Per Platone, accade che le cose sensibili partecipano delle loro idee. Il nostro mondo è comunque finito, per cui potrà soltanto tendere ad universalizzarsi. Nell’esperienza quotidiana, una forma si percepisce alla “compartecipazione” dei propri limiti. Ma sarà un’idealità relativa allo spazio ed al tempo, mentre si dovrà presupporre l’idealità… per l’idealità relativa allo spazio ed al tempo. Allora Platone ricorre alla matematica. In quella, per esempio le relazioni d’uguaglianza ci appaiono sul serio perfette. E’ una compartecipazione, fra i “limiti” dei numeri, che immediatamente si svincola dallo spazio e dal tempo[1]. Dunque la forma dell’uguale sembra la più “consigliabile” per aiutarci a percepire l’universalizzazione, che in se stessa dialetticamente non può darsi senza postulare pure la particolarizzazione. Se le idee sono la causa delle cose sensibili, le seconde ovviamente derivano dalle prime. Allora Platone immagina di togliere lo spazio ed il tempo. Nell’eternità, le singole idee saranno sempre uguali a se stesse. Qualcosa da percepire comunque in via di derivazione, ma solo per la necessità dialettica che un universale postuli un particolare. Le idee platoniche non sarebbero completamente staccate dal mondo materiale. Prima, bisognerà che percepiamo l’eternità del loro divenire[2].
Il formarsi delle idee in quanto soltanto uguali a se stesse rappresenta proprio la necessità dialettica che l’universale “sbandi” sul particolare. Togliendo lo spazio ed il tempo, dunque Platone accetta la derivazione… della non derivazione. Così percepiamo l’uguaglianza in matematica. L’eternità dei numeri quasi “sbanderebbe” sui casi del calcolo. Se la singola idea compartecipa già in se stessa, e formando la propria universalità, allora (a maggior ragione) essa compartecipa delle cose sensibili, e formando la loro tensione all’universalità. Quando si percepisce l’identico, non significa togliergli i limiti, bensì togliergli i limiti dentro un caso spaziotemporale. E’ lo “sbandamento” d’una derivazione. Così accade per l’universale sul particolare.
L’anima dell’uomo può conoscere le idee, e principalmente in quanto immortale. L’immaterialità non subisce la disgregazione. Dunque, l’anima sarebbe esistita anche prima d’introdursi nel corpo. Torna la derivazione… della non derivazione, nella miniatura d’una persona. L’anima, immateriale come l’idea, un pelo più sfortunatamente forma la sua universalità mediante un corpo. E’ l’identità che si toglie i limiti, ma preservandone il caso spaziotemporale. Per Platone coerentemente l’anima subisce un ciclo d’infinite reincarnazioni (secondo il mito orfico-pitagorico)[3]. Ma essa ha il privilegio di conservare il ricordo sulla fase dove, mancandole un corpo, il suo formarsi poteva essere derivato unicamente dalle idee. La percezione dell’eternità appartiene a tutto l’immateriale, pure a quello in terra. L’anima allora aiuta a giustificare le idee[4]. L’immaterialità della prima è facile da esperire, e “coglie al volo” le uguaglianze della matematica, addirittura a prescindere dalle etnie, dai ceti o dalle culture diversamente nel mondo. La reminiscenza umana va percepita come una miniatura dell’idea in partecipazione sul finito.
Per Platone, esisterà un “vasto mare” del bello, a livello delle cose materiali. Ma noi “navigheremo” la sua essenzialità appena all’improvviso. Nella lingua greca il bello (il < kalon >) resta in senso lato ciò che chiama (il < kalein >). Da un’ottica solo fenomenologica, il rivolgersi a qualcuno è sempre un improvvisare di farlo, quantomeno per l’interlocutore[5]! Dunque, non s’approderà al bello in sé (essenziale) tramite un suo “ancoraggio” alla conoscenza. Anzi, ci servirà una percezione sempre all’improvviso evento di se stessa. Ne deriverà che, contemplando la bellezza, noi immediatamente torneremo sui “nostri passi”. Un’ancora della conoscenza estetica chiederà che questa “si lanci… all’indietro”. Aresu studiò l’idea platonica della bellezza. La sua contemplazione parrebbe solo… di ritorno, sempre a valle d’una percezione ad improvvisa eventualità. Dunque, possiamo concludere che la bellezza “sbandi sull’ancoraggio” della conoscenza? All’improvvisa attualità, ci sembra che lo spazio ed il tempo si percepiscano tramite una “vastità indietreggiante”. Nel caotico “mare” delle cose materiali, la bellezza chiamerà alla sua perfezione come se valesse “un ondeggiare” dei numeri in scala.
Ma è importante il presupposto per cui l’uno non può accadere senza i molti, ed i molti non possono accadere senza l’uno. Qualcosa che Platone tende a percepire mediante la diversità[6]. Pure l’unità, che dovrebbe assumere in sé l’universalità per eccellenza, comunque non è il molteplice. Affinché s’eviti la contraddizione di “sminuire” le idee, forse basta accettarne “un diverso modo” di porsi. Con tutta la semplicità del caso, l’unità necessariamente non sarà il molteplice. La prima si porrebbe sia in quanto uguale a se stessa (universalmente), sia in quanto diversa dal secondo (particolarmente). Ad esempio l’idea del caldo comunque non sarà mai l’idea del freddo, o l’idea del caldo comunque non sarà mai il caldo d’una mano al sole. Così la partecipazione di nuovo evita la netta separazione fra l’Iperuranio ed il mondo materiale. Inoltre, l’immaterialità dell’anima porta in se stessa anche il moto (vivendo in un corpo), il quale peraltro non le impedisce la reminiscenza. La morte fungerà da semplice diversità per il ciclo di reincarnazioni. Se l’anima è immateriale ma anche in moto, ciò potrà caratterizzare al meglio la partecipazione fra le idee e le cose sensibili. Una dimensione che avrà per sua diversità la quiete dell’unità.
