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Epicuro – Felicità tra assenza di dolore e pace dell’anima

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Epicuro è probabilmente il filosofo che più di ogni altro ha cercato di indicare una via per la felicità percorribile per ogni essere umano. Non c’è alcuna enfasi nel sostenere che l’intera ricerca intellettuale di Epicuro è devoluta proprio a questo scopo ed egli stesso considerava la filosofia come “una cura per l’anima” la quale poteva essere tutelata seguendo la via del “quadrifarmaco”, ovvero una sorta di summa del suo pensiero. Inoltre, Epicuro è stato il primo ad articolare una teoria della felicità in accordo con una visione sofisticata del piacere. Ma nonostante la centralità del piacere all’interno della sua teoria, la via della felicità di Epicuro è tutt’altro che accondiscendente con la vita mondana, almeno nei suoi tratti più frivoli, ed egli considera in modo intelligente e non banale il rapporto tra felicità e piacere.

La filosofia epicurea è stata criticata sin dall’antichità per aver insistito sulla centralità del piacere all’interno della vita felice. In realtà, già i cirenaici avevano una visione del godimento relativamente simile a quella epicurea, ma loro si limitavano a considerare il piacere presente. Epicuro, invece, non solo ritiene che il piacere presente non sia necessariamente il più importante, ma egli distingue diversi tipi di piacere e ne definisce in modo decisamente diverso i limiti e i contorni. Per tutte queste ragioni, la filosofia epicurea è ancora di grande attualità e non è certo un caso che, trasversalmente, è stata una delle filosofie più influenti durante il periodo romano e, poi, nel rinascimento, periodi in cui l’interiorità e la centralità dell’uomo erano due cardini fondamentali della visione del mondo del tempo. Non solo, ma come vedremo, illustri filosofi moderni si richiamarono ad Epicuro e ancora oggi esistono filosofie edoniste. Il motivo di questo grande successo, secondo illustri commentatori, risiede proprio nella straordinaria capacità della filosofia epicurea di parlare ad almeno una parte dell’anima umana come poche altre filosofie hanno saputo fare.

Epicuro parla in un’epoca di decadenza della vita civile e dei valori della Grecia classica, un periodo in cui la caducità dell’esistenza era avvertita dai contemporanei, i quali si sentivano impotenti e lontani dalle istituzioni e dalla vita politica delle loro comunità. Se con Platone e Aristotele il centro della riflessione era il cittadino e il suo ruolo all’interno della città, con Epicuro il problema diventa l’interiorità stessa dell’individuo. Per questa ragione, la ricerca della perfezione dei comportamenti, che conseguono in una vita felice, è l’obiettivo dell’etica epicurea, mentre ancora per Aristotele, come abbiamo visto, l’etica è molto legata alla filosofia politica: la stessa vita politica è considerata dallo Stagirita come il modello di vita felice non meditativa capace di rivaleggiare con la vita contemplativa del filosofo. Epicuro considera la politica come un’attività degenere e la sua stessa scuola, il Giardino, si trovava in campagna, in luoghi lontani dalla vita civile, con tutti i suoi problemi e il suo carico di conflittualità. Evidentemente, la felicità è possibile, ma a determinate condizioni. Cerchiamo allora di capire quali.

Come abbiamo visto, Epicuro fonda l’etica sulla felicità. E mostrare che la felicità è possibile e in che modo è l’intero scopo di tutta la sua filosofia. Egli propone una metafisica e un’epistemologia ad hoc per mostrare in che modo è possibile la felicità. Non è questo il luogo per riportare l’intera filosofia di Epicuro, compito che eccede i nostri scopi. Tuttavia, per comprendere i presupposti da cui il filosofo procede, vale la pena considerare due tesi principali, esplicitamente considerate nella celeberrima Lettera a Meneceo, testo interamente dedicato alla felicità e ancora capace di stupire il lettore del XXI secolo.

