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(courtesy to rivista Kritika, che in origine aveva pubblicato questo articolo)
A Venezia, presso il Palazzo Fortuny, è stata ospitata dal 1 Settembre al 19 Novembre la mostra personale dal titolo Tutte le cose emergono dal nulla, con le fotografie di Franco Vimercati. Sempre egli inquadra certi oggetti, d’uso quotidiano. Riconosciamo soprattutto i vasi, le caffettiere, i calici, le sveglie. La mostra di Venezia è stata curata da John Eskenazi ed Elio Grazioli.
Negli scatti di Vimercati, gli sfondi si vedranno interamente neri. L’inquadratura “schiaccia” gli oggetti; questi si percepiranno virtualmente dentro la stessa macchina fotografica. Sapendo il titolo della mostra, sarà vero che l’immagine scattata emerga dal nulla. L’inquadratura “schiaccia” l’oggetto. Pare che questo riaffiori dalla macchina fotografica. L’oggetto è visto sul mero livello “in superficie” dello schermo. Qualcuno avrà l’impressione che lo scatto debba ancora partire. L’oggetto sarà inquadrato nel “nulla” dello schermo. Vimercati rinuncia ad esibire la profondità. Su questa, sarebbe facile aspettarsi che gli oggetti diventino molti. La profondità inviterebbe a guardare la pienezza delle loro relazioni, in via percettiva. Lo sfondo nero e l’inquadratura “schiacciante” lasciano gli oggetti ad emergere nel mero “stand-by” del nulla. In qualche modo, pare che Vimercati riutilizzi il negativo dell’immagine fotografica. Qualcosa dove l’oggetto dia una visione di sé solo al proprio “inizio”. Il negativo fotografico è giudicato inutile, in quanto propedeutico alla chiarezza. Vimercati ama inquadrare gli oggetti nel rovesciamento della loro posizione normale. E’ una scelta che conferma esteticamente il ritorno al primo momento dello scatto. Giunta sulla “superficie” della pellicola, l’immagine esterna si farà capovolgere. Nello sviluppo fotografico, si conoscono i bagni chimici (permettendo al negativo d’acquistare chiarezza). Vimercati lascerebbe gli oggetti immergendoli nella loro inquadratura, anche perché questa andrà ruotando. Sembra che l’artista abbia in mano una cinepresa. Essa avrebbe più movimenti “indaganti”, girando attorno alla configurazione degli oggetti. Se ci immergessimo, sarebbe naturale “scavare” a mano lo spazio innanzi, per nuotare. Gli oggetti inquadrati da Vimercati così si percepiranno nel “bagno chimico” del loro “stand-by” ottico. L’inquadratura li schiaccerebbe quasi sostituendo il lavello della camera oscura, dove sviluppare il primo negativo. Gli oggetti rimarranno nella sola superficie d’una “pseudo-cinepresa fotografica”, dai movimenti “pesantemente lenti”, che noi percepiremmo nella loro immersione. Almeno il vaso ci mostra una sua incrinatura. Materialmente parlando, essa deriva dalla “vecchiezza” della ceramica, col logorio dell’uso. Simbolicamente, però, l’incrinatura del vaso deriverà dalla stessa macchina fotografica, con la sua inquadratura “schiacciante”. Vimercati ama scattare in serie. Lo stesso oggetto è inquadrato più volte, cambiandone l’angolazione, benché solo leggermente. Così si può visualizzare il movimento pesantemente lento della “pseudo-cinepresa fotografica”. I calici avranno la sovrapposizione della loro immagine, parendo alla fine multipli. Contro l’inquadratura “schiacciante” dello stand-by “al negativo” (sulla mera “superficie” del nitido), l’oggetto tenterà di “scavare” lo spazio intorno, per riaffiorare, guadagnata almeno l’espressività. Nella pellicola fotografica, all’inizio avviene un rovesciamento semplice (mentre si scatta), cui segue il rovesciamento per sovrapposizione (tramite l’immersione nel bagno chimico). Vimercati inquadra la brocca o la caffettiera. Oggetti in cui si percepisca tutta la “pesantezza lenta” del liquido da versare, complice la lunghezza del beccuccio. Quest’ultimo naturalmente ha un aspetto molto schiacciato.
