice beccario poiché posseduto dalla famiglia Beccaria), è conservato alla biblioteca Passerini-Landi di Piacenza ed è di datazione 1336. Trattasi di un manoscritto membranaceo, 110 fogli, scrittura cancelleresca in inchiostro nero con rubricazioni in colore rosso, misura 352x250mm, copiatura di Antonio da Fermo di mano marchigiana su commissione del podestà genovese Beccario Beccaria, il medesimo ms. riporta quattro componimenti di Guittone d’Arezzo, una canzone dantesca e attestazioni di Bosone da Gubbio e Iacopo Alighieri. Secondo manoscritto attestante è il ms. Trivulziano 1080 della Biblioteca trivulziana di Milano, è datato al 1337. Trattasi di un manoscritto cartaceo, 107 carte, scrittura cancelleresca, misura 368x262mm, mano di Francesco di ser Nardo da Barberino sino a c.106r, mentre le carte 106v-107r sono di seconda mano coeva che trascrive in scrittura gotica. Volendo prendere in esame il ms. Triv. 1080, il canto VIII figura alle cc.8r-9r.
Venendo dunque ad una sinossi tematica del canto VIII dell’Inferno, il cronotopo dell’azione si concentra nel cerchio V dove sono confinati gli iracondi e gli accidiosi[6] e temporalmente nella notte tra 8 e 9 aprile 1300[7]. Dante e Virgilio si trovano a dover attraversare la palude stigia prima di giungere dinnanzi alle mura della città di Dite. L’attraversamento è reso possibile dal sopraggiungere di Flegiàs[8], di cui ogni descrizione è taciuta dalla narrazione, il quale trasporta i due con la sua nave piccioletta lungo il fiume Stige, e sublime è la descrizione di come s’avverta il peso del corpo di Dante rispetto all’anima di Virgilio (“Lo duca mio discese ne la barca, / e poi mi fece intrare appresso lui; / e sol quand’io fui dentro parve carca”, Inf. VIII vv.25-27). Durante l’attraversamento della palude stigia uno dei dannati si avventa contro la barca intraprendendo un dialogo con Dante e tentando infine di trascinarlo con sé nella palude, si scoprirà poi esser l’anima di Filippo Argenti, storicamente ostile agli Alighieri, e la meraviglia e genialità dell’episodio sono di seguito narrate, da una prospettiva quanto più atipica.
“Io dico seguitando…” – sulle sublimi peculiarità di Inf. VIII
Non volendo dar seguito di autorevolezza alcuno alla leggenda del quadernetto attestante i primi sette canti dello ‘nferno, è tuttavia doveroso asserire quanto sublimemente peculiare sia il canto VIII, il qual si staglia per la presenza di artifici stilistico-narrativi e per il gran numero di interrogativi che questi versi possono suscitare. Intrigante è, dapprima, la figura di Flegiàs, posto come guardiano delle anime degli iracondi immerse nella palude Stigia, e peculiarmente assegnato da Dante a nocchiero. L’intrigo sorge all’analisi della questione della sua figura: volendo tralasciare, con rimando a sedi più opportune, l’analisi dell’etimologia del nome a rivelazione di come un’antonomasia sembri ricollegarlo alla dimensione delle fiamme che pur son peculiarità primaria della città di Dite, la sua figura è avvolta nel mistero in quanto non è pervenuta, a differenza di Caronte che pur ricopre un simil ruolo, alcuna descrizione del suo aspetto, non è connotato con i tipici caratteri della figura infernale guardiana di uno dei cerchi. È lecito domandarsi se vi sia eccezionalità nel ruolo di nocchiere attribuitogli, ossia se sia corretto considerare Flegiàs un nocchiero o guardiano degli iracondi: ebbene, escludendo dal vaglio delle possibilità l’idea che la sua figura sia nulla più che il Deus ex machina di cui Dante e Viriglio avevano disperato bisogno, e lo dimostrano le parole proferite da Virgilio che creano in Flegiàs una certa delusione ([…] “Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto”, / disse lo mio segnore, “a questa volta: / più non ci avrai che sol passando il loto”, Inf. VIII, 19-21), è allora meritevole di seguito l’ipotesi avanzata da Michelangelo Picone, secondo cui è “la nuova focalizzazione narrativa del canto VIII rispetto ai canti precedenti a richiedere una tale soluzione combinatoria” (cfr. Picone, Canto VIII, p.120, cit. in Fiorilla 2013:13-14) , dunque evitando di far pendere l’ago della bilancia da un lato o dall’altro.