L’eternità delle idee porta con sé l’illimitato della compartecipazione, verso il mondo sensibile[7]. La geometria insegna che il singolo punto “immediatamente prende posto”, tramite le coordinate della latitudine e della longitudine. Dunque, si percepisce un illimitato che “sbanda” sul limite. Anche un numero prende immediatamente posto, sulla scala matematica. L’unità dell’idea avrebbe le proprie coordinate. Ad esempio il semplice caldo è comunque diverso dal semplice freddo (in “longitudine”) o dal caldo soffocante (in “latitudine”). L’eternità del primo si fa limitare… mediante l’illimitato dei secondi, con la loro scala. Dunque, l’unità dell’idea apparirà come un numero, una volta uguagliata per partecipazione alle cose del mondo. Sarà l’eternità che “prenda posto” nell’illimitato. I numeri matematici si percepiscono immediatamente a partecipare d’una scala coordinante. Platone evita di staccare troppo le idee dal mondo sensibile. Nell’esperienza quotidiana, possiamo incontrare ad esempio l’uomo Paolo Rossi, l’uomo Paolo Bianchi e l’uomo Paolo Neri. Ognuno di loro avrà una sua diversità: per il colore dei capelli o degli occhi, per l’altezza, per il carattere a volte cordiale, per gli hobbies seguiti ecc… Ma per Platone cambierebbe tutto, se noi intendessimo l’uomo Paolo Rossi che è comunque < un > uomo, l’uomo Paolo Bianchi che è comunque < un > uomo e l’uomo Paolo Neri che è comunque < un > uomo. Pare più facile giustificare la loro idea, quando li percepiamo grazie alla matematizzazione d’un numero. Ci sarà sempre e comunque lo < 1 >. Prescinderemmo dalle grandezze “longitudinali” o “latitudinali” d’un carattere, d’un colore, d’un sentimento ecc… Torna anche la giustificazione sulle idee identiche in se stesse ma diverse compartecipando del mondo. Ad esempio, se sommassimo lo < 1 > di Paolo Rossi con lo < 1 > di Paolo Bianchi e con lo < 1 > di Paolo Neri, il conclusivo < 1 + 1 + 1 > continuerebbe a visualizzare solo lo < 1 >. Sarà la cosiddetta Diade indefinita. Tramite questa, Platone matematizzerebbe l’eternità dell’Uno destinato a moltiplicarsi.
Il tempo diventa un’immagine in movimento per le idee a compartecipare sul mondo sensibile. Tutta l’eternità dell’unità deve formarsi, fra il limite dell’identità e l’illimitato della diversità. Percepito in se stesso, il tempo è per noi indefinito per spazialità. Esso semplicemente accade. Platone utilizza la matematizzazione dell’idea anche per confutare Zenone, che negava l’esistenza del molteplice e del divenire. Quanto una freccia scoccata sarebbe ferma in ciascuno dei punti al suo passaggio, così nel paradosso che non avanzi mai? Ma Platone applica la compartecipazione delle idee. Se c’è lo < 1 > della freccia al primo passaggio, quindi lo < 1 > della freccia al secondo passaggio, ed infine lo < 1 > della freccia al terzo passaggio, il conclusivo < 1 + 1 + 1 > semplicemente presuppone lo < 1 + > (confermando il divenire, contro Zenone). Per quanto la temporalità si percepisca immaginaria, la sua matematizzazione dovrebbe idealizzarsi immediatamente.
Ma è possibile portare qualche esempio dalla natura? Quanto l’eterno ritorno di Nietzsche appare un levar del sole? Di certo, per lui il serpente che si morde la coda simboleggia la ciclicità del tempo. Il presente è tale in quanto derivante dal passato, e proiettato al futuro. Dunque, le tre dimensioni del tempo si ri-mandano fra di loro. Per Nietzsche, un uomo dovrebbe vivere dentro l’eterno ritorno dell’eguale, ovvero nel presente che abbia in se stesso la “deriva” del passato e l’anticipazione del futuro. Ci basterà volere… di volere[8]. Nel vissuto del presente, qualunque scelta che facciamo ha un condizionamento dal passato, e poi un altro diretto al futuro. Nell’etica di Nietzsche, il volere… di volere sarà assumersi la responsabilità del volere. Non dobbiamo semplicemente vivere, bensì ri-vivere. Il sole visivamente si ri-sveglia tramite un comune “scatto”. Quello vorrebbe… di volersi, nella dialettica dall’alba al tramonto, e viceversa. Per Bachelard, insomma, l’eterno ritorno non è come il mulino che gira meccanicamente, frantumante sempre lo stesso grano. Il sole ri-nasce all’improvviso, e sotto “lo scatto” dell’auto-assunzione.
Platone preserva la dialettica, pure per respingere l’eleatismo. Soprattutto, è accettabile che ad esempio il presente “sbandi” sul passato (nella rammemorazione) o sul futuro (nell’anticipazione). Ma la temporalità non presuppone mai se stessa come una “mescolanza” del proprio divenire. Ad esempio, il presente in se stesso è diverso dal passato o dal futuro. Soltanto l’eternità dell’unita può presupporre che la temporalità “mescoli” il suo divenire[9]. Semplicemente, < una certa idea X > è tale anche perché non è < un’altra idea Y >. Di conseguenza l’unità ha il divenire connaturato in se stessa. Se ciò accade già fra le idee, allora noi lo potremo accettare (a maggior ragione) pure nel compartecipare fra le idee ed il mondo sensibile (sotto la temporalità). Il presupposto rimane l’unità dell’eternità, per Platone. Ma quanto le idee si percepirebbero entro una generazione ontologica[10]? L’eternità pare immediatamente (necessariamente) diversa dal suo perdurare nel tempo (mediante il presente, che viene dal passato e porta al futuro). Ciò che si genera in via fenomenologica non è interamente staccabile. Ma la matematizzazione delle idee sembrerebbe percepibile solo nella sua astrattezza. Se c’è lo < 1 > della freccia al primo passaggio, quindi lo < 1 > della freccia al secondo passaggio, ed infine lo < 1 > della freccia al terzo passaggio, il conclusivo < 1 + > rimane sospeso allo “sbandamento” sul divenire (che temporalizza)[11]. Secondo l’esperienza comune, quanto l’accettare un istante eternizzante s’identifica con l’accettare un istante eternizzante che… pure (già) non ha un istante eternizzante? Una generazione ontologica si percepirebbe sospesa sul proprio divenire. Ma Platone tende a promuovere il presupposto “positivo” dell’unità. Questa ovviamente ha la pienezza dell’Essere. Nel conclusivo < 1 + > (mentre l’idea partecipa del mondo), si leggerà che < un 1 viene prima del + >! Tutta la positività di questa generazione da ontologia avrà in se stessa un limitarsi… non soltanto limitante, grazie al suo differenziarsi nel Demiurgo: il creatore del cosmo, in quanto perfezionatore dell’eternità per “buona volontà”. La reminiscenza dell’anima diventa possibile dove la temporalità si faccia “sospendere”, astrattamente. Vivendo, all’interno del corpo materialmente limitante, l’uomo deve provare a perfezionarsi. Invece l’idea presa in se stessa non pare “sospesa”, avendo solo l’Essere, “positivamente”.