Per il filosofo Baudrillard, dentro la casa l’ambiente va sempre percepito in via dialettica, fra il calore della nostra intimità e la distanza che gli oggetti assumono, da se stessi all’uso che ne facciamo. Si consideri il caso del più classico ufficio. La scrivania del professionista certo non è usata dal suo cliente, che prende la prima sedia a disposizione. Qui l’oggetto d’arredamento marca una chiara distanza, in via sociologica. Per Baudrillard, nell’ambiente domestico la nostra percezione degli oggetti invece diviene intercambiabile. Abitare qualcosa è letteralmente un prendersene cura. La casa avrà oggetti d’arredamento più “flessibili”, nella distanza fra se stessi ed il loro utilizzo. Prendendoci cura di qualcosa, la rapportiamo costantemente alla nostra vitalità. Non è un mero uso. Ci prendiamo cura di qualcosa interagendo con questa nel suo ambiente. Dentro la casa, la nostra vitalità consente che abitiamo. Gli oggetti d’arredamento avranno una funzione che letteralmente venga “incontro” a noi, senza più distanziarsi. E’ il momento in cui ad esempio togliamo la polvere da un comodino, oppure invertiamo i cuscini del divano. Il “funzionamento” di tali oggetti non pare fine a se stesso, bensì rapportato alla nostra sensibilità interiore. Esteticamente, emergerà l’ambiente. Prendendoci cura della casa, noi non utilizziamo e basta gli oggetti d’arredamento, se li utilizziamo mentre interagiamo con loro. Dovendo ambientarsi, l’intimità (coi desideri personali) sarà percepita più funzionando (trasferendosi nella facoltà esteriore dei cinque sensi) che per se stessa. Negli uffici, invece, lo strutturalismo sociale, per cui distinguiamo i ruoli del professionista e del cliente, si rifletterà in quello estetico dell’arredamento, sia accogliente (o “caloroso”) sia “inflessibile” (senza interazione). Per Baudrillard, ciò razionalizza ogni possibile conflitto d’interessi, dovendo percepire la giusta ambientazione.
Vimercati spiegò che per lui la fotografia rappresentativa non avrebbe più avuto senso. Solo, accadeva che un pezzo di carta ai sali metallici potesse catturare la forma luminosa degli oggetti. Ciò conferma esteticamente che si percepirà una rappresentazione “schiacciata” (dallo schermo inquadrante). Gli oggetti rimarrebbero in superficie, senza la profondità, ricevendo una chiarezza solo “increspata”, tramite dei bagliori “appesantiti”. Pensiamo a quando riaffioriamo dall’immersione. Vedremo la luce “ondeggiare” in superficie. Molti fra gli oggetti inquadrati da Vimercati hanno una costituzione metallica o di vetro: le caffettiere, le brocche, i calici ecc… Nei loro rilievi, è facile immaginare che la luce esterna si percepisca ad “ondeggiare”. Qui pare che l’artista voglia pulire la “patina” della semplice rappresentazione, riportandola virtualmente al suo incipit “al negativo”. La scialba luminosità del metallo o del vetro sarebbe la stessa che rinveniamo sulla pellicola fotografica ancora “superficiale”, nella camera oscura. Scattando, comunichiamo tutto il nostro “calore” per l’ambiente inquadrato. Quantomeno virtualmente, spereremmo d’annullarne la distanza. La fotografia permette all’ambiente inquadrato d’immortalarsi. Va fermato il trapassare del presente. Tutti gli oggetti esibiti da Vimercati avvertiranno il “calore” dello schermo inquadrante, che li “schiacci”. Non conta più il loro funzionamento, bensì quello per noi. La macchina fotografica dell’artista giungerebbe almeno a prendersi cura di tali oggetti. L’ambiente spesso è un luogo chiuso: basti pensare a quello domestico. Però Vimercati cerca un’inquadratura “pseudo-cinematografica” che giri lentamente intorno ai singoli oggetti. E’ la percezione d’un possibile ambientamento. Gli oggetti letteralmente ci verranno incontro, un po’ alla volta. E’ come se noi “ondeggiassimo” col nostro sguardo al “riaffiorare” della loro luce. Vimercati, in campo fotografico, toglie la “patina” della banale rappresentazione per tornare al negativo fondante dell’ambientamento. Spesso gli oggetti sono inquadrati posando “fascinosamente” a ¾, avendo un elemento aggettante che subito noi percepiremo come in rotazione. Qualcosa che ci consenta l’ambientamento d’uno “zoom”, entro il consueto schermo fotografico. E’ suggestiva l’immagine della caraffa dal beccuccio molto aperto. Ci sembra che questo costituisca una specie di “mini-poltrona”. Qualcosa che permetta al nostro sguardo d’ambientarsi, girando attorno alla lucentezza “ondeggiante” del metallo.