Al momento d’imbarcarsi sulla nave piccioletta[9], i versi danteschi fanno affiorare una tematica fondamentale della Commedia, di grande impatto in particolar modo nel Purgatorio, ossia quello della materialità del suo corpo rispetto agli spiriti ivi collocati. Il corpo di Dante è, chiaramente, quello di un mortale, dettaglio che non sfugge alle anime dei dannati, dei penitenti e dei beati, e in quanto tale ha come prima caratteristica quella di avere un peso considerevole rispetto alle sopracitate anime. Questo traspare con particolare evidenza al v.27 (“[…] e sol quand’io fui dentro parve carca”). La materialità del corpo di Dante si manifesterà anche in Purgatorio II, ai vv.76-81, ossia il momento dell’incontro di Dante con Casella, i due tentano di abbracciarsi ma le braccia del Sommo Poeta attraversano lo spirito di Casella poiché privo di materialità alcuna (“Io vidi una di lor trarresi avante / per abbracciarmi, con sì grande affetto, / che mosse me a far lo somigliante. / Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto! / tre volte dietro a lei le mani avvinsi, /e tante mi tornai con esse al petto.”, Purg. II, 76-81)[10], e Purgatorio V, alla sublime terzina nona, quando le anime, dei morti di morte violenta, si accorgono con stupore che il corpo di Dante proietta un’ombra (“Quando s’accorser ch’i’ non dava loco / per lo mio corpo al trapassar d’i raggi, / mutar lor canto in un “oh!” lungo e roco”, Purg. V, 25-27). Dai versi sopracitati si evince con chiarezza come niuno all’infuori di Dante goda di materialità corporale, è pertanto lecito, nonché doveroso, sollevare una problematica legata dapprima a Inf. VIII, ma che si protrae sino alla cantica seconda: Virgilio, il quale naturalmente non gode di materialità alcuna, pare manifestarla in alcuni punti, e con particolar vigore nel canto in questione. Dopo il respingimento di Filippo Argenti, Virgilio indulge in una manifestazione di affetto piuttosto vigorosa nei confronti di Dante: “Lo collo poi con le braccia mi cinse; / basciommi ’l volto e disse: “Alma sdegnosa, / benedetta colei che ’n te s’incinse!” (Inf. VIII, 43-45). Virgilio pare dunque godere di una materialità che tuttavia non possiede. Simile situazione si ripresenta anche in Inf. IX con Virgilio che pone le sue mani sugli occhi di Dante per proteggerlo dalla visione di Medusa (“Così disse ’l maestro; ed elli stessi / mi volse, e non si tenne a le mie mani, / che con le sue ancor non mi chiudessi”; Inf. IX, 58-60), e in Purg. I, nel meraviglioso passaggio in cui Virgilio lava con la rugiada il volto di Dante, coperto dal colore nero dell’Inferno[11] (Quando noi fummo là ’ve la rugiada / pugna col sole, per essere in parte / dove, ad orezza, poco si dirada, / ambo le mani in su l’erbetta sparte / soavemente ’l mio maestro pose: / ond’io, che fui accorto di sua arte, / porsi ver’ lui le guance lagrimose; / ivi mi fece tutto discoverto / quel color che l’inferno mi nascose; Purg. I, 121-129). Constatate le occorrenze, è lecito domandarsi come mai Virgilio possegga tali qualità di corporeità[12] pur essendo nulla più che uno spirito. Non essendovi materiale rilevante cui attingere per una risoluzione della problematica, è lecito avanzare un’ipotesi, la quale verte fondamentalmente sull’importanza di Virgilio, che spesso e volentieri funge da Deus ex machina in un viaggio che Dante non avrebbe potuto compiere da solo. Questa rilevanza del personaggio potrebbe pertanto essere sufficiente a donare un grado, seppur limitato, di corporeità al poeta duca di Dante. Non vi è certezza su tal fronte, pertanto, in citazione dalle Esposizioni boccaccesche, “lascerò nel giudizio de’ lettori: ciascun ne creda quello che piú vero o piú verisimile gli pare”[13].