Iniziamo, dunque, dalla prima tesi in ordine logico. La felicità è possibile perché la divinità non è malevola. La filosofia di Epicuro non rigetta l’esistenza degli dei, pur proponendo una visione che, in termini moderni, chiameremmo “materialistica” e questo non può che essere causa di un certo stupore, come giustamente osserva Giovanni Reale. Infatti, Epicuro sostiene che le evidenze a sostengo dell’esistenza degli dei sono tali da essere irrefutabili. Così ci dice Cicerone in un passo che Usener riporta nel corpus integrale delle opere su Epicuro: “Solo Epicuro, infatti, si rese conto in primo luogo che gli dei esistono, poiché la natura stessa impresse la loro nozione negli animi di tutti”.[1] Tuttavia, questi dei non si interessano delle cose degli uomini, essendo esseri perfetti: “Per prima cosa tu devi considerare la divinità come un essere indistruttibile”, ci dice Epicuro e poi conclude “Infatti gli dei, che di continuo sono dediti alle loro virtù, accolgono i loro simili, mentre considerano estraneo tutto ciò che non è simile ad essi”. In sostanza, Epicuro afferma l’esistenza degli dei, ma questi sono in sé perfetti e non si curano di niente che non li riguardi. Eppure gli uomini sono continuamente timorosi degli dei e dei voleri di questi. E il filosofo, infatti, assume nella sua filosofia che gli dei esistono (perché l’evidenza è sempre foriera di verità, secondo la sua teoria epistemologica) ma che non sono mai malevoli. Sono le opinioni degli uomini che, invece, possono essere fallaci e infatti è fatto comune attribuire agli dei caratteristiche che non hanno. La felicità è possibile, da questo punto di vista, perché gli dei non sono esseri capricciosi e non sono contrari alla nostra felicità come, per altro, non lo sono alla nostra infelicità. In questo Epicuro si discosta tanto dal dio di Aristotele, come abbiamo già avuto modo di vedere, quanto da quello di Agostino, come chiariremo più avanti.

Questa prima tesi di Epicuro, dunque, è sufficiente a garantire che la felicità è salva dalla volontà degli dei. Ma se esistesse un destino, tema pervasivo di tutta la cultura greca, allora la nostra felicità non solo non risiederebbe nelle nostre mani, ma per alcuni sarebbe addirittura impossibile. Potremmo essere destinati all’infelicità perpetua perché, in quanto uomini inseriti in un mondo più vasto di noi, potremmo essere solo delle marionette nelle mani del fato. Per aggirare questo periglioso argomento, Epicuro si impegna ad una analisi metafisica che non lascia spazio all’esistenza di un destino determinato in modo rigido. In termini filosoficamente più rigorosi, il filosofo rigetta una forma forte di meccanicismo, ovvero l’idea che la libertà umana sia completamente annichilita dall’insieme delle leggi della natura e dalla consistenza della sua sostanza, che determinano tutti gli accadimenti possibili nell’universo.

Senza addentrarci nella sua filosofia della fisica, basti dire che Epicuro sostiene che il mondo è determinato dagli atomi, che si spostano nel vuoto, come già aveva sostenuto Democrito. A differenza di quest’ultimo, però, il filosofo sostiene che gli atomi ammettono un movimento casuale, il clinamen, che rende gli accadimenti fisici relativamente imprevedibili. Epicuro, dunque, arriva ad una tesi straordinariamente simile alla più complessa teoria della fisica attuale, la fisica quantistica: il mondo dell’infinitamente piccolo è imprevedibile perché il comportamento delle particelle lo è. Così Epicuro arriva a concludere semplicemente che il destino non esiste. Ma il mondo non è neppure così imprevedibile: all’uomo non è preclusa la strada della felicità e quest’ultima dipende almeno in parte da lui. Quindi, l’uomo non deve crucciarsi perché talvolta la sorte non lo asseconda: non esiste alcuna sorte malevola. Allo stesso tempo, egli ha ragione di sperare nel futuro perché non è mai negata la migliore delle possibilità.

