La storia del pensiero antico sulla felicità si è incentrato su alcuni concetti e termini comuni. La felicità è il risultato dell’applicazione della virtù ed essa è alla portata dell’uomo, purché quest’ultimo si concentri nel pieno dispiegamento della sua stessa natura che, come abbiamo visto, è concepita essenzialmente nella sua razionalità. “Sii la tua ragione” poteva essere il comandamento comune alle teorie considerate sino ad ora e la visione dell’uomo come essere razionale è il fil rouge che unisce le teorie dell’antichità classica. Ma con l’avvento del cristianesimo si introduce un nuovo termine nella complessa equazione il cui risultato è la suprema felicità: il Dio creatore cristiano.
In queste pagine abbiamo già incontrato la figura del dio, ora declinata come puro pensiero di pensiero (il caso di Aristotele), ora declinata come provvidenza immanente nel mondo (come nella filosofia stoica), ora concepita come semplice entità indifferente rispetto alle sorti degli esseri umani (come sosteneva Epicuro). Ma nella filosofia cristiana e, come vedremo, nel pensiero di Agostino, il ruolo di Dio, un Dio creatore la cui essenza è l’amore, è di gran lunga di maggior spessore anche perché in Lui Agostino rintraccia la fonte stessa della felicità umana. Per tale ragione, il nostro percorso inizierà proprio da una succinta analisi di cosa sia il Dio di Agostino e quale sia la sua connessione con l’uomo e la felicità.
Come per la filosofia antica precedente, anche Agostino ritiene che la felicità sia fondata sulla verità, nel senso che essa deve essere la conseguenza della conoscenza diretta della realtà. Sebbene questo sia un principio comune a tutta la storia del pensiero antico, Agostino rivoluziona l’uso di alcuni termini in modo che essa sia compatibile con gli assunti della fede cristiana. Infatti, la verità di Agostino è Dio stesso e, per tale ragione, scriveremo la parola in maiuscolo:
Anzi per ciò stesso che la Verità suprema non è inferiore al Padre, essendo connaturata con Lui, non solo gli uomini, ma nemmeno il Padre giudica della Verità: tutto ciò che Egli giudica, lo giudica per la Verità (…) Comprendi dunque… o anima… se lo puoi, che Dio è Verità.
Dunque, Dio è Verità ma è anche la suprema realtà, ovvero “l’essere supremo”. Egli non è coincidente con la creazione, che è avvenuta grazie alla sua volontà e infinita potenza. Egli non è neppure equiparabile al creato, come neppure all’uomo perché Egli solo è l’essenza immutabile ed eterna. Per comprendere il punto, vale la pena richiamare la formulazione del dio tipicamente greco degli stoici. Come abbiamo visto, per gli stoici il dio è la razionalità immanente nel mondo e, per tale ragione, è il logos, principio ordinatore, di tutte le cose e di tutte le cose parte a vario grado. Quindi non è un dio creatore né un dio dotato di una sua volontà. Entrambe queste caratteristiche, invece, sono proprie del Dio di Agostino, il quale eccede assolutamente la nostra possibilità di esprimerlo fino in fondo: “Quando si tratta di Dio, il pensiero è più vero della e la realtà di Dio più vera del pensiero”. In un altro passo:
Concepiamo Dio… buono senza qualità, grande senza quantità, creatore senza bisogno (di ciò che crea), al primo posto senza collocazione, contenente tutte le cose ma senza esteriorità, tutto presente dappertutto senza luogo, sempiterno senza tempo, autore delle cose mutevoli pur restando assolutamente immutabile e senza patire alcun che.
Dio è dunque l’essere sommo, supremo, assolutamente perfetto ma anche impossibile da essere completamente ridotto alle sole categorie umane. Dio ha creato dal nulla (ex nihilo) il mondo per puro amore e senza alcun bisogno del creato stesso: “Dal nulla da te non di te furono create [tutte le cose], non da qualche materia non tua e preesistente, ma da una concreata, ossia da te creata con loro e portata loro e portata dall’informità alla forma senza alcun intervallo di tempo. (…) La materia deriva dal nulla assoluto, l’aspetto del mondo invece dalla materia informe. Eppure furono due operazioni simultanee, la forma successe alla materia senza l’interstizio di alcun ritardo” (Agostino, Le confessioni, XIII, 32, 47 – 48). Nulla di più lontano dal pensiero greco, che non avrebbe mai potuto concepire e concedere la creazione dal nulla. Questo, invece, è un punto essenziale non solo dell’intera filosofia cristiana e di Agostino, ma è anche fondamentale nell’economia della sua posizione sulla felicità. Dio, dunque, è l’essere supremo e creatore che crea pur senza bisogno del creato. Questo non significa, però, che Egli abbandoni le sue creature e, soprattutto, l’uomo. Infatti, Dio ha creato il mondo dal nulla non senza un costrutto preciso.
Anche Agostino accetta l’idea, già incontrata, secondo cui il mondo non procede a caso. Dio, infatti, ha impresso un ordine nella creazione ed essendo Lui un essere assolutamente buono, anche l’ordine interno alla creazione è buono. Il mondo si svolge seguendo l’impressione che Dio ha dato nel momento della creazione: la provvidenza è l’intelligenza divina operante nel mondo per il massimo bene possibile. Così il teologo di Tagaste si esprime ne La città di Dio, dove considera da vicino i temi e i problemi della filosofia della storia. In questo passo, in cui si esplicita il ruolo della provvidenza rispetto all’ascesa e caduta dei domini umani, si comprende in che modo Agostino pensasse al ruolo di Dio nel creato:
La causa dunque della grandezza dell’impero romano non è né casuale né fatale. È la terminologia della teoria o sistema di coloro i quali considerano casuali quegli eventi che non hanno alcuna causa e non provengono da un ordinamento razionale, fatali quegli eventi che per deterministica necessità di un ordinamento si verificano indipendentemente dal volere di Dio e degli uomini. Al contrario gli imperi umani sono determinati direttamente dalla divina provvidenza. E se qualcuno li attribuisce al fato perché chiama fato il volere o potere di Dio, conservi pure la propria teoria ma rettifichi la terminologia. Per quale ragione non spiega in partenza il concetto che dovrà spiegare in seguito quando gli verrà chiesto che cosa intende per fato? Infatti quando si sente questa parola nel linguaggio usuale s’intende soltanto l’influsso della specifica posizione degli astri quando si nasce o si è concepiti; ma alcuni considerano il fato indipendente dalla volontà di Dio, altri invece affermano che anche esso dipende dal suo volere. Ma coloro i quali ritengono che gli astri determinano, indipendentemente dal volere di Dio, le azioni che si compiranno, il bene che si avrà, il male che si subirà, non devono essere ascoltati non solo da coloro che professano la vera religione. (Agostino, De civitate dei, Libro V, I).
Dio è, così, l’essere supremo, intelligenza prima ed è Verità. Dio è totalmente altro dal creato, anche se ha impresso il suo ordine nel cosmo, Egli è piuttosto diverso anche dagli esseri umani, che vivono nel tempo e nella finitudine, come l’uomo può cogliere Dio? Agostino dedica pagine memorabili a questo tema in cui egli tenta di comprendere la via dell’uomo verso Dio.
L’uomo è stato creato ad immagine di Dio da Dio stesso. L’uomo è anima razionale ed è, in tal senso, simile a Dio, sebbene Dio stesso sia totalmente altro. L’uomo può ritrovare Dio dentro di sé, ovvero attraverso la sua anima, che assomiglia a Dio perché è una e trina anch’essa, come Dio è uno e trino: “Dunque, la mente, la sua conoscenza e il suo amore sono tre cose e queste tre cose sono una sola e, quando sono perfette, sono uguali”. Inoltre, Agostino sottolinea l’importanza dell’intelletto all’interno della conoscenza che l’uomo ha di Dio: “Bisogna piuttosto ritenere che la natura dell’anima intellettiva è stata fatta in modo che, unita, secondo l’ordine natura disposto dal Creatore, alle cose intellegibili, le percepisce in una luce incorporea speciale, allo stesso modo che l’occhio carnale percepisce ciò che lo circonda, nella luce corporea, essendo stato creato capace di questa luce e a essa ordinato” (Agostino, Trinità). Quindi Dio è intellegibile.
Ma la contemplazione di Dio non è, per Agostino, un fatto puramente intellettuale, non è una forma di trascendenza priva di emozione, come poteva apparire il pensiero umano a cospetto del dio di Aristotele. Al contrario, per Agostino Dio è principalmente amore in un senso profondamente carico di sentimenti ed emozioni. Non si tratta più di una semplice intellezione di un principio più vasto dell’anima umana in cui l’uomo può contemplarsi come parte, si tratta più propriamente di una partecipazione attiva dell’anima umana da un punto di vista interiore ed emotivo:
Ma che amo, amando Te? Non una bellezza corporea, non una leggiadria transitoria, non un fulgore come quello della luce, che piace a questi occhi, non dolci melodie di canti d’ogni specie, non soave profumo di fiori, di unguenti, di aromi, non manna e miele, non membra gioconde all’amplesso carnale. Non codeste cose amo io, amando il mio Dio. E tuttavia amo, per così dire, una luce, una voce, un profumo, un cibo, un amplesso, quando amo il mio Dio, luce, voce, profumo, cibo, amplesso, dell’uomo interiore che è in me, dove risplende nell’anima mia una luce che non si sperde nel luogo, dove risuona una voce che il tempo non rapisce, dove odora un profumo che il vento non disperde, dove gusto un sapore che a voracità non diminuisce, dove mi stinge un amplesso che la sazietà mai discioglie. Questo è quello che io amo, quando amo il mio Dio. (Agostino, Confessioni).
A questo punto siamo pronti ad entrare nel merito dell’idea che Agostino ha della felicità, esplicitamente considerata nelle Confessioni. Dio è la fonte della felicità umana in questo mondo e nell’altro, cioè nella vita dopo la morte. Come abbiamo visto, Dio è Verità ed è dalla conoscenza della Verità che l’uomo può emanciparsi dai patemi e dalle disgrazie del mondo. Come già gli stoici e gli epicurei, anche Agostino ritiene che la causa di una vita felice sia nella conoscenza della verità ma, in questo caso, con verità si intende appunto Dio. L’uomo, da solo, non è in grado di giungere alla felicità. La sola ragione, infatti, senza fede, non conduce alla conoscenza di Dio ma, al contrario, può addirittura allontanarlo: la curiositas umana può essere male indirizzata e così allontana l’uomo da Dio. Non ogni conoscenza è buona, non ogni sapere conduce alla liberazione dal male. Quindi, la ragione non conduce alla Verità, come neppure i normali appetiti, anche quando dominati dalla ragione. Agostino discredita nettamente ogni condiscendenza al piacere e ai beni terreni che sono forieri di distrazione dall’unica Verità. Per riassumere tanto l’avversione nei confronti della curiositas quanto dei beni transeunti, non si può essere più chiari di Agostino stesso:
S’aggiunge un’altra forma di tentazione, pericolosa per molteplici ragioni. Esiste infatti nell’anima, oltre la concupiscenza della carne, che risiede nella soddisfazione voluttuosa di tutti i sensi, cui si asserviscono rovinosamente quanti si allontanano da te [Dio], una diversa bramosia, che si trasmette per i medesimi sensi del corpo, ma tende, anziché al compiacimento della carne, all’esperienza mediante la carne. E’ la curiosità vana, ammantata del nome di cognizione e di scienza.
Tuttavia, la ricerca della felicità è qualcosa di universale, che si trova tanto nei pagani quanto nei cristiani. Si tratta di qualcosa di intrinsecamente connaturato alla condizione umana, ci dice Agostino. L’unica forma di felicità possibile non è quella dei sensi, quale che ne sia la forma. Ovvero, non è nulla che si trovi nel corpo ma neppure si tratta del risultato della ragione che, come abbiamo visto, corre il rischio di avventurarsi nella vana curiositas, assolutamente perniciosa per la ricerca della Verità. Dio è la fonte della vera felicità e l’uomo può ritrovare la libertà dalla sofferenza perpetua solamente nella contemplazione di Dio: “Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità della vita”. E quindi come subito dopo si chiede lo stesso Agostino: “Come cerco dunque la felicità?”
La felicità è un’esperienza universale anche quando finita e imperfetta: tutti portiamo il ricordo di una forma di essa. L’immagine universale più chiara per intendere la felicità, secondo il teologo, è la beatitudine, cioè il godimento associato alla partecipazione di una cosa amata in sé. In questo caso, dunque, si tratterà del godimento provato dalla congiunzione dell’uomo in Dio: “C’è un godimento che non è concesso agli empi, ma a coloro che ti servono per puro amore, e il loro godimento sei tu stesso [Dio]. E questa è la felicità, godere per te, di te, a causa di te; fuori di questa non v’è altra” (Agostino, Confessioni, Libro X, 21, 30 – 22, 32).
Nonostante Agostino parta dall’assunzione che tutti ricerchino la felicità, ne conclude che in realtà non tutti la vogliono davvero: “Dunque non è certo che tutti vogliono essere felici: quanti non cercano il godimento di chi, come te, è l’unica felicità della vita, in realtà non vogliono la felicità. O forse tutti la vogliono, ma, poiché le brame della carne sono opposte allo spirito e quelle dello spirito alla carne, sé che non fanno ciò che vogliono…” (Agostino, Confessioni, Libro X, 23, 33). Solamente il vero cristiano, colui che accetta la Verità in sé, è capace di provare la vera e sola felicità di questa vita, come ci dice Agostino, ovvero l’accettazione stessa di Dio: solo il vero cristiano desidera davvero essere felice nel senso che rigetta ogni altra forma di falsa felicità (e quindi non si potrebbe parlare propriamente di “felicità” in questo caso). D’altra parte, per la fragile condizione umana e per la sua finitudine, la felicità più pura non può essere di questo mondo ma sarà pura e piena solamente nell’altro, quando l’anima che ha accolto la Verità avrà finalmente l’opportunità di contemplare Dio nella sua interezza.
La visione della felicità di Agostino è tanto diversa da quella del mondo greco-romano classico quanto è distante la sua metafisica. Partendo da considerazioni non poi così distanti dalla filosofia antica che pur padroneggiava, il teologo di Tagaste arriva a conclusioni molto lontane rispetto a quelle della filosofia greca reinterpretando antichi concetti alla luce della nuova fede. Innanzi tutto, e vale la pena rimarcarlo, egli è il primo a sostenere che la felicità umana terrena non è la massima forma di felicità possibile. Anche per la tradizione classica non lo era, ma in un modo molto differente. Infatti, per la filosofia precristiana che abbiamo considerato, la felicità umana non era né di qualità né di dimensione differente rispetto a quella dei vari dei delle concezioni del mondo antico. Ciò che cambiava era la frammentazione e la condizione di permanente incertezza della stessa felicità. Solo gli stoici erano arrivati al dire che, una volta acquisita, la felicità non si può più perdere. Ma anche loro non consideravano la felicità umana differente dalla felicità del dio. Nel caso di Agostino, invece, la cesura non può essere più netta: la felicità umana nella sua forma illusoria è pura lontananza da Dio e, dunque, non solo è falsa ma è pure malvagia.
La felicità umana, nella sua forma perfetta, è contemplazione di Dio, l’unica fonte della felicità. Ma dato il fatto che la felicità umana terrena è commisurata alla finitudine intrinseca anche dell’anima più santa, essa non è e non sarà pari alla sola vera felicità umana ultraterrena. Solo la contemplazione pura e perfetta di Dio consente all’essere umano una felicità che, appunto, non è di questo mondo. Concludiamo, allora, con le struggenti parole di Agostino, ben conscio della tensione permanente presente in lui e nel suo pensiero:
Quando mi sarà unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te. Tu sollevi chi riempi; io ora, non essendo pieno di te, sono un peso per me; le mie gioie, di cui dovrei piangere, contrastano le afflizioni, di cui dovrei gioire, e non so quale parte stia la vittoria; le mie afflizioni maligne contrastano le mie gioie oneste, e non so da quale parte stia la vittoria. (…) Non è, forse, la vita umana sulla terra una prova?
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