Infine, prima di giungere all’analisi di taglio sociologico del Dante uomo del suo tempo che sarà soddisfacentemente trattata nel §4, è fondamentale prestare una quantomeno minima attenzione all’intrigante figura di Filippo Argenti, su cui a lungo la folta bibliografia di finissimi studiosi s’è soffermata, pertanto mi propongo di presentar di seguito nulla più che una sinossi biografica del personaggio. Filippo Caviccuoli (detto Argenti perché “equum ferris argenti ferrari fecit”[14], cfr. Bassi 2020:221), secondo alcune fonti nato attorno al 1266 e morto prima del 1300 (plausibile vista la collocazione cronotopica nella Commedia, nella palude Stigia, nella notte del 7 aprile 1300), fu membro della famiglia fiorentina degli Adimari. I rapporti con gli Alighieri erano di profondo astio, dapprima per una divergenza delle opinioni politiche essendo l’Argenti un guelfo nero, e successivamente per taluni episodi tra cui un appesantimento, da parte di Dante, delle accuse mosse contro l’Argenti quando questi gli chiese una buona parola, o ancora la presunta appropriazione indebita dei beni degli Alighieri che furono sottoposti a confisca[15]. Alcune leggende, prive di riscontro storiografico, raccontano di episodi di violenza, forse di carattere altezzoso, subite da Dante da parte dell’Argenti. Di certo vi è che i rapporti tra Dante e l’Argenti fossero terribilmente negativi, e la collocazione nel cerchio degli iracondi è l’occasione perfetta per Dante per applicare una sua vendetta contro il fiorentino spirito bizzarro[16] (cfr. Inf. VIII, 62). È tuttavia doveroso precisare che la questione etica sulla attribuzione di colpa all’Argenti sia ancor’oggi oggetto di dibattito tra gli studiosi, con oscillazione di interpretazione tra l’iracondia e la superbia[17]. Il personaggio ritorna in due attestazioni letterarie successive: è attestato nel Decameron boccaccesco, nella novella VIII della nona giornata, e nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti, alla novella CXIV. L’incontro tra Dante e l’Argenti raccontato nella Commedia è di grande peculiarità per i propri tratti stilistico-narrativi e per la ferocia che Dante dimostra, sintomatica di un risentimento non indifferente al poeta.
Casi di violenza nella Commedia, da Inf. VIII a Inf. XXIX
S’è a lungo ripetuto, e con il dovuto vigore, che Dante era propriamente un uomo del suo tempo, e da ciò dipende una particolare inclinazione ideologica che lo contraddistingue sociologicamente senza possibilità alcuna di rapporto con la contemporaneità. Dante era un uomo di indole religiosa, era cristiano, come sostanzialmente lo era qualsiasi uomo del suo tempo, ed aveva una conoscenza quanto più approfondita della materia teologica, lo dimostra l’intessitura della Commedia, fitta di rimandi al mondo della cristianità. Questo suo carattere religioso non ne forgia tuttavia la moralità ad un ripudio incondizionato della violenza ed una propensione al perdono. Tutt’altro, sociologicamente Dante figura come una persona vendicativa qualora ad esser sopraffatto fosse l’onore, proprio o degli Alighieri come famiglia. Non v’ha da essere sorpresa alcuna in questo, Dante era propriamente un uomo del suo tempo, e l’ideologia medievale dei secoli XIII-XIV etichettavano nella più completa normalità questo tipo ragionamento, e l’applicazione pratica era egualmente concessa anche da un punto di vista legislativo.