Il Demiurgo di Platone può modellare il cosmo anche sfruttando un ricettacolo caotico. Qualcosa che “adombri” la spazialità della materia[12]. Anche la sensibilità, dialetticamente, dovrebbe avere una sua diversità. Per il maestro zen, sempre accade che quando si raccoglie un granello di polvere, in quello si raccoglierà tutta la terra, mentre quando sboccia un fiore, in quello sboccerà un mondo. Dialetticamente, nel piccolo c’è il grande in potenza. Qualcosa che per lo zen dimostra l’inutilità di credersi separati da un dio. Per Nietzsche, bisognerebbe sostare sulle cose materiali come se queste avessero un cielo. Là, si percepirà una “cavalcata” sull’eternità, da cui “sgorghi” l’alba del passato al tramonto del futuro. Il Demiurgo ci sembra attrezzato per “far sostare” le cose materiali sulla propria virtualità d’avere il “cielo iperuranico”.
Per Platone, la nostra anima comincia più facilmente a riflettere allorché percepiamo certi oggetti fra di loro in contrasto[13]. Se citiamo ad esempio lo < 1 > di Paolo Rossi con lo < 1 > di Paolo Bianchi e con lo < 1 > di Paolo Neri, il conclusivo < 1 + 1 + 1 > “ci scuote” dalla sua coppia di “buchi” o “salti”. Le idee comunque s’oppongono alle cose sensibili, partecipando con quelle[14]. Nella matematizzazione per ontologia, accade che un primo < 1 > “salti sul buco” del secondo < 1 >. E’ in tale opposizione che l’anima comincerà a riflettere. Per Platone, la vista giocherebbe un ruolo fondamentale, fra tutti i sensi. Essa “sbanda” immediatamente fra “lo scuotersi” dell’illimitato ed “il salto” nel limitato. Ogni figura infatti deve emergere. La nostra vista “parteciperebbe” della somiglianza fra l’essere ed il non essere.
Una dimensione che emerga sempre “salterebbe dallo scuotersi”. Le cose sensibili sono l’apparenza delle idee. Ma possiamo anche percepire che l’eternità si dia “scuotendo” se stessa, tramite il suo totalizzarsi. Quella dialetticamente avrà i “salti” del molteplice, differenziandosi a favore delle cose materiali. Il Demiurgo ad esempio è creatore in quanto “scuote” le idee, perfezionandole (ed anche contro la sospensione d’un ricettacolo caotico). Ma nel contempo Platone postula sia l’unità presa in se stessa sia la differenza presa in se stessa. Ad esempio, se < una certa cosa X non esiste >, ciò accade perché < una certa cosa X non esiste… mancandogli il contraltare d’una certa cosa Y >. La seconda affermazione conferisce pure alla differenza tutta l’idealità dell’uno eternizzante. Più che il non essere, ci sembra che Platone respinga il non essere “preso in se stesso”[15]. Dialetticamente, un uomo che abbia i capelli bianchi diventa anche (in un “salto” dentro la propria identità) un uomo che abbia i capelli bianchi e quindi mai neri, rossi, biondi ecc… La diversità appartiene all’Essere, sempre dal “filtro” dell’eternità. Possiamo citare la celeberrima obiezione per cui, se le cose sensibili hanno una loro idea, noi dovremmo postulare anche una nuova idea, per “l’insieme” costituito dalla prima idea e dalle cose sensibili in suo riferimento. Ma secondo Platone l’Essere s’eternizza[16]. In quello, il divenire del molteplice diventa istantaneamente differente[17]. Secondo l’esperienza comune, se è mattina a Milano, di certo è mattina anche a Roma e soprattutto senza che a Milano ci sia “un po’ di mattina” a fronte “d’un altro po’ di mattina” a Roma. Il “salto” spaziotemporale si percepirebbe soltanto dentro un’eternizzazione della differenza[18].
Nel dialogo chiamato Fedro, Platone scrive che le idee appartengono ad una “pianura” della verità. Noi le percepiamo dentro una “terra”, benché in chiave paradossalmente astratta. In tale “pianura” della verità, le idee sarebbero “pascolate” dal nostro pensiero, in filosofia[19]. Torna l’immagine della “terra” paradossalmente astratta. Pascolando, noi siamo in continua ricerca di qualcosa. Il pensiero filosofico deve rimettersi sempre in discussione. Ma si pascolerebbe unicamente nella terraferma (avendo la sicurezza d’una base). Nel dialogo intitolato Fedone, Platone scrive che l’uomo abita solo una piccola parte del Mondo. In chiave strettamente geografica, essa rientrava fra il fiume Fasi (in Caucaso) e le Colonne d’Ercole (a Gibilterra). Come ricorda Aresu, per Platone tutti gli uomini vivrebbero in fondo al “mare”. Ciascuno di noi sarebbe esistito sopra “l’irreale” Terra del Mondo, e (nel contempo) sotto “l’autentica” Terra delle Idee. Gli uomini dovranno vivere dentro una conca, letteralmente “abissale”. Il fiume Fasi e le Colonne d’Ercole constano essenzialmente d’acqua. Ne deriva che per Platone le terre conosciute dagli uomini potevano percepirsi in via “abissale”. Certo il filosofo saprebbe “navigare” in alto. Egli salperà dalla “terra irreale” del Mondo (fra il fiume Fasi e le Colonne d’Ercole), per approdare alla “terra più autentica” delle Idee. Solo quest’ultima splenderà come un astro o come una pietra preziosa. Evidentemente, la “terra” delle Idee ha l’incorruttibilità del puro. Nella “pianura” per cui < se è mattina a Milano sempre è mattina anche a Roma >, si deve “salpare” da < quel poco di mattina a Milano opposto a quell’altro poco di mattina a Roma >!
