Per il filosofo Deleuze, tanto l’arte quanto la musica non ricercherebbero l’invenzione d’una forma, bensì la captazione d’una forza. Certo il fenomeno estetico ha una qualità riproduttiva, ma nel complesso ci espone solo l’intensità della sua rappresentazione. Di conseguenza, per Deleuze in linea generale nessun’arte è unicamente figurativa. La stessa idea della rappresentazione diventa subito mutevole. L’arte deve darci una percezione di sé in via dinamica, così pare impossibile coglierne dei “limiti”, la cui accettazione è necessaria per postulare ogni tipo di configurazione. Klee ha sostenuto che la sua pittura “non rende il visibile, ma rende visibile”. Una tesi che secondo la comune storiografia d’arte fonda solo la specificità d’una corrente estetica: quella dell’astrattismo. Deleuze invece legge il pensiero di Klee in modo universale, come se nella sua pittura non si riproducesse nemmeno l’irrappresentabile. Una concezione ben oltre il classicissimo astrattismo! Il quadro non va visto, preferendo che “si veda… di stare a vederlo”. Ciascuna prospettiva si fonda a partire da certi “limiti”, che la rendono stabilizzata. Deleuze ricorda che per la fisica qualunque sensazione (visiva, olfattiva, uditiva ecc…) nascerà da una forza. Un occhio è teso verso ciò che guarda, l’orecchio si pone in ascolto del suono, la mano trattiene in sé il calore o la freschezza. Nel contempo però l’uomo non “sente” quel dinamismo, bensì la sua “stabilità di rappresentazione”. Invero, noi abbiamo la percezione d’una forza olfattiva, uditiva, tattile ecc… Ciascun uomo non vedrà con l’occhio in sé, ma con l’occhio che guarda (con quello che rappresenta se stesso), il quale si pone unicamente mediante la propria configurazione. L’opera d’arte agisce diversamente. Essa fa in modo che “noi sentiamo… la sensazione in se stessa”, nella sua qualità d’un dinamismo. Col fenomeno estetico accadrà che la visione, il tatto o l’ascolto ecc… rimarranno “impercettibili”, senza passare nel medium della loro rappresentazione. L’autentica pittura ci consente di “guardare la forza dello sguardo”, anziché la sua riconfigurazione, in qualcosa di preciso e determinato. Del resto, sappiamo che dipingere il dinamismo astratto del tempo e quello più fisico della pressione o della gravitazione è molto problematico. Lì, la capacità del pittore si misura sul serio in base a quanto rende “intenso” il suo quadro. Deleuze aggiunge che dipingendo la captazione d’una forza questa è di continuo “scombinata e ricombinata”. Nella celebre pittura del Rinascimento ad esempio succede che il quadro mostri dentro di sé la “tensione”, tra le differenze d’inclinazione prospettica, nelle forme che si rappresentano col loro ricongiungimento al “punto comune di fuga”. Secoli dopo, la concezione impressionistica dell’arte richiede che i colori vengano tecnicamente “scombinati e ricombinati” assieme. S’userà la pennellata rapida (che certo percepiamo di coesione, ma nell’instabilità e fugacemente).
Pochi anni dopo, l’estetica cubista esibisce bene quanto la forma (l’essenza) d’una qualche figura si dà sempre universalizzandone la tipicità (la diversità) dei limiti visivi, sovrapposti i loro pregiudizi di prospettiva. In linea più generale, per Deleuze è evidente che ogni forza richiede un movimento, i cui punti spazio-temporali vanno necessariamente succedendosi. Una condizione, questa, che ci pare subito di tipo “scombinante e ricombinante”. Per Deleuze, la percezione della forma si dà precisamente entro la tensione dell’occhio che guarda qualcosa, il porsi dell’orecchio in ascolto, il calore o la freschezza trattenuta dalla mano. Sappiamo che egli studiò la pittura di Bacon, avanzando la celebre distinzione fra il concetto di figura e l’avverso di figurazione. Col primo Deleuze inquadra la forma che si dà percependola coi sensi, col secondo quella che teniamo nel suo rappresentare l’intenzionalità.