Andando con ordine, come si è a lungo anticipato, il canto VIII è teatro di un feroce scontro tra Dante e l’Argenti, la situazionalità è propizia al Sommo Poeta per attuare la sua vendetta, la quale è certamente ottenuta, ma non senza una peculiare impostazione stilistico-narrativa. Dapprima, è interessante notare come non sembri sussistere una demarcazione di livello tra Dante e lo spirito dell’Argenti. Quest’ultimo si scaglia contro la nave di Flegiàs per parlare con Dante, lo spirito pien di fango (Inf. VIII, 34) scavalca l’autorialità dantesca prendendo il comando dell’azione, è lui a decidere, nella narrazione, di avventarsi contro la nave. Non sussiste pertanto una superiorità del narratore che scende dal proprio piedistallo in Parnaso e attribuisce allo spirito la possibilità di farsi avanti. L’autorevolezza dell’Argenti è tuttavia di brevissima durata, immediatamente destinata a soccombere sotto l’ira dantesca. Lo spirito maledetto, non appena tenta un ulteriore slancio di autorevolezza nel tentativo di trascinare Dante con sé nella palude Stigia, è prontamente respinto e ricacciato con li altri cani[18]. È sorprendente notare come Dante non si attribuisca l’onore del respingimento, si dimostra anzi consapevole di una propria debolezza, come altresì succede in ulteriori passi della Commedia, e pone l’intervento di Virgilio come Deus ex machina. A tal punto, Dante è definito da Virgilio alma sdegnosa, un’attribuzione che non è tuttavia da intendere come negativa o colpevolizzante, Dante è definito portatore di ira, di sdegno, ma non si tratta della medesima ira dell’Argenti, quella di Dante è ira eticamente corretta perché rivolta contro l’ira peccaminosa degli iracondi[19]. Segue il climax della spietatezza dantesca, il Sommo Poeta esprime il desiderio di vederlo attuffare in questa broda ed è prontamente soddisfatto: l’Argenti è assalito dagli altri iracondi che di lui fanno uno strazio, per il quale Dante rende grazie a Dio. Volendo soprassedere sulla tematica dell’etica religiosa che, in questo passo, sembra venir meno, è interessante notare come in questi versi sublimi traspaia il carattere vendicativo di Dante, la propria moralità non gli nega l’ira, che egli stesso si auto-giustifica tramite le parole di Virgilio. La violenza contro l’Argenti non ha tuttavia un carattere di negatività che possa crear sdegno nel lettore: sebbene Dante non sembri dimostrar pietà nei confronti dello spirito, è pur sempre corretto tener presente che la collocazione nell’Inferno è una decisione che discende dalla volontà di Dio, pertanto qualsivoglia destino attenda l’Argenti è giustificato, per quanto apparentemente crudele e spietato, dalla divina disposizione nell’oltretomba per le anime trapassate, o quantomeno così figura nell’ideologia dantesca. La mentalità medievale è improntata su un’indiscussa affidabilità delle fonti teologiche, pertanto una discussione sulla moralità dietro la conformazione regni dell’oltretomba non è appannaggio dell’uomo trecentesco.
Ciò detto, è doveroso puntualizzare anche quanto messo in luce, con egregia finezza ed impatto, dapprima dal Romagnoli (cfr. Romagnoli 1933) e successivamente dal Toffanin (cfr. Toffanin 1960): nella violenta vendetta perpetrata da Dante nei confronti dell’Argenti è comunque individuabile, ad onor del vero, una componente di correttezza che denota una netta demarcazione etica tra il poeta e l’Argenti. Dante si serve della ragione che divinamente gli è attribuita, amministrando una vendetta a rigor di essa, dunque in forza di razionalità che non si sottomette alla passione, alla superbia ed all’iracondia, come invece accade all’Argenti, ed è in ogni caso una vendetta che non oltrepassa il limite della giustizia. Nulla avrebbe impedito a Dante d’essere ancor più spietato per tutti i torti subiti, come leggenda narra, e porre dunque l’Argenti nella Giudecca tra i violenti. La scelta dantesca di collocarlo nella palude stigia è sintomatica di una perfetta amministrazione della giustizia, senza abuso di potere alcuno, in piena conformità con la razionalità che divinamente discese sugli uomini tutti, ma solo alcuni ne fecero buon uso.
