All’inizio della mia carriera di lettore, ero un ragazzetto imberbe, con la testa piena di ideali, che veniva affascinato solo dal realismo. Proprio quest’ultima corrente, il realismo, era ciò che mi guidava nella vita come nella lettura. Le storie che si potevano trovare nei libri, meno aderivano alla realtà della vita terrena, meno suscitavano in me interesse.
All’epoca, era solo uno il mio scrittore prediletto, Dostoevskij. Il suo realismo mi arrivava in modo così tagliente, profondo e umano che mi spingeva a proseguirne la lettura perfino in macchina. Mai fu così caro il trattenersi della luce rossa del semaforo. Le pagine di Delitto e Castigo mi avevano coinvolto a tal punto che, leggendo di quel disumano Mikòlka che prendeva a sprangate il suo cavallo, ebbi l’impulso di intromettermi tra le parole per cambiare lo svolgersi della scena cruenta.
Il russo era così capace di muovere in me certi tumulti che per forza mi legava al realismo e si imponeva come mio preferito. Tuttavia, come succede ancora oggi, alcuni libri mi rimbalzavano continuamente attorno. Così capitò che in cima alla mia lista di letture si presentasse un titolo più ricorrente tra tutti, Cent’anni di solitudine, dell’allora a me sconosciuto Gabriel García Márquez.
Se dopo aver gustato un gelato con la stecca di legno, prendete quest’ultima tra i pollici e gli indici e la piegate fino a spezzarla, potete sentire propagarsi per le mani un certo vibrato. Lo stesso effetto sortì in me la scoperta del realismo magico.
Nel citato capolavoro di García Márquez, che narra la saga della famiglia Buendía, avevo ritrovato il mio caro realismo, ma combinato con un certo fantastico da cui fino a quel momento ero rifuggito. Quella narrazione era stata capace di spingere il suo vibrato così in profondità dentro di me che, perfino molto dopo la conclusione della lettura, aveva continuato a sortire il suo effetto, fino a farmi interrogare sulle origini della sua forza.
Esegeta per vocazione, intuii ben presto che non poteva essere la semplice innovazione letteraria della mescolanza dei due generi quel che costringeva il libro nella mia testa, enfatizzando in me il piacere e la curiosità di scoprirne l’autore.
La mia attenzione ricorreva a quel fantastico, che niente aveva a che fare con gli elementi alieni che fino ad allora, imberbe, avevo considerato propri del genere. Compresi che quella forma narrativa, il fantastico, non riguardava una dimensione avulsa dalla vita terrena che conoscevo, anzi, il fantastico compenetrava totalmente la realtà, con essa si confondeva, si immischiava, si fondeva, fino a rendere le due dimensioni quasi complementari e inseparabili.
Cent’anni di solitudine (più avanti ebbi modo di apprendere lo stesso di tutta l’opera di Gabo) è come una grande valigia di ricordi ritrovata nella soffitta. Quanto contenuto al suo interno è capace di rievocare il folclore, le suggestioni, i miti e le leggende non solo dell’infanzia, se lo si legge da ragazzi o da adulti, ma di tutta la tradizione di un paese.
Compresi che Gabo, nei suoi romanzi, con la maestria di chi è nato per fare una cosa specifica, ha giocato con il notevole patrimonio della memoria della sua terra latina, con i suoi personaggi, i suoi luoghi e le vicende che ad essa appartengono.
Tuttavia, quella che poteva essere una facile deduzione, quando si manifestò come rivelazione, mi sopraggiunse del tutto inaspettata: lo scrittore aveva inventato molto meno di quanto si potesse pensare. Come lui stesso aveva dichiarato, alla base della sua narrazione c’erano i racconti di sua nonna, racconti del tutto incredibili con i quali lo incantava, quando era ancora bambino, mentre la stava ad ascoltare. E quanto più era strabiliante il racconto quanto più la donna assumeva un tono serio, credibile.
Io sono sicuro che di tutti i popoli sulla terra non ce n’è uno che, di generazione in generazione, non tramanda ancora oggi storie fantastiche endemiche. L’umanità, sin dai tempi della preistoria (il periodo convenzionalmente considerato della pre-scrittura) si è ritrovata seduta attorno ad un focolare per intrattenersi e divertirsi, per impaurire ed educare, bambini e adulti.
Per questo non mi pare un azzardo dire che l’opera di Gabo è una ricchezza che ogni uomo custodisce dentro di sé fin dall’infanzia – o forse già alla nascita – magari messagli dai nonni, magari datagli dalle fiabe lette dalle mamme, oppure inventata, riscoperta o rivista con la propria fantasia. A sostegno di questa ipotesi, si consideri l’incredibile fatto, capace di ammutolire e ammaliare anche la persona più razionale, che fiabe del tutto analoghe sono state inventante e raccontate da popoli che non son mai entrati in contatto tra di loro.
Nell’82, l’Accademia Svedese ha motivato l’assegnazione del Nobel alla Letteratura a García Márquez “per i suoi romanzi e racconti, nei quali il fantastico e il realistico sono combinati in un mondo riccamente composto che riflette la vita e i conflitti di un continente”.
Ebbene, lungi dal voler essere irriverente nei confronti della giuria del più prestigioso premio letterario del mondo, ma mi concedo la licenza di correggere almeno una parte di questa già notevole motivazione.
La vita e i conflitti che Gabo ha messo in luce grazie alla sua opera non sono propri di un solo continente, il suo, ma riguardano la vita e i conflitti dell’intera umanità.
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