Nei quadri di Bacon, si metterà in mostra essenzialmente la figura. Egli dipinge una forma che il nostro occhio tende a guardare continuamente, impedendone la stabilità della rappresentazione. Bacon esibisce letteralmente la sensazione visiva, che “scombina e ricombina” i limiti della mera figurazione. Egli dipinge forme che noi “guarderemo… di guardare”. Ne consegue che la tensione dentro la sensazione visiva “contagia” pure l’occhio che l’aveva cominciata (ossia genericamente una precisa parte del nostro corpo). Guardando… di guardare, lo sguardo trasforma lo stesso organo con cui si guarda! Nelle tele realizzate da Bacon non esistono delle sensazioni visive, bensì “combinazioni e ricombinazioni” successive d’una sola fra quelle. Ciò vale ammettendo per l’appunto che “si guarda… guardando lo sguardo”, che preso in se stesso è ovviamente unico. Nei quadri di Bacon, ciascuna figura si costruisce tramite “una sorta d’accumulo visivo”. Sembra quasi che lo sguardo vada a depositarsi. Deleuze ricorda che la roccia calcarea si dà come tale solo perché si delinea “volta per volta”, nella sintetizzazione di sé (annullando progressivamente la pluralità d’ogni sedimento). Nel caso di Bacon, però, a “depositarsi” è sempre lo stesso elemento: lo sguardo. Una situazione che Deleuze paragona a quella del sangue che va coagulandosi. Anch’esso si dà in via sintetica, ma a partire solo da se stesso. Secondo Deleuze, Bacon ha dipinto la “forma coagulante (ricombinante) della visione”, nel momento in cui sembra preferire che noi “guardiamo di guardare la figurazione”. Egli mette in mostra non tanto l’occhio che osserva qualcosa, ma quello che osserva e basta. Deleuze aggiunge che guardare lo sguardo è guardare la “carne che guarda”. Così Bacon ci espone “figure” il cui corpo difetta degli organi. Gli interessa dipingere l’intensità dello sguardo, giammai la sua estensione. Alla fine, trattasi d’esibire la parte visiva del corpo, facendo in modo che la si capti (senza rappresentarne la forma). Ma la “carne” che osserva qualcosa ha per l’appunto un organo. Invece il corpo che “guarda e basta” si trova a trasformare una… “soglia”.
Ciascuna sensazione che sente se stessa è intensiva, mentre quella che “si rappresenta di sentire” diventerà estensiva. Dunque, mettere in mostra la “carne che guarda il suo sguardo” impedisce di delimitare (di configurare) l’organo dell’occhio, il quale invece subisce una trasformazione. La visione che “vede se stessa” resta vibrante (tutt’altro che statica). Esibire l’intensità dello sguardo in luogo della sua estensione è ammissibile pensando che l’occhio non abbia la configurazione dell’organo, bensì la correlata d’una soglia. Per Deleuze Bacon può dipingere una “ricombinazione continua” del senso visivo perché dapprima percepisce “la carne che osserva… e basta”, giammai quella che “osserva… qualcosa”. In chiave marcatamente fenomenologica, ciascuna soglia ha un’estensione intensiva, poiché i suoi limiti di configurazione sono tali solo nel momento in cui si dilatano in via indefinita.
Deleuze a ragione se la ritrova nell’immagine della “carne che osserva d’osservare”. Se preso unicamente a livello del corpo, ogni sguardo va solo a vibrare, senza farsi inquadrare (rappresentare) in via estensiva, dove invece si chiede l’intenzione dell’organo. Una concezione estetica che Deleuze trova massimamente nei quadri di Bacon. In questi le figure paiono normalmente in vita, nonostante l’assenza del loro organismo. Ciò spiega il fatto che lui evita di dipingere qualcosa di macabro. Gli organi della figura non vengono sezionati con ripugnanza. Bacon cerca sempre di esporre la sensazione visiva dentro l’unità del corpo. Solo, egli decide di togliere quella più “artificiosa” del proprio organismo. Non si tratta di dipingere il sensazionale (dove l’emozione è ingenuamente fantastica). Sappiamo bene che Bacon usa la “tendina” innanzi al grido di Papa Innocenzo X per limarne la violenza espressiva (figurativa), mentre la potenzia in via per converso astratta (nell’indeterminazione delle bande verticali).