Ulteriore peculiare esempio di violenza nei canti della Commedia è quello a cui si fa riferimento in Inf. XXIX, dunque collocato nelle Malebolge, il canto in cui sono presentate le anime dei seminatori di discordia. Tra queste anime, che tuttavia è solamente citata, senza interazione con i poeti, vi è quella di Geri del Bello, ucciso nel 1280 da tal Brodaio Sacchetti. L’omicidio in questione non è attestato in fonti storiografiche documentaristiche alcune, è tuttavia raccontato, oltre che nelle terzine dantesche, anche nel commento all’opera paterna da parte dei figli di Dante. La questione fondamentale è tuttavia lo sdegno che deriva dalla mancata vendetta, quantomeno sino a quel momento, dell’omicidio in questione da parte della famiglia offesa, ossia gli Alighieri (“O duca mio, la vïolenta morte / che non li è vendicata ancor”, diss’io, / “per alcun che de l’onta sia consorte, / fece lui disdegnoso; ond’el sen gio / sanza parlarmi, sì com’ïo estimo: / e in ciò m’ ha el fatto a sé più pio”; Inf. XXIX, 31-36). La concezione dantesca di quanto avvenuto è semplicemente sorprendente se guardata da occhio contemporaneo: la vergogna risiede sugli Alighieri per non aver vendicato la morte di Geri, vendetta che si compirà dopo la morte di Dante con l’uccisione di un membro dei Sacchetti, utile a far tornare la pace tra le famiglie. Non volendo dilungarsi sulla questione storiografica, pur il cui approfondimento si rimanda in sitografia al magistrale intervento del professor Barbero (cfr. Barbero, intervento del 2 novembre 2022), quanto si può trarre dagli esempi sopracitati è una mentalità che configura Dante propriamente nella cornice medievale[20], l’accostamento di sentimenti vendicativi relativamente spietati non sembra collimare con l’ideale della religiosità cristiana, quantomeno non nella visione dei contemporanei, ma ciò non toglie che l’ideologia medievale considerasse tale corrente di pensiero pienamente legittima. Basti questo appunto a dimostrare l’insormontabilità della demarcazione tra i secoli XIII e attuale XXI, il che rende totalmente improprio qualsivoglia accostamento di autori dell’epoca, soprattutto se del calibro di Dante, a ideologie politico-sociali appartenenti alla modernità.
Volendo tuttavia oltrepassare i confini della saggistica filologico-letteraria che da secoli si interroga sulla realtà celata dietro questo canto e dietro la figura dell’Argenti, può essere un proficuo spunto di riflessione quanto offerto dal cantautore Michele Salvemini, in arte Caparezza, nella sua canzone Argenti vive: la prospettiva che l’artista presenta è essenzialmente rovesciata, in forza dell’abbassamento che Dante compie per strutturare il dialogo con l’Argenti, Caparezza da voce a quest’ultimo permettendogli di imporsi sul poeta con un soliloquio musicato. Filippo Argenti ha dunque la possibilità di far valere le proprie ragioni, e pur non discostandosi dall’iracondia che l’ha condannato all’inferno secoli prima, solleva una prospettiva a dir poco affascinante con due versi pre-ritornello della seconda strofa: “persino tu che mi anneghi a furia di calci sui denti / ti chiami Dante Alighieri ma assomigli, negli atteggiamenti, a Filippo Argenti” (cfr. Caparezza 2014 in discografia). Piantato il seme proprio dall’Argenti, si faccia dunque fiorir la riflessione attorno a quanto detto, è forse vero che Dante, attuando nelle terzine una vendetta effettivamente crudele e violenta, viene a macchiarsi delle medesime colpe che han confinato l’Argenti nella palude stigia? Nuovamente, per rispondere a tal quesito è necessario far fede al tratteggiamento sociologico della personalità trecentesca, che Dante incarna pienamente. Si riprenda nuovamente l’illuminante prospettiva presentata dal Romagnoli (1933), ecco dunque che si svela una nuova luce sull’agire del poeta, e la violenza dantesca divien pertanto da intendersi come una vendetta a buon diritto, ed amministrata secondo ragione, per un grave torto subito per mano del fiorentino bizzarro. Sarebbe pertanto oltremodo eccessivo attribuirgli un carattere peccaminoso di iracondia, andando peraltro a sradicarlo dall’etichettatura, costruitasi con cura da Dante, di uomo del suo tempo.