Citiamo il prologo del libro Ecce homo, scritto da Nietzsche[20]. I suoi lettori dovranno respirare l’aria “forte” delle teorie. Queste si percepiranno nella loro freddezza. A Nietzsche interessava il pensiero solo “da respirare”, nelle cime più alte, dove regnasse il silenzio. Qualcosa di forte certamente può sottomettere. Dalla cima montuosa, si domina almeno con la vista a 360°. Tutta la “freddezza” di chi potenzialmente “voglia” (nella fortezza d’assumersi le proprie responsabilità), sarà percepita solo… “da respirare”. Nietzsche invita davvero a pensare per la “spontaneità” del vivere. Proprio nella solitudine d’una cima, noi ci sentiamo più in pace. Vi si concentra tutta la spontaneità d’una verità universale. E’ qualcosa che sottomette i limiti del razionalismo, da cui i concetti sembrano letteralmente “orchestrati”. Ma Nietzsche “spiana” anche le “cime” del pensiero, contro il “dogma” del fideismo o dell’idealismo.
Per la fenomenologia di Husserl, la nostra coscienza è sempre < di > qualcosa. Ma si deve percepire la dialettica del caso. L’uomo intende la realtà (a livello sia materiale sia astratto) soltanto perché la mente “si posiziona” sui limiti fra i singoli enti. Deleuze carica di vitalismo la fenomenologia. La necessità che la coscienza sia < di > qualcosa ce ne dà una percezione precisamente contratta. Un posizionarsi presuppone un “salto”… L’intenzionalità della mente (sia verso la materia sia verso le astrazioni) si dà accentrando su di sé. Nella coscienza, la necessità di porsi sulla realtà esteriore pare una contrazione[21]. Qualcosa di simile avverrà pure a livello universale. Deleuze rifiuta la metafisica delle idee; ma quanto in lui il vitalismo può “partecipare” della fenomenologia? L’Essere diventa una Differenza poiché il primo “si posiziona” mediante un “dis-piegamento” sul molteplice della seconda. Deleuze rinuncia alla matematizzazione solo metafisica delle idee. Una percezione del molteplice che “si piega” è assai più generativa. I “salti” fra i limiti degli enti (materiali od astratti) si dovranno percepire “al loro accadimento”. Deleuze virtualmente recupererebbe la partecipazione postulata dal platonismo, ma evitando d’eternizzarla nell’Uno. E’ una scelta contro il “salto” della metafisica.
Platone pensava che l’addestramento ginnico non servisse soltanto a combattere, ma anche per diventare virtuosi (ossia moralmente). In particolare, con quello si miglioravano l’autodisciplina, la resistenza psicologica e la dedizione verso lo Stato. In maniera quasi “avanguardistica”, Platone voleva che anche le donne praticassero sport. Era un caso di compartecipazione nella società civile, fermo restando il maschilismo intellettualistico verso la più basilare politica. Esteticamente, a volte l’edonismo poteva persino ambire ad “astrarsi”. Ad esempio, Platone provò ad “istituzionalizzare” la figura del dio Dioniso, mistificando la tragedia teatrale. In quella, la compartecipazione fra il pubblico ed i personaggi subito implicava “un’uscita” dal sé (ovvero dall’universalità idealizzante). Nell’educazione civica mediante i cori, il consumo del vino sarebbe permesso principalmente agli adulti. Dioniso favorisce “il riso”: qualcosa che toglie la malinconia verso la gioventù perduta… In generale, per Platone sarà più facile moderarsi nella compartecipazione del vino, anziché in quella tragica a teatro. Esteticamente, ci pare una concessione ai… “salti” dell’intellettualismo!
Nel dialogo Ione, Platone scrive che le poesie nascerebbero da una forza divina. Qualcosa che ci ricordi il magnete: una pietra capace d’attrarre gli anelli di ferro, persino concatenandoli. La Musa ispirerà il poeta, ma pure i successivi lettori od ascoltatori. Così i coribanti, adorando la Dea Cibele, “si concatenavano” fra di loro a passi di danza, parecchio sfrenata… Citiamo anche l’aneddoto del pittore Zeusi, vissuto nell’antica Grecia. Egli avrebbe dipinto un grappolo d’uva così bene che i passeri, passandoci davanti, s’appoggiavano a quello, credendolo reale. Per gli antichi greci, i poeti e gli artisti agivano da invasati. Sempre loro avevano una Musa. L’ispirazione per i poeti e gli artisti era così forte da diffondersi a catena, sul pubblico. La Musa andava invocata da una mente alata (la quale si mantenesse costantemente nei “voli” dell’immaginazione), uscendo di senno (ossia dal razionalismo). Platone dunque non avrebbe solo sminuito l’arte, rispetto alle idee. L’ispirazione è un “salto” dalla sensibilità interiore verso l’intellettualismo dell’immaginazione. Ma forse bisogna aggiornare l’idealismo di Platone, e tramite il vitalismo… Una Musa rischia di banalizzarsi in chiave romanticheggiante!
Secondo Deleuze, la percezione della contrazione pare “a rimanere in sospensione”, a valle d’una generazione che non “si distenda” (spianando col concettualismo la subordinazione degli enti finiti), bensì “si dis-pieghi” (dentro “un imbuto” dell’Energia). Per ogni accadimento in compartecipazione, conterà il suo potersi accentrare. Se c’è lo < 1 > della freccia al primo passaggio, quindi lo < 1 > della freccia al secondo passaggio, ed infine lo < 1 > della freccia al terzo passaggio, il conclusivo < 1 + > ha una temporalità “ad imbuto”, eternamente dis-piegata a limitarsi.