Altri uomini vengono ritratti nella corporeità tanto “disarcionata” a livello organico quanto “comodamente” accovacciata o seduta, rispettando la legge di gravità. Persino tutta l’insistenza di Bacon a dipingere la carne macellata dell’uomo non è macabra. Un’immagine che naturalmente contribuisce a “spogliare” la corporeità, nella figura del suo rappresentarci un organismo. In aggiunta la carne macellata suggestiona il livello “animale” per l’uomo, favorendone la visione più impulsiva che estensiva. Essa si rende tutt’altro che morta! Ciò vale sia in via concettuale, sia da un’ottica meramente cromatica (mantenendo i colori “caldi” della vita, non impalliditi e freddi per la loro decomposizione). La carne macellata va contro la “rigidità stabilizzante” delle ossa, la cui precisione nel tratto anatomico è fedelmente rispettata dai pittori con la figurazione più riuscita. In tal senso, interessa notare come Bacon dipinga la testa umana. Tradizionalmente, con quella s’intende la parte del corpo meno carnale e più ossea fra tutte. Secondo Deleuze, Bacon eviterà sempre di ritrarre il mero teschio. Più precisamente accade che la testa venga disossata, e che nel medesimo tempo la carne del volto resti “normalmente” al suo posto. E’ come se Bacon volesse dipingere un viso fatto di sola pelle. Di conseguenza lo spettatore ha la suggestione di vedere una maschera per così dire… “organica”. Essa non è mai artificiale, semplicemente perché in realtà sopra la pelle del volto non s’adagia nulla. Però l’eliminazione del tessuto osseo impedisce alla carne d’avere un substrato cui attaccarsi, senza che si lasci una concavità. E proprio la percezione del vuoto prospettico va ingannandoci, mentre crediamo di vedere una maschera di tipo normalmente artigianale. Il mantenimento della pelle viva scongiura ogni suggestione più “funebre” (relativa al vuoto per eccellenza: quello della morte).
Ma è possibile percepire la maschera per così dire… “organica” d’una monumentalità, almeno per l’estetica? Il filosofo Heidegger ha affermato che nell’opera d’arte la “delimitazione intellettuale” (la concettualità) del proprio linguaggio si chiama col nome di Mondo (in tedesco Welt). Viceversa, la Terra (che si traduce dal termine Erde) definisce la necessità per l’uomo di porsi anche nei confronti del fenomeno estetico con le pre-comprensioni (l’intenzionalità). Noi abbiamo sempre coscienza “di” qualcosa, dovendo per così dire tendere a questa. Trattasi della caratteristica intenzionalità. Ciò vale in tutti i casi; ciononostante l’opera d’arte per Heidegger pare in grado di dimostrare in senso lato la necessità della pre-comprensione. Basterebbe capire che la produzione estetica ha un “piano intenzionale” più difficile da concettualizzare (delimitando un certo mondo socioculturale: il Welt). Invero questo nell’opera d’arte è di taglio… “poetico”. Ogni fenomeno estetico mostra significati autoreferenziali, che di fatto concretamente non servono a nulla. Una dimensione, questa, che complica subito la chance di ricavarne una serie di “parametri pregiudiziali (socioculturali)”.
Heidegger conclude che ogni fenomeno estetico “dispone una località (un Welt) che si fonda nella relazione con la vastità libera della sua contrada (la Erde), dilatante la prima”. Il filosofo tedesco pensa che tale idea sia più comprensibile con le arti di tipo spaziale: la scultura e l’architettura in testa. Ad esempio si può studiare il monumento. Esso esprime bene la “fenomenologia della località (il Welt) in riferimento alla sua contrada (la Erde)”. Trattasi d’un tipo di scultura che certo perdura nel tempo, ma perdendo un po’ alla volta la propria interezza di senso, a livello tanto percettivo quanto concettuale. Lì il logorio della materia chiama subito quello dell’intenzionalità “poetica” (autoreferenziale). Secondo Heidegger il monumento ha la “pienezza incompleta” del ricordo. Chi rammenta, sta recuperando una certa “unità di senso” (senza l’aiuto d’una chiarezza nel significato, che si delinea solo con la riflessione concettuale). Parimenti, noi intendiamo l’opera d’arte andando a dilatarne di continuo il “fondamento poetico”. Il fenomeno estetico evita di dirci qualcosa, preferendo “dire… di dirsi”, svelando così dei concetti di taglio solo autoreferenziale (i quali per l’appunto “recuperano sempre se stessi”). Il monumento è costruito essenzialmente per farsi ricordare. In questo, si dà tranquillamente per scontato che il normale corso del tempo ne cambierà le fondamenta di partenza (dapprima a livello materiale, ma poi anche “poeticamente”), favorendo la dilatazione continua del loro senso. Heidegger conclude che strutturalmente il monumento “si svilupperebbe” nei secoli grazie alla paradossalità d’una “debolezza morente”.