Queste due premesse consentono ad Epicuro di sostenere che nulla nel mondo è contrario alla felicità umana e quest’ultima è possibile. Ma il fatto che qualcosa sia possibile in linea di principio, non è ancora la prova della sua esistenza. A questo punto dobbiamo addentrarci nella strada per la felicità indicataci da Epicuro stesso.

Abbiamo detto che la filosofia epicurea è una cura per l’anima, il cui benessere è garantito dall’assenza di turbamenti. Come nel caso degli dei, il problema non risiede in loro ma nelle opinioni che gli uomini si formano su di loro. La genesi del turbamento è, per ciò, un problema epistemologico, attiene alle nostre credenze e alle nostre conoscenze, e non, invece, alla natura delle cose. Quasi tutte le tribolazioni più angoscianti dipendono da questo errato modo di concepire fatti della realtà che, invece, si risolvono in poco. Come già nelle due tesi precedenti, Epicuro deve difendere l’idea che l’anima può essere libera da turbamenti ed egli difende la sua posizione prendendo il caso più estremo possibile: la morte. La semplicità e la potenza del suo argomento sono tali che è impossibile non riportare il brano integralmente:

Abituati a pensare che per noi uomini la morte è nulla, perché ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni. Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio dell’immortalità. Infatti non c’è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c’è niente da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche temere la morte perché è dolorosa attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco che la morte ci porti dolore mentre l’attendiamo. Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci. (Epicuro, Lettera a Meneceo)

Queste parole sono giustamente entrate nella storia della filosofia e sono tali da mantenere intatta tutta la loro forza anche per il lettore più smaliziato. Il ragionamento di Epicuro può essere considerato in questo modo: l’uomo ha paura della morte. La morte è un fatto innegabile ma essa non è il vero problema, non è la causa del turbamento dell’anima. Infatti, il turbamento dell’anima è dovuto alla paura, non alla morte in sé stessa. E per dimostrarlo il filosofo semplicemente porta alle estreme conseguenze il ragionamento. Se la morte è la nostra assenza, allora non provoca alcun dolore. E quindi, in sé, essa non deve procurarci alcun turbamento. Ma a maggior ragione non la dobbiamo temere quando siamo vivi, proprio perché, se lo siamo, allora la morte non c’è. Da ciò ne segue che nessun turbamento, neppure il più profondo, ha ragion d’essere. Ed è in questo soprattutto che si può vedere con estrema chiarezza il motivo per cui la filosofia epicurea fu definita e pensata come “cura dell’anima”: la ragione è a servizio della dissoluzione delle paure dell’uomo.

Tuttavia, sebbene il percorso incominci a delinearsi, siamo ancora lontani da una teoria costruttiva sulla felicità umana. In fondo, anche l’argomento precedente ci dice soltanto che l’uomo non è minato dall’interno, come non lo era dall’esterno, per quanto già detto. Ma allora come deve comportarsi l’uomo che voglia raggiungere la felicità? Per comprendere questo è necessario descrivere la teoria del piacere e del dolore secondo Epicuro.

Il piacere e il dolore sono i moventi delle azioni umane perché tutti cerchiamo il piacere e rifuggiamo il dolore, assunzione questa che è esplicitamente considerata dal Nostro. Tuttavia, Epicuro distingue due tipi di piaceri: il piacere cinetico e il piacere catastematico. Per capire la differenza è utile pensare ad un esempio. Quando un uomo si siede alla tavola imbandita di ogni prelibatezza e inizia a mangiare, egli trae il piacere dalla soddisfazione del bisogno di mangiare.

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Questo genere di piacere è chiamato “cinetico”. Immaginiamo, adesso, un uomo attanagliato dalle pene d’amore che pensa “nella migliore delle ipotesi, lei mi amerà e io l’amerò. Se invece lei non mi amerà, allora io non l’amerò e tenterò un’altra via. Quindi, non ho alcuna ragione per preoccuparmi perché in entrambi i casi so cosa succederà e nulla sarà così nocivo dal privarmi di una mia tranquillità”. Il piacere catastematico è l’assenza di turbamento dell’anima perché Epicuro considera l’assenza del dolore la principale forma di piacere. Prima di spiegare questo punto non intuitivo, vale la pena di riprendere un passo in cui Diogene Laerzio ci parla del piacere catastematico in modo chiaro:

Infatti, noi non perseguiamo soltanto ciò, che con una certa dolcezza commuove la natura stessa e con una certa giocondità viene percepito dai sensi, bensì riteniamo piacere sommo quello che si percepisce quando ogni dolore sia stato rimosso. Infatti, poiché, quando siamo liberati dal dolore godiamo di questa stessa liberazione e mancanza di ogni fastidio, e poiché, d’altra parte, tutto ciò di cui godiamo è piacere, così come ciò da cui rimaniamo offesa è dolore, la privazione di ogni dolore è stata giustamente denominata “piacere”. (Diogene Laerzio, X, 136).

Sebbene i piaceri catastematici siano i più importanti e dipendano proprio dall’uso della ragione, Epicuro sa che gli uomini devono soddisfare anche le esigenze dettate dalla loro natura, per potersi garantire la felicità, come abbiamo appena visto con i piaceri cinetici. Queste esigenze sono, appunto, i bisogni ed Epicuro ne distingue tre generi: naturali e necessari, naturali e non necessari, non naturali e non necessari. Mangiare un salubre pasto a pranzo e a cena è un desiderio necessario e naturale, ma mangiare pane bianco con salame non lo è. Avere voglia di mangiare una pizza, dice Epicuro, è un desiderio naturale (per via della fame) ma non necessario (perché la qualità del cibo non è inscritto all’interno delle esigenze poste dalla sola natura umana). Anche il sesso è considerato un desiderio naturale ma non necessario perché, senza di esso, l’individuo non perde niente e, con esso, guadagna poco. Questa visione sorprendentemente negativa del sesso ha una sua ragion d’essere su cui torneremo tra pochissimo. Infine, i desideri non naturali e non necessari sono tutti quelli indotti dalle vane opinioni umane.

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Epicuro propone un celebre principio di selezione per stabilire quali desideri bisogna perseguire e a quali piaceri bisogna tendere: seleziona ciò che massimizza il piacere e minimizza il dolore. Il principio è rivolto al singolo individuo, rispetto ai suoi propri desideri, e non all’intera società, come vedremo nell’utilitarismo. Inoltre, non si deve mai perdere di vista il fatto che con “piacere” Epicuro intende soprattutto “piacere catastematico” ovvero “assenza di dolore”. Quindi, il principio suona molto vicino a qualcosa del genere “minimizza il dolore per massimizzare il piacere catastematico”. E il risultato è la celebre assenza di turbamenti: questo è il vero ideale epicureo. L’ideale epicureo è una forma assoluta indipendenza dell’individuo da qualsiasi cosa diversa da sé e, per questo, si parla di “autarchia”. Inoltre, proprio perché l’individuo autarchico è libero dai turbamenti dell’animo, i quali conseguono nel piacere catastematico, egli ricade in una condizione di pura pace interiore. Questa condizione è chiamata “atarassia” e costituisce l’ideale di perfezione epicurea, comune alla visione stoica, pur con tutte le differenze tra le due correnti filosofiche:

Infatti, noi compiamo tutte le nostre azioni al fine di non soffrire e di non avere l’animo turbato. Ottenuto questo, ogni tempesta interiore si placherà, perché il nostro animo non desidera nulla che gli manchi, né ha altro da cercare perché sia completo il bene dell’anima e del corpo. Abbiamo infatti bisogno del piacere quando soffriamo perché esso non c’è. Quando non soffriamo, non abbiamo neppure bisogno del piacere. (Epicuro, Lettera a Meneceo).