Deleuze ama il vitalismo intellettuale di Spinoza. Ogni segno esprime l’effetto che si dà, nell’azione d’un corpo verso un altro. Spinoza parla di affetto[22]. In questo caso, il segno sarà di tipo vettoriale, avendo la precisione nel verso e nella direzione. Col termine di affezione, invece, Spinoza indica la variazione a livello sensoriale, entro l’effetto d’un corpo per un altro. In questo caso, il segno sarà di tipo scalare, basandosi sulla propria gradazione. Deleuze sfrutta la terminologia già di Spinoza, e conclude che nel dinamismo ontologico non esistono né le forme (essenze) né gli oggetti, bensì unicamente gli strati (piani, allargamenti) affettivi. Questi avranno un valore positivo (come nella felicità, nella soddisfazione, nell’augurio ecc…) o negativo (nella tristezza, nella frustrazione, nella rassegnazione ecc…). A Deleuze interessa principalmente la caratteristica affezione. Questa si dà in via scalare, favorendo la percezione del suo “allargamento” oltre se stessa. Dunque il vitalismo di Deleuze contesterà pure l’idealismo “matematizzato” da Platone.
Per Spinoza, l’uomo non conosce quanto il corpo gli “può” fare. Nessuno ha una coscienza materiale, ma sempre una coscienza ideale. Proprio accettando tale limitazione, per Nietzsche bisognerebbe che l’intellettualismo facesse prova di “modestia”[23]. Forse, la coscienza è la regione della mente in cui s’esercita la forza del mondo esterno, e tramite il corpo. Logicamente, quest’ultimo non andrà più sottostimato (come per l’idealismo). Nietzsche aggiunge che, presa in se stessa, la coscienza è pur sempre in rapporto a qualcosa, esternamente. Anche per questo, ci vorrebbe più “modestia”, in via intellettualistica. In quanto subordinata all’esteriorità, la coscienza per Nietzsche è destinata ad apparire. Sebbene l’idealismo totalizzi la mente, quello comunque non avrà iniziato niente, rispetto al corpo. Per Nietzsche, la coscienza si percepisce in via “servile”.
Dentro la finitezza materiale, un singolo corpo per Deleuze va rapportando i piani (allargamenti) dell’affezione. Quest’ultima deve presupporre una tensione fra l’azione e la reazione. C’è anche una casualità, in quanto l’allargarsi dell’Essere semplicemente non sembra “afferrabile”, dall’affettività. In un “pluralismo” eterno della differenziazione, il singolo corpo si farà limitare mediante sia alcune forze d’azione (o dominanti), sia alcune forze della reazione (in passività). Deleuze però favorisce la dialettica. La forza di comando comunque deve ammettere la forza di sottomissione, e viceversa. Quantunque da una prospettiva opposta, sia il meccanicismo sia il finalismo vanno “togliendosi” l’allargamento all’Essere. Ipostatizzati, entrambi si percepirebbero solo alla forza reattiva, giacché passivamente sotto l’Unità. Come la coscienza, anche la memoria e l’abitudine dipendono da una corporeità per affettività. Dunque, per Deleuze sembra più difficile ricostruire una fenomenologia delle forze attive, volta all’ontologismo[24]. Certo quelle stanno nell’inconscio, dove il corpo persino “dimorerà” (fra la totalità dei suoi “allargamenti”, che l’intelletto al massimo può ordinare). Le forze reattive immediatamente hanno un “cattivo” nichilismo. Ad esempio, il concettualismo toglierà il divenire universale. Un’idea platonicamente presa in stessa si percepirà al proprio “vuoto”. Le forze attive hanno invece un “buon” nichilismo, in quanto ad “accentrarsi” solo per “dis-piegamento”.
Nietzsche immagina di respirare un’aria bellissima. Egli avrà le narici turgide come i calici, ma senza futuro e ricordi. Il senso dell’olfatto inevitabilmente è sforzato nella catena del suo affinarsi. L’aria pura (all’aperto) ci libera dal tempo[25]. Essa quasi “si trangugia” mediante la respirazione. L’aria pura per Nietzsche non “incatenerebbe” come l’odore inebriante. Quella piuttosto parrà “striata d’oro”, a raffreddare il “calice” rovescio del cielo aperto. Infatti, per Nietzsche tutta l’istantaneità dell’aria sarebbe caduta dalla Luna, dove brilla lo “stretching” della tonicità (che non inebria quanto il Sole). Nella gioia di respirare, accade che l’esteriorità “si prometta” a noi. Conterà la percezione ingranata dell’aria. La gioia naturalmente ci dà più ottimismo, guardando al futuro. La respirazione quindi si farà tonificante. L’aria sembra percepibile “riempiendo” il vuoto dell’idea, peraltro preservandone l’eternizzazione…
Per Deleuze, una generazione potrebbe “contrarre” il mero “salto” del creazionismo (che Platone ammetteva, mediante il Demiurgo). L’Essere avrà in se stesso la dimensione dell’unità, e tuttavia pure quella d’una diversità. La seconda andrà ripetendo la prima. Ma se impossibilitati a delineare l’unità, si concluderà che in quella una diversità resti. Così, più facilmente noi percepiremmo una contrazione. Gli enti (materiali od astratti) si danno in quanto a sorgere dalla Differenza. Questa fungerà da distensione concentrata per l’Unità, a cui non sfuggirà mai la venatura totalizzante. Ci sembra proprio una contrazione per imbuto. D’altronde, il singolo ente di materia concentra in se stesso alcuni fra gli elementi in natura (l’aria, l’acqua, il fuoco, la terra), i quali hanno anche una loro universalità.