Per Baudrillard, le sedie hanno una funzionalità rapportata alla nostra sensibilità interiore. Conosciamo molte maniere d’accomodarsi. Potremmo stravaccarci, incrociare le gambe, dondolare sullo schienale ecc… La nostra sensibilità interiore nel modo di sedersi varrà pure come segno d’appartenenza sociale, sotto lo sguardo degli altri. Pensiamo alla classica “tavolata” per i pasti. Da un lato vale la compostezza del busto seduto, e dall’altro lato la volubilità dello sguardo, indirizzabile da un commensale all’altro, anche senza che quelli ci rispondano. Nel colloquio d’ufficio, invece, abbandonare il faccia a faccia diviene quasi “maleducato”.
Durante la “tavolata”, gli sguardi si muovono liberamente. Così, si evita la “solitudine” del faccia a faccia in ufficio, quando un interlocutore ci sembra preminente, rispetto all’altro. Il pouf, la panchina relax oppure il canapè consentirà una posa “volubile”. Trattasi di sedie in cui il corpo può virtualmente acquistare una “profondità”. Gli arti si stiracchieranno, l’animo si farà coinvolgere dalla morbidezza del tessuto. In chiave percettiva sembra che il pouf, la panchina relax oppure il canapè consenta di sedersi “in aria”. Non avviene tanto il semplice accomodarsi, bensì il più astratto accomodarsi “con lo sguardo”. Rimovendosi, grazie alla sua morbidezza, il pouf, la panchina relax oppure il canapè consentirebbe al corpo di diffondersi sullo spazio. Ciò vale per il più semplice sguardo, normalmente. Il pouf, la panchina relax oppure il canapè garantisce che la posa non sia né troppo “alta” (con tutta la concentrazione del colloquio in ufficio), né troppo “bassa” (una volta sdraiati, solo per dormire). Un genere di sedia che favorisca la libera circolazione degli arti, insieme a quella dello sguardo.
Nelle fotografie di Vimercati, c’è un vaso che avrebbe una sorta di “manico”, raffigurante la miniatura d’un “volto maschile”. Qualcuno immaginerà di vederne soprattutto le tempie, “sporcate” di nero. Pure la virtualità del manico è esteticamente rilevante: questo comunque funzionerebbe male, avendo scarsa sporgenza. A destra, dal bordo del vaso compare un “inquietante” crepo. Per noi sarà facile immaginare la malinconia dello “pseudo-volto maschile”, inclinato verso il basso, evitando di corrispondere al nostro sguardo. Vimercati dunque critica simbolicamente la preminenza? La coppa è un oggetto che assegniamo ai vincitori. Ma per l’artista essa “fulminerebbe” (tramite il dettaglio del crepo, che cade dal vuoto sopra il bordo) l’effige del suo trattenitore. Ora il “manico” simbolicamente non sarebbe più accogliente, per il nostro sguardo. Quest’ultimo potrebbe sedersi in aria, entrando nella concavità superiore del vaso. Ma l’acquisto d’una profondità finirà per restringersi, cadendo “nell’imbuto” del più inquietante crepo.
Vimercati accompagna la compostezza dell’inquadratura centrante sugli oggetti alla volubilità del nostro affiorarvi con lo sguardo (complici i loro elementi aggettanti). Lo schermo fotografico ha più movimenti quasi da cinepresa. E’ suggestivo che Vimercati inquadri pure le sveglie rovesciate. In queste, avviene che il presente non trapassi più. Con le sveglie rovesciate è impossibile conoscere l’ora. Le loro lancette forse perdureranno a girare, ma immaginandosi dentro la fissità astratta d’un eterno presente. Sembra che così la temporalità “s’accomodi” in se stessa. Ciò avverrà tramite la libera circolazione delle lancette, perduta la linearità dell’ora.
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