Conclusione:
Con il presente articolo si è voluto rendere giusto onore alla memoria del Sommo Poeta, la cui celebrazione è tutt’altro che ascritta all’odierna commemorazione. I versi di Dante riecheggiano nell’infinito per la loro profondità, artificiosità e sublimità assoluta nell’uso rispettoso ed onorifico che egli fece della lingua fiorentina. L’invito è pertanto di evitare di limitare l’approccio alla letteratura dantesca alle coordinate brevemente tracciate dal sistema scolastico, dedicando occhio critico e cuor ben disposto ad amare alla lettura, quantomeno occasionale, di versi danteschi, certo è che sorprenderà quanto attuali siano i messaggi convogliati nelle terzine, nei versi o nella prosa del Sommo. Dante invita alla speranza, invita all’amore passionale ed allo sguardo attento alla poetica dei piccoli dettagli, ogni verso dantesco richiama alla dolcezza, all’eleganza, anche dura, petrosa, quando serve, ma senza mai eccedere la nobiltà dell’endecasillabo, e si consideri se davvero non possa cambiare il colore della vita se la si rende una dolce poesia in endecasillabi. Dante si rivolge immancabilmente a chiunque sia disposto, con nobil cuore, ad apprendere leggendo i suoi versi, riecheggia la terzina di Inf. XXVI “considerate la vostra semenza / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza”, un chiaro ammonimento all’uomo di cultura ad amministrare questo dono con virtù, per giovare alle menti disposte all’ascolto, per insegnare ad amare il sapere e prender coscienza che la lotta, qualsiasi essa sia, parte proprio dalla conoscenza. Si esca dunque dall’Inferno, che la vita d’ognuno può esser un Paradiso, basta solo lavarci il volto, e purificare il cuore, con una docile goccia di rugiada.
Bibliografia:
Menzione d’onore merita, come fonte d’ispirazione, l’incontro n.4 di Dante all’Archivio – Quindici passi all’Inferno, promosso dal Dipartimento di Studi Letterari, Filologici e Linguistici dell’Università degli Studi di Milano e dal gruppo di ricerca “Coordinate Dantesche”, e tenuto in occasione dai filologi Roberto Tagliani e Luca Sacchi. Il simposio verteva sui canti VIII e IX dell’Inferno ed ha fornito una base di conoscenza fondamentale alla stesura del presente articolo, in virtù dei magistrali interventi dei due professori.