L’atarassia è una condizione prossima alla piena e perfetta soddisfazione che nasce esclusivamente da se stessi e dalla serenità della propria anima. Questo significa, nella visione di Epicuro, che la maggior parte dei desideri non indirizza gli uomini verso la vera felicità. Infatti, i desideri non naturali e non necessari indirizzano l’uomo a ricercare una soddisfazione materiale che facilmente si traduce in tribolazioni e dolore. Ad esempio, la ricerca di un tenore di vita estremamente oneroso conduce all’ansia perpetua per una carriera rapida e veloce. Quale che sia il vantaggio materiale conseguito da una simile spasmodica ricerca del vertice non compensa in alcun modo il prezzo da pagare. Quindi i desideri non necessari e non naturali sono considerati come i più degni avversari della felicità. Vediamo, dunque, come si esprimeva lo stesso Epicuro sull’argomento:

Ma proprio perché esso [il piacere] è il bene primo ed è a noi connaturato, noi non ci lasciamo attrarre da tutti i piaceri; al contrario, ne allontaniamo molti da noi quando essi seguano dei fastidi più grandi del piacere contrario, ne allontaniamo molti da noi quando da essi seguano dei fastidi più grandi del piacere stesso. (Epicuro, Lettera a Meneceo).

I desideri possono dunque indirizzarci verso l’infelicità e le perturbazioni dell’animo. Sicuramente questo riguarda i desideri non necessari e non naturali. Un’opinione altrettanto netta, sebbene più sfumata, riguarda i desideri naturali e non necessari, primo tra tutti il sesso. Come esempio, si portava l’immagine dell’innamorato che si libera dalle pene d’amore ragionando sul fatto che la migliore e la peggiore delle ipotesi non comportavano una rivoluzione così drammatica della vita. In realtà, Epicuro sarebbe stato molto più estremo: egli esplicitamente sostiene che la ricerca del sesso è di per sé causa di mali molto più di quanto sia causa di beni. Il piacere che se ne acquista è ben poca cosa in confronto al malessere complessivo che esso può comportare. Vale la pena considerare il passo esplicito della Lettera a Meneceo:

Infatti non danno una vita felice né i banchetti né le feste continue, né il godersi fanciulli e donne, né il godere di una lauta mensa. La vita felice è invece il frutto del sobrio calcolo che indica le cause di ogni atto di scelta o di rifiuto, e che allontana quelle false opinioni dalle quali nascono grandissimi mutamenti. (Epicuro, Lettera a Meneceo).

Se l’ideale epicureo è quello dell’atarassia, che procura piacere catastematico attraverso un “sobrio calcolo”, si può comprendere perché alcuni commentatori hanno parlato di “ascetismo” nei confronti della filosofia epicurea, arrivando così all’inversione delle usuali opinioni su questa corrente filosofica. Inoltre, proprio per tutte queste ragioni, l’epicureismo non è affatto una filosofia incline alla dolce vita ma, al contrario, sostiene che la felicità sia possibile a condizione che l’uomo impieghi la propria ragione per calcolare i costi e benefici delle proprie azioni in cui l’obiettivo finale è l’atarassia, la pace interiore, l’assenza di turbamento, la serenità dell’anima. Quindi, la ragione gioca un ruolo fondamentale nella comprensione dei desideri, nella dissoluzione delle false opinioni e nel calcolo dei costi e benefici.

Non fu solo la filosofia di Epicuro ad essere capace di parlare ad una cospicua parte della comunità umana. Epicuro stesso si portò ad esempio della sua filosofia. Come già Socrate, e poi gran parte dei filosofi ellenistici, anche per il filosofo del Giardino più importante della teoresi era la prassi. E così è noto che egli morì tra atroci sofferenze, ma pur sempre continuando a filosofare, fatto che è diventato aneddoto prima e luogo comune per indicare il filosofo virtuoso. Per concludere con le parole di Ettore Bignone, uno dei massimi esperti di Epicuro:

Queste due morti [di Socrate e di Epicuro], così diverse e pur così greche entrambe, segnano il limite di due età, e rappresenteranno per l’uomo antico il suggello di due tipi umani e di due forme sprituali, con propria fede e devozione: l’imitatio Socratis, e l’imitatio Epicuri. (Bignone, Epicuro, cit., pp. 40).


[1] Cicerone, De nat, deor., I, 19, 50 = fr. 352, p. 235, 10 sgg. Usener.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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