Deleuze crede che la coscienza umana “contragga” la sua esteriorità “ponendosi” su questa, ed in specie nell’abitudine. Più genericamente, chi s’adatta a qualcosa né la “prevarica” (con le categorie soggettive), né la “subisce” (con le categorie oggettive)[26]. Ad esempio la conformazione ad imbuto mostra tutta la dialettica delle spire. Ma possiamo dire che il porsi è un abituarsi, per la coscienza? Questa compare pure dandosi all’alterità, laddove le “spire” del soggettivismo seguirebbero una loro “consuetudine”. Se invece una coscienza riflette sulla necessità della propria intenzionalità, noi la percepiamo in quanto passiva. Così subentra un’autoreferenzialità, in via sempre contemplativa. Ma parrà pure una concessione all’ontologismo estetico? Il riconoscere la coscienza è il riconoscere che la coscienza sempre “si pone su” qualcosa. Esteticamente, avverrebbe lo stesso per chi si metta in contemplazione. Tramite questa, un ente esterno si farà “sottrarre”, ed a valle d’una “contrazione” in tutti gli elementi a configurarlo. Possiamo dire che Deleuze respinge la matematizzazione delle idee, già cara a Platone, ma “dal filtro” d’un vitalismo per immaginazione percettiva. Il partecipare dei numeri sarà stato rimpiazzato dal generarsi d’una contrazione. Anche la matematica accade per una consuetudine, ma solo astrattamente, non potendo dis-piegarsi sulla materia come il vitalismo. Chi contempla “si distende” verso la vena totalizzante dell’esteriorità (alterità), “concentrandola” sul sé intenzionale. La diversità avrà un accadimento nella propria sottrazione. L’autoconsapevolezza vale parimenti. Deleuze schiva l’idealismo, e grazie al vitalismo. L’autoconsapevolezza deriverebbe da una contemplazione che “contragga” l’intenzionalità, riportante un ente esteriore “costantemente al centro” della prima. Si può studiare pure il caso particolare dell’estetica, innanzi all’opera d’arte materialmente esposta. Là, il contemplatore sempre cercherebbe una dimensione dell’unità, ma solo in una “miniatura” (o sottrazione) di quella in lui. La coscienza intenzionale funzionerebbe allo stesso modo. Innanzi all’opera d’arte, ci accadrà una percezione di tipo “abitudinario”. Qualcosa per cui la nostra coscienza “s’accontenti” di “posizionarsi”, e massimamente da una contemplazione. L’opera d’arte favorisce una “distensione” della nostra percezione verso il suo “accentramento” (per contrazione). Riportato all’immediatezza dell’intenzionalità, sarà un principio che permetterà alla coscienza “d’abituarsi” a se stessa, mediante l’estetica del contemplare. Platone aveva avallato una possibile anima dell’Universo. Ovviamente, egli non ricostruì una fenomenologia del vitalismo, e si limitò ad eternizzare le idee, pur nel loro compartecipare del mondo sensibile. Ma quanto l’anima dell’Universo avrebbe potuto svilupparsi nel naturalismo, tramite l’estetica?
Per Hegel, l’arte diventa una “presentazione” sensibile dell’Idea. Nell’assolutezza del razionalismo, ogni riflessione estetica consentirà che letteralmente il mondo materiale stia… “al servizio” della filosofia. Se la natura rappresenta sensibilmente l’Idea, allora l’arte rappresenta la natura “nel” suo rappresentare l’Idea. Si percepirebbe che l’estetica abbia una qualità “conciliante”. Hegel ricorre alla precomprensione razionalistica che la tesi non possa esistere senza la sua antitesi, e ciò ne comporterà la sintesi. Ma lo stesso accadrebbe nel “campo” più limitato d’una riflessione estetica. Nancy conclude che, per Hegel, l’Idea non può esistere senza il mondo sensibile. Vale la necessità d’una rappresentazione, fra la prima ed il secondo. Allora, per Nancy l’estetica diventerebbe molto interessante. Sempre, l’arte si dà rappresentando se stessa (anche attraverso la sola astrazione). Facilmente, per Hegel proprio l’estetica giustificherà l’Idea che non può esistere senza un mondo sensibile. L’arte rappresenta in se stessa, e quindi rappresenterà come lo Spirito Assoluto, rispetto alla natura. Per Nancy, la bellezza ha una qualità dialettica. Essa si dà quando il mondo sensibile può “rappresentarsi assolutamente”, ossia “verso” la sua Idea. L’arte per Hegel acquista una buona importanza. Con quella, la rappresentazione sensibile (fra i vari oggetti) mira alla rappresentazione dall’Idea (rispetto alla sua natura). Per Hegel, un’opera d’arte ricorda il frutto staccato dall’albero, che ci pare bello solo se dentro le nostre mani. In via fenomenologica, l’estetica è una rimanenza. L’opera d’arte non ci rappresenta assolutamente l’Idea, bensì il sensibile assolutamente… “verso” l’Idea. Per Hegel, il bello sarebbe un “resto” della filosofia, quasi “velandola”. Il frutto ad esempio ci attrae (in quanto succoso), ma fuori dalla sua “completezza” all’essenzialità (fra i rami dell’albero). Per Hegel, l’arte permetterebbe al mondo materiale di “servire” l’Idea. A Nancy interessa il verbo tedesco < presentiren >, dove presentiamo qualcosa e pure… che “stiamo” presentando. Questo si capirà tramite l’immagine del vassoio coi frutti. Qualcosa che ci permetterà di servire, ma pure di esibire il nostro servire. Conosciamo il culto dei Romani per la dea Cerere, donatrice della frutta e maestra della coltivazione[27].