Barbieri 2020 = Barbieri M., Torchio E. (relatore), Aspetti della corporeità nella Divina Commedia, Tesi di laurea della classe LM-14, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università degli Studi di Pavia, Pavia, 2020
Bassi 2020 = Bassi G., Filippo Argenti tra iracondi e superbi, 2020, in De Liso D., Caputo V. (redazione), Critica letteraria, vol.187, Paolo Loffredo Editore, Napoli, 2020, pp.211-238
Ferretti 1935 = Ferretti G., I due tempi della composizione della Divina Commedia, Laterza e figli, Bari, 1935
Fiorilla 2013 = Fiorilla M., “Io dico seguitando”, ripresa e sospensione del racconto alle porte di Dite, 2013, p. 3-11, in Mazzucchi A., Malato E., Cento canti per cento anni, Salerno editrice, Roma, 2013, pp.255-279
Macrì-Leone 1888 = Macrì-Leone F., La vita di Dante scritta da Giovanni Boccaccio / testo critico con introduzione, note e appendice di Francesco Macri-Leone, Sansoni, Firenze, 1888
Mecca 2021 = Mecca A. E., I manoscritti frammentari della Commedia, Ateneo Internazionale – Università per Stranieri di Siena, Siena, 2021
Robuschi 1986 = Alighieri D., Robuschi L. (note a cura di), Divina Commedia, ed. Gulliver, Vasto, 1986
Romagnoli 1933 = Romagnoli E., Il canto VIII dell’Inferno letto da Ettore Romagnoli nella Sala di Dante in Orsanmichele, in Lectura Dantis, G. C. Sansoni, Firenze, 1933, pp. 5-17
Toffanin 1960 = Toffanin G., Il canto VIII dell’”Inferno”, in Lectura Dantis Scaligera, F. Le Monnier, Firenze, 1960, pp. 5-11
Vallone 1951 = Vallone A., Intorno ai due tempi della composizione della Divina Commedia, 1951, pp. 143-151, in Lettere Italiane, vol. 3, n. 2/3, Casa Editrice Leo Olschki, Verona, 1951
Viel 2012 = Viel R., Ecdotica e “Commedia”: le costellazioni della tradizione nell’”Inferno” e nel “Paradiso” dantesco, Aracne Editrice, Roma, 2012
Viel 2018 = Viel R., «Quella materia ond’io son fatto scriba». Hapax e prime attestazioni della Commedia, Pensa MultiMedia, Lecce, 2018
Sitografia e discografia:
Caparezza, Argenti vive, in Caparezza., Museica, Universal Music Italia 2014
Caparezza, Canthology, in Caparezza, Exuvia, Universal Music Italia, 2021
Barbero 2020 = Barbero A., Dante: uomo del suo tempo, evento promosso da Rinascimento Culturale, Chiari, 2 novembre 2020, https://www.youtube.com/watch?v=V0lmfVRhWZw
Galavotti 2019 = Galavotti E., Il drammatico incontro di Dante con Filippo Argenti, 2019, in Homo Laicus, https://www.homolaicus.com/letteratura/argenti.htm, https://www.homolaicus.com/
Mazzoni 1970 = Mazzoni F., Chiose cassinesi, in Treccani, Enciclopedia Dantesca, 1970, https://www.treccani.it/enciclopedia/chiose-cassinesi_%28Enciclopedia-Dantesca%29/, https://www.treccani.it/
Mazzoni 1970 = Mazzoni F., Chiose Vernon, in Treccani, Enciclopedia Dantesca, 1970, https://www.treccani.it/enciclopedia/chiose-vernon_%28Enciclopedia-Dantesca%29/, https://www.treccani.it/
[1] La commemorazione del Dantedì, dapprima giunta in approvazione il 17 gennaio 2020 a seguito della proposta avanzata dall’allora Ministro della Cultura Dario Franceschini, avviene annualmente in data 25 marzo, data in cui avrebbe avuto inizio il viaggio di Dante nei tre regni dell’oltretomba. La datazione, oggetto di dibattito di lungo corso tra gli studiosi, è stata stabilita grazie alle indicazioni temporali che Dante stesso fornisce in passaggi quali Inf. I, vv.34-36 sull’apparizione della Costellazione dell’Ariete, e Inf. XXI vv.112-114 in cui si parla del crollo dei ponti che collegano le bolge del cerchio VIII alla morte di Cristo, esattamente “mille dugento con sessanta sei / anni”, il che coincide se si ritiene valido il criterio di datazione ab incarnatione che vede la nascita di Cristo segnata al 25 di marzo (cfr. Robuschi 1986:4, 104; cfr. anche Società Dante Alighieri, Il viaggio di Dante, in Sitografia).
[2] La dicitura è tratta dall’intervento di Alessandro Barbero in occasione dell’evento del 2 novembre 2020 a Chiari, promosso da Rinascimento Culturale, esposizione eccellente cui si rimanda in sitografia.
