In questo post tratterò del tipo di enunciati definiti mooreani[1]. Tali enunciati sono composti da due parti congiunte da un connettivo logico: la prima parte (fattuale) enuncia che p; la seconda parte (soggettiva) afferma che il soggetto S non crede che p. Generalmente assumono la forma “p e non credo che p”, ad esempio “Piove e non credo che piova”.
Lo scopo che mi prefiggo in questo breve testo è quello di delineare alcuni specifici e semplici contesti linguistici ed epistemici nei quali è possibile emettere enunciati simili senza che si dia alcuna assurdità. Tale scopo è analogo a quello delle selfless assertions[2], ovvero delle particolari forme di asserzione in cui chi asserisce, per particolari ragioni, non crede a quanto sta asserendo.
Riguardo a questo tipo asserzioni, mi riferisco in particolare agli esempi formulati da Jennipher Lackey. L’esempio de “l’insegnante creazionista” può essere sintetizzato in questo modo. Un’insegnante è cresciuto con una profonda fede religiosa, che lo porta a credere che il mondo e tutte le specie viventi siano state create da Dio tali e quali le vediamo ora. A causa della sua formazione scientifica, tuttavia, è persuaso della validità delle ragioni a sostegno della teoria evoluzionista. Nonostante ciò, non riesce ad abbandonare la sua credenza determinata dalla fede. Secondo Lackey, quando l’insegnante spiega la teoria dell’evoluzione ai suoi allievi, compie delle selfless assertions. Egli, cioè, asserisce sinceramente, persuaso della verità di quanto sta dicendo, pur senza crederci[3]. Ad, esempio, potrebbe emettere l’enunciato “L’Homo sapiens si è evoluto dall’Homo habilis e non credo che l’Homo Sapiens si sia evoluto dall’Homo habilis”.
Il contesto che mi prefiggo di delineare presenta dei punti in comune e delle differenze con quello delle selfless assertions. Inoltre, rispetto a tali asserzioni, presenta dei punti di forza e dei punti di debolezza. Gli esempi da me elaborati nel seguito di questo testo verranno denominati “contesti referenzialmente opachi”. Tale denominazione, come chiarirò a breve, è dovuta al fatto che in questi contesti un parlante non è a conoscenza che una certa descrizione definita corrisponda a un certo nome. Come nel caso delle selfless assertions, si tratta di condizioni epistemiche particolari. Tuttavia, ritengo che contesti di opacità referenziale come quelli che descriverò siano molto più frequenti nella vita linguistica dei parlanti rispetto alle situazioni in cui si possono proferire delle selfless assertions.
Infine, il vantaggio principale che, a mio parere, le mie formulazioni hanno rispetto alle selfless assertions, risiede nel fatto che, in queste ultime, il riconoscimento che la proposizione “p ma non credo che p” sia vera, dipenda fondamentalmente da un’interpretazione soggettiva dei propri stati epistemici e di credenza. In tutti gli esempi di selfless assertion, infatti, non è così intuitivamente evidente che il parlante asserisca sinceramente la proposizione che p o, viceversa, che al contempo non ci creda. Nell’esempio de “l’insegnante creazionista”, si potrebbe dubitare che l’insegnante, quando spiega la teoria dell’evoluzione, compia delle asserzioni sincere. Si potrebbe supporre, ad esempio, che egli compia tali asserzioni in quanto costretto a farlo dal contesto, ma il fatto che l’insegnante non creda, in realtà, alla teoria dell’evoluzione rende le sue asserzioni illegittime. L’insincerità, infatti, è una condizione che preclude la legittimità dell’asserzione per tutte le principali teorie dell’asserzione, come quella di Austin[4], di Searle[5], di Williamson[6] e della stessa Lackey[7]. Ciò, dunque, falsificherebbe il fatto che l’insegnante asserisca la prima parte dell’enunciato mooreano: “L’Homo sapiens si è evoluto dall’Homo habilis”. Si potrebbe supporre, viceversa, che i suoi studi e la validità delle argomentazioni evoluzioniste abbiano definitivamente persuaso l’insegnante, che, di fatto, crede alla teoria dell’evoluzione, il che falsificherebbe la seconda parte dell’enunciato: “Non credo che l’Homo sapiens si sia evoluto dall’Homo habilis”. Date queste possibili obiezioni, sostengo che la verità di “L’Homo sapiens si è evoluto dall’Homo habilis e non credo che l’Homo sapiens si sia evoluto dall’Homo habilis” sia un’interpretazione soggettiva degli stati epistemici e di credenza di chi emette l’enunciato.
Nei miei esempi, invece, la proposizione “p ma non credo che p”, asserita dal parlante, è oggettivamente vera, nel senso che le credenze del soggetto non sono interpretabili in modi differenti.