Con la teologia cristiana, esisterà forse un “accumulo… visivo” della Fede? L’onnipotenza si percepirebbe in via monumentale, sotto le “dilatazioni” del razionalismo scientifico? Cacciari accetta la filosofia della “crisi”. Quella nasce con Nietzsche, quindi continua con Heidegger. Grazie al primo cade ogni assioma della metafisica occidentale: l’Idea di Platone, il Motore Immobile di Aristotele, il Dio cristiano, la Res Cogitans di Cartesio, lo Spirito di Hegel ecc… Qui interessa una demistificazione. Nietzsche insegna che l’uomo prima di tutto deve volere i suoi presupposti della metafisica occidentale. Ma così si percepirà una debolezza monumentale? In seguito Heidegger insegna che ogni presupposto della metafisica occidentale… è comunque. Ivi vale una dialettica. Ciascun presupposto della metafisica occidentale non sa darci la Verità assoluta, “sfuggendogli” sempre il piano (superiore) dell’Essere. Ma si può esemplificare il problema? In generale, < qualcosa che è, non può fondare l’è >. Heidegger pensa che nel Novecento il presupposto principale della metafisica occidentale diventi la Tecnica. S’indaghi la fenomenologia del caso. La Tecnica pare la consapevolezza che l’uomo può avere solamente una comprensione “funzionalistica” dell’Essere. Qualcosa che si dovrà precisare. La Tecnica riporta di continuo l’è nel livello inferiore (particolare) del che è. Per la vita quotidiana, quella esalterà la capacità funzionalistica dell’uomo. Per Cacciari, quando Nietzsche afferma che Dio è morto, così s’intenderebbe il presupposto per eccellenza della metafisica occidentale. La sottolineatura ha importanza. Nietzsche vuole che noi “vediamo” Dio non come un presupposto della metafisica occidentale, bensì come l’Originario di tutti i presupposti per la metafisica occidentale. Il nichilismo della demistificazione a ruota diventa importante. Per Cacciari, la morte di Dio è la scoperta che Lui esiste come necessità della presupposizione. Dunque riusciremmo a parlargli. Ma ciò avverrà solo in modo mistico, proprio perché non bisogna farne un presupposto della metafisica occidentale. Cacciari “vede” nel pensiero dell’Originario Divino la possibilità di ricavare una Verità. Quello è Pura Differenza. Non avremo più altre scelte. Prendendo Dio come un singolo presupposto della metafisica occidentale, esso sarebbe una differenza fra tante. Ma per Cacciari l’Originario non si causa da solo. Quello identifica il cosiddetto Onnicompossibile. Qualcosa da percepire in via fortemente cumulativa.
L’Essere per Cacciari deve avere in se stesso sia il piano della possibilità sia il piano dell’impossibilità. Il Tutto accade solo perché conserva pure il Niente, altrimenti non ci parrebbe davvero tale… Forse così riusciamo a spiegare la “monumentalità” della Fede. Per Cacciari, l’Originario è ogni mondo possibile, ivi compreso il mondo impossibile (quello che non compare). La Tecnica menzionata da Heidegger rappresenta al meglio la condizione di vita per l’uomo attuale. Ma egli per Cacciari non ne parlerebbe male, anzi si limiterebbe a descrivere l’obiettività storica per cui quella accade. Persino il funzionalismo potrebbe farsi rivalutare, senza alcuna alienazione per la società contemporanea. Cacciari invita ad accettare la condizione per cui si vive nella Tecnica. Né contro di quella pretenderemo ingenuamente di tornare al misticismo spiritualistico (delle epoche passate). Anziché respingere la Tecnica, fortemente monumentale, meglio sarebbe seguirla in modo responsabile.
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