Formaggio ventilava una fenomenologia basata sulla caratteristica idea di artisticità. A partire da Baumgarten e fino a Croce, in estetica avrebbe “governato” il soggettivismo. Questo era radicato nel platonismo. Riferita all’idea, l’arte avrebbe funzionato da “pura visione” della conoscenza, salvo la necessità di respingere la materialità del nostro mondo. Modernamente, Leibniz e Wolff sono interessati a distinguere le discipline superiori da quelle inferiori. L’estetica appartiene al secondo gruppo, in quanto non universalizzante. Anche quando si tenterà di fondarla, in via teoretica, essa finirà per accettare l’idealismo. Qualcosa che avviene ad esempio in Croce. Ma, alla fine dell’800, inizia una ricerca diversa, che s’interessa alla più “pratica” scienza dell’arte, accantonando il mero concettualismo d’una scienza dell’estetica. Così, si toglierà la “vecchia” distinzione fra le discipline superiori e quelle inferiori. Contro una subconoscenza dei sensi, si rivaluta la fenomenologia. Conta l’estetica che “s’indirizzi” verso la “realtà” (la fattualità) dell’arte. Qualcosa da non idealizzare più. Allora Formaggio definisce la propria idea di artisticità. Egli critica il presupposto rischiosamente “romanticheggiante” o persino “mistico” per cui l’estetica dà solo un tipo d’autocoscienza. Meglio sarà tornare alle tecniche fattuali[28]. Inoltre, Formaggio evita una distinzione teoretica fra i fenomeni dell’estetica ed i fenomeni dell’arte. Questo davvero rompe con l’idealismo. L’estetica funzionerà in via d’esperienza totale. In quella, bisognerà inserire anche la fenomenologia sul fare artistico (fra le tecniche o gli stili prescelti), sempre preservandone la dialettica col concettualismo da conoscere (se all’autore s’accompagna un fruitore)[29].
Ma come percepire una totalizzazione dell’estetica? Per Formaggio essa non sarà né idealizzabile né relativizzabile. Serve una fondazione “scientificamente” teoretica, evitando però la banalizzazione al “rango inferiore” delle discipline. Formaggio scriveva negli anni ’60, quando l’estetica era sul serio propensa ad accertarsi in via analitica. Nel contempo, gli pareva che un comune pregiudizio verso il soggettivismo avesse fin troppo favorito l’idealismo, a discapito delle tecniche o degli stili. C’era stata una “confusione” teoretica fra l’estetica e la poetica, laddove quest’ultima riguardava il libero esprimersi del pensiero, in un autore. Qualcosa che portava a svalutare l’arte, agli “occhi” tanto dei filosofi quanto della società civile “più impegnata”. Perfino classicamente, il termine estetica era nato dentro il presupposto d’una “confusione” sensibile, con tutta la sua “inferiorità”. Formaggio non svaluta la dimensione della poetica autorale. Ma sarebbe sbagliato postulare che quella spieghi da sola il fatto artistico. Normalmente, gli autori hanno interesse ad universalizzare la loro opera, per ottenere un pubblico. Ma quella è fruita in quanto “presa in se stessa”, non potendo prescindere dalla tecnica o dalle stile adottati. Per Formaggio, più che un’estetica universalizzante, servirebbe un’estetica totalizzante. Quanto l’idea di artisticità si percepirà in se stessa come generativa, così a compartecipare del suo differenziarsi, mediante una tecnica ed uno stile sul materico?
Allora, Formaggio apre all’universalizzazione fenomenologica. L’idea di artisticità è una fra le varie dimensioni “al centro” della storia, esattamente come la l’idea della giustizia, l’idea del bene, l’idea della verità ecc… Ma ora quale sembrerà la differenza fenomenologica? L’idea di artisticità diventa l’idea in grado di farsi nel contempo “esperienza totale”. Pare qualcosa da percepire “all’inglobarsi” delle tecniche e degli stili, sul “centro” d’una poetica autorale[30]. L’idea di artisticità avrebbe una vena “co-estensiva”. Essa totalizzerà il “pensare” che non possa mai eludere un aspetto del suo “farsi”[31]. I singoli enti immediatamente si manifestano a noi. Ma questo non ci sembra estetico. Pochi enti si manifestano “totalmente” a noi, inglobando la loro materialità al “centro” d’una poetica. Questo è il caso dell’attività artistica. Ma servirebbe una fenomenologia anche per l’accentrarsi della poetica autorale…
Se introduciamo al “fare” artistico, ciò comporta un “vissuto” artistico. Chi è “preso” dall’esteriorità, ne “accentra” in sé i limiti. Formaggio avalla una fenomenologia che riguardi il farsi dell’esperienza artistica. Qualcosa che “sia così presa” dall’esteriorità sino ad “accentrarne” in sé totalmente i limiti. Una percezione del vissuto ci sembra più “inglobante”, rispetto a quella dell’autocosciente. Il centro dell’idealismo non è mai co-estensivo. Per il fenomeno artistico, Formaggio avalla la teoretica sulla percezione, sulla tecnica, sui materiali, sullo stile, sul gusto, sull’apprendimento, sul messaggio ecc… che esteriorizzano la coscienza d’un autore. Sono eventualità non più riducibili dall’idealismo (anche codificandone una struttura), in quanto continuamente “inglobate” dal proprio “farsi”. L’idea di artisticità rappresenterebbe un “seguito” della percezione sulla tecnica, dei materiali sullo stile, del gusto sull’apprendimento ecc…, scombinabili a seconda d’una poetica. C’è un “vissuto” estetico, che porta comunque le “limitazioni fattuali” a “trascendersi”, mediante l’alterità dei fruitori (col loro mondo di parametri socioculturali). Anche ciascun interprete ha una propria situazione! Formaggio caldeggia un coordinamento fra le discipline che per l’arte respingono sia il realismo “ingenuo” (da imitare) sia l’idealismo “presuntuoso” (romanticheggiante): la psicologia e la sociologia, ad esempio. La fenomenologia si pone sul senso del mondo (o della storia) “allo stato nascente”. Formaggio lo conferma, contro l’idealismo di Croce. Da un lato c’è l’esperienza d’un vissuto che produce l’arte, e dall’altro lato c’è l’idea di artisticità che esprime uno “stato nascente” della percezione, del materiale, dello stile, del messaggio, del gusto ecc… Il fruitore dovrà scoprire un senso in continuo movimento (mai presupposto per realismo od idealismo). L’idea di artisticità insomma posiziona l’attività d’una poetica “solo allo stato nascente”. Formaggio avallerà una sorta d’intenzionalità estetica, che parta dal vissuto sulla tecnica, sulla percezione, sul messaggio, sul gusto ecc… d’una poetica autorale. L’arte ha una sua contestualità, in quanto espressa nel mondo finito. La tecnica, la percezione, il gusto, il messaggio ecc… inevitabilmente funzioneranno nella loro passività. Ma l’idealità dell’arte appare fenomenologica, per cui “solo allo stato nascente” del soggettivismo poetico. Qualcosa che poi attivamente dovrà “comunicare” col fruitore. Sarà un universalismo di nuovo non metafisico. L’intenzionalità (dall’origine attiva) e la sub-intenzionalità (dall’origine passiva) comporteranno per il fenomeno estetico una comprensione “graduale” (in continuo movimento, se l’artisticità ha in sé tanto l’idea quanto l’esperienza storica). Per Formaggio, è una dimensione che vale a prescindere dalle differenziazioni per stile, materiali, percezioni, gusti, rituali, funzionalismi ecc… Certo agli inizi del ‘900 l’avanguardismo rompe con la tradizione dell’estetica solo o quasi imitativa. A ruota, l’idea di artisticità può sfruttare una grande ricchezza d’intenzionalità fenomenologica.