Svolte queste considerazioni preliminari, passiamo a delineare gli strumenti concettuali e le premesse che utilizzerò nella formulazione degli esempi, prima di esporre questi ultimi. Gli esempi che sto per formulare sono collocati in un contesto di opacità referenziale, ovvero, come sarà più chiaro a breve, per il parlante il riconoscimento che a un nome corrisponda una certa descrizione definita dipende dalle sue condizioni epistemiche[8], ossia da ciò che il soggetto conosce. Inoltre, le due proposizioni p nella formula “p ma non credo che p” differiscono leggermente nella loro forma. Nella prima, infatti, è presente un nome proprio; nella seconda, invece, una descrizione definita corrispondente. Il fatto che a un nome proprio sia sostituita una sua descrizione definita rende le due proposizioni logicamente equivalenti. Le due proposizioni, dunque, possono essere utilizzate nelle formule in maniera interscambiabile. La premessa di queste due ultime affermazioni è ritenere valido l’argomento di Russell per cui, dati un nome proprio x e l’insieme P delle proprietà di x – ossia delle descrizioni definite di x – x significa “l’oggetto che ha la proprietà appartenente all’insieme P”[9]. In altre parole, occorre premettere che, in un’asserzione, un nome sia rimpiazzabile con una descrizione definita corrispondente, ossia che le due asserzioni – quella contenente il nome e quella contenente la descrizione definita – mantengano lo stesso valore di verità. Infine, la situazione epistemica del parlante, l’insieme delle sue conoscenze, è tale che il parlante non sappia che la descrizione definita della seconda proposizione corrisponda al nome proprio della prima.
Per esemplificare tale situazione, immaginiamo uno studente straniero in visita in Italia. Egli, nel suo paese di provenienza, ha studiato a fondo la lingua italiana, tanto da raggiungere un livello di conoscenza della lingua paragonabile a quello di un madrelingua. Tuttavia, non si è mai occupato dello studio della geografia italiana. Immaginiamo che, per qualche ragione, questo studente formuli la proposizione tautologica che afferma che “Il capoluogo di regione dell’Emilia Romagna è in Emilia Romagna”. Immaginiamo che, data la sua scarsa conoscenza della geografia italiana, egli pensi erroneamente che Bologna sia in Veneto e che dunque, congiuntamente alla prima proposizione, asserisca: “Non credo che Bologna sia in Emilia Romagna”. Poiché “il capoluogo di regione dell’Emilia Romagna” è una descrizione definita per “Bologna”, le due proposizioni sono logicamente equivalenti. Dunque, da un punto di vista logico, è come se lo studente avesse asserito “Bologna è in Emilia Romagna ma non credo che Bologna è in Emilia Romagna”.
La situazione linguistica presentata, dunque, è tale che l’enunciazione di un enunciato mooreano della forma “p ma non credo che p” non costituisce un assurdo.
In conclusione, in questo breve testo ho tentato di delineare un tipo di enunciati che rispettino le caratteristiche degli enunciati mooreani, ma tali da non produrre alcuna assurdità. Questo tipo di enunciati è stato ottenuto inserendo nella prima parte – quella fattuale – un nome, e nella seconda parte – quella soggettiva – una descrizione definita corrispondente al nome. È stata inoltre imposta la condizione per cui il soggetto che emette l’enunciato non sia a conoscenza del fatto che la descrizione definita presente nella seconda parte corrisponda al nome presente nella prima. Ritengo che questo possa essere un punto interessante in quanto, a quanto ne so, gli enunciati mooreani non sono stati mai considerati da questa prospettiva. Inoltre, il tipo di enunciati da me delineati ha il vantaggio, rispetto ad altri tentativi di individuare contesti in cui è possibile proferire enunciati mooreani senza che si dia assurdità – come le selfless assertions – che la sua verità non dipenda da interpretazioni soggettive delle credenze del parlante.
BIBLIOGRAFIA
1) Austin J. L., Come fare cose con le parole, Marietti 1820, Bologna 2020.
2) Labinaz P., L’asserzione come azione linguistica: aspetti sociali, epistemici e cognitivi, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2019.
3) Lackey J.,“Lies and Deception: An Unhappy Divorce”, Analysis, vol. 73.
4) Lackey J., “Norms of Assertion”, Nous 41:594-626 (2007).
5) Pili G., “Il paradosso di Moore”, 29 novembre 2011, Scuola filosofica, Il paradosso di Moore – Scuolafilosofica.
6) Quine W. V., Da un punto di vista logico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.
7) Seaerle J. R., Atti linguistici, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
8) Whitehead N., Russell B., Introduzione ai Principia Mathematica, Bompiani, Firenze 2014.
9) Williamson T. “Knowing and asserting”, Philosophical Reviews, 105:489-523 (1996).
[1]G. Pili, “Il paradosso di Moore”, 29 novembre 2011, Scuola filosofica, Il paradosso di Moore – Scuolafilosofica.
[2]Cfr. P. Labinaz, L’asserzione come azione linguistica: aspetti sociali, epistemici e cognitivi, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2019, pp. 133-134.
[3]J. Lackey, “Lies and Deception: An Unhappy Divorce”, Analysis, vol. 73, pp. 236-248.
[4]Cfr. J. L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti 1820, Bologna 2020, p. 100.
[5]Cfr. J. R. Searle, Atti linguistici, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 104.
[6]Cfr. T. Williamson, “Knowing and asserting”, Philosophical Reviews, 105:489-523 (1996).
[7]Cfr. J. Lackey, “Norms of Assertion”, Nous 41:594-626 (2007).
[8]Cfr. W. V. Quine, Da un punto di vista logico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 172-175.
[9]Cfr. A. N Whitehead, B. Russell, Introduzione ai Principia Mathematica, Bompiani, Firenze 2014, pp. 167-171.
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