[3] Per una sinossi completa delle attestazioni della Commedia si rimanda a Mecca 2021.
[4] La questione del quadernetto è tano avvincente quanto complessa, pertanto si rimanda ai magistrali lavori di Ferretti 1935 e Vallone 1951, e per una prospettiva moderna si rimanda a Fiorilla 2013, Viel 2012 e Viel 2018.
[5] È noto alla critica come le fonti a cui Boccaccio attinse per la sua opera fossero ampiamente disparate, da ciò un’inevitabile fumosità di talune di queste.
[6] La questione delle anime ivi punite è in realtà assai complessa, per una soddisfacente sinossi si rimanda a Bassi 2020.
[7] La datazione qui proposta fa seguito alle ipotesi degli studiosi che ritengono che il viaggio dantesco abbia avuto inizio il giorno 8 di aprile del 1300.
[8] La figura di Flegiàs risale alla mitologia greca ove è indicato come figlio di Ares e Crise da Pausania, o di Ares e Dotis nello Pseudo Apollodoro. Secondo alcune leggende fu padre di Coronide. Le attestazioni latine nell’Eneide di Virgilio e nel Tebaide di Stazio riferiscono di un suo confinamento nel Tartaro per aver tentato di incendiare il tempio di Apollo a Delfi in vendetta dell’uccisione della figlia per mano di Artemide e ordine dello stesso Apollo.
[9] L’episodio rimanda, con effettiva precisione, al trasporto di Enea da parte di Caronte lungo il fiume Acheronte (cfr. Virgilio, Eneide, VI, 411-414).
[10] Anche questo episodio è un rimando all’epica virgiliana: nell’Eneide, Enea tenta invano di abbracciare la moglie Creusa (Ibidem II, 790-794) ed il padre Anchise (ibidem VI, 700-702).
[11] [Nota personale]: sin da quando dapprima lessi il canto I del Purgatorio ed il sopracitato passaggio, avvertii il potenziale che questi versi, carichi di speranza, possono avere nel cuore disposto all’ascolto. Preziosa lezione ci impartisce qui il Sommo Poeta, questi versi sono un inno all’amore della speranza, un invito ad uscire a riveder le stelle, sicuri che talvolta, questa speranza, risiede nella semplicità di una goccia di rugiada.
[12] Per approfondimenti sul tema si rimanda a Barbieri 2020.
[13] cfr. Boccaccio G., Esposizioni sopra la Commedia di Dante, Certaldo, 1374.
[14] Tale informazione sopraggiunge grazie a quanto tramandato dalle Chiose Cassinesi nel ms. Cass. 512 (589), e dalle Esposizioni boccaccesche.
[15] L’attestazione dell’episodio si ha, tra le varie fonti, nelle Chiose Vernon, ossia un commento trecentesco di Graziolo Bambagioli alla prima cantica, pubblicato dapprima anonimo da Lord Vernon nel 1848.
[16] In verità linguistica, bizzarro, di etimo incerto, non è qui da intendersi come “stravagante”, bensì come “colui che fa le bizze”, dunque propriamente una persona violenta.
[17] Per un’esaustiva trattazione riguardo tale argomento si rimanda a Bassi 2020.
[18] L’accostamento tra l’ira, il peccato dell’Argenti e degli iracondi tutti, e la figura del cane è già in un trattato di Sant’Agostino, ripreso da Dante tra le numerose fonti a cui attinse.
[19] La trattazione sulla questione dell’ira è plurisecolare, già una soddisfacente sinossi filosofica è presentata da Sant’Agostino nell’Ethica Nicomachea, IV, 5, e ripresa poi nel commento all’opera a firma di san Tommaso, senza dubbio una delle opere portanti nella strutturazione dei regni dell’oltretomba.
[20] Per approfondimenti sulla realtà socio-culturale, politico-economica e storiografica del Medioevo si rimanda, tra i tanti, ai lavori dell’esimio Jacques Le Goff.
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