Ma torniamo alla “misteriosa” figura del Demiurgo platonico. Egli vorrà perfezionare le “invisibili” idee. Bisognerà che la totalizzazione dell’unità si differenzi. Le idee sembreranno eternizzate allo stato “soltanto nascente” delle cose sensibili, e tramite un ricettacolo. Il Demiurgo platonico funge da artefice. Egli “plasma” il ricettacolo spaziotemporale delle idee in partecipazione sul mondo finito. Ma è ricostruibile un’intenzionalità fenomenologica? Chi modella o plasma qualcosa, sembra che le “giri totalmente intorno”. Il Demiurgo quasi servirà l’Iperuranio. Egli non rappresenterebbe le idee, bensì le cose sensibili assolutamente… verso le idee. C’è sempre la differenziazione del ricettacolo. Qualcosa in cui unicamente “si giri intorno”. Ma il Demiurgo sarà immaginabile in via co-estensiva? Tornerà pure l’idea di artisticità? Ci servirebbe un avvicinamento fra il platonismo e l’ontologismo. Allora rivalutiamo la materialità, sfruttando la differenziazione d’un ricettacolo “a stato nascente delle idee”. Né l’Essere potrà “ridursi” ad un problema d’autocoscienza. Il Demiurgo avrà l’idea di artisticità, e grazie al ricettacolo d’una materia “assolutamente verso” l’Iperuranio. Sfortunatamente Platone rinunciò a citare la fenomenologia percettiva, sull’eventualità d’una generazione dall’Uno al molteplice. Forse, il Demiurgo totalizzerebbe il “pensare” delle idee che “non eluda mai un aspetto” del proprio “farsi per partecipazione” sulle cose sensibili. Questa conclusione avvicina quantomeno il platonismo alla fenomenologia dell’intenzionalità.
Bibliografia consultata:
- A. ARESU, Filosofia della navigazione, Bompiani, Milano 2006
- G. BACHELARD, Psicanalisi dell’aria, Red Edizioni, Milano 2007
- G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997
- G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002
- D. FORMAGGIO, L’idea di artisticità, Ceschina, Milano 1962
- C. LUCHETTI, Tempo ed eternità in Platone, Mimesis, Milano 2014
- J. L. NANCY, Il peso di un pensiero: l’approssimarsi, Mimesis, Milano 2009
- D. MELLING, Platone, Il Mulino, Bologna 1995
- PLATONE, Tutte le opere 1, Newton & Compton, Roma 1997
- PLATONE, Tutte le opere 2, Newton & Compton, Roma 1997
[1] PLATONE, Tutte le opere 1: Teeteto, Newton & Compton, Roma 1997, passo 185/D
[2] C. LUCHETTI, Tempo ed eternità in Platone, Mimesis, Milano 2014, p. 249
[3] PLATONE, Tutte le opere 1: Fedone, Newton & Compton, Roma 1997, passo 70/D
[4] D. MELLING, Platone, Il Mulino, Bologna 1995, p. 91
[5] A. ARESU, Filosofia della navigazione, Bompiani, Milano 2006, p. 31
[6] PLATONE, Tutte le opere 1: Sofista, Newton & Compton, Roma 1997, passo 258/A
[7] PLATONE, Tutte le opere 2: Parmenide, Newton & Compton, Roma 1997, passo 142/C
[8] G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, p. 126
[9] C. LUCHETTI, Tempo ed eternità in Platone, Mimesis, Milano 2014, p. 302
[10] C. LUCHETTI, Tempo ed eternità in Platone, Mimesis, Milano 2014, p. 216
[11] PLATONE, Tutte le opere 2: Parmenide, Newton & Compton, Roma 1997, passo 156/D
[12] D. MELLING, Platone, Il Mulino, Bologna 1995, p. 185
[13] C. LUCHETTI, Tempo ed eternità in Platone, Mimesis, Milano 2014, p. 128
[14] C. LUCHETTI, Tempo ed eternità in Platone, Mimesis, Milano 2014, p. 177
[15] D. MELLING, Platone, Il Mulino, Bologna 1995, p. 177
[16] D. MELLING, Platone, Il Mulino, Bologna 1995, p. 149
[17] G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, p. 85
[18] D. MELLING, Platone, Il Mulino, Bologna 1995, p. 146
[19] A. ARESU, Filosofia della navigazione, Bompiani, Milano 2006, p. 21
[20] G. BACHELARD, Psicanalisi dell’aria, Red Edizioni, Milano 2007, p. 144
[21] G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, p. 98
[22] G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, p. 93
[23] G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, p. 59
[24] G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, p. 62
[25] G. BACHELARD, Psicanalisi dell’aria, Red Edizioni, Milano 2007, p. 141
[26] G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, p. 100
[27] J. L. NANCY, Il peso di un pensiero: l’approssimarsi, Mimesis, Milano 2009, pp. 37-59
[28] D. FORMAGGIO, L’idea di artisticità, Ceschina, Milano 1962, p. 334
[29] D. FORMAGGIO, L’idea di artisticità, Ceschina, Milano 1962, p. 267
[30] D. FORMAGGIO, L’idea di artisticità, Ceschina, Milano 1962, p. 312
[31] D. FORMAGGIO, L’idea di artisticità, Ceschina, Milano 1962